Reg. ord. n. 223 del 2025 pubbl. su G.U. del 19/11/2025 n. 47
Ordinanza del Tribunale di Bologna del 29/09/2025
Tra: M. C.
Oggetto:
Reati e pene – Aiuto al suicidio – Non punibilità, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 242 del 2019, di chi, alle condizioni e modalità stabilite nella medesima sentenza, agevola l’esecuzione del proposito dell’altrui suicidio – Denunciata previsione che la non punibilità sia subordinata alla circostanza che l’aiuto sia prestato a una persona “tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale” – Violazione del principio di eguaglianza, in relazione a casi di pazienti affetti da patologie gravissime che non implichino, tuttavia, il necessario ricorso a trattamenti di sostegno vitale – Violazione del diritto all’autodeterminazione nelle scelte terapeutiche – Contrasto con il principio di inviolabilità della libertà personale.
Norme impugnate:
codice penale
del
Num.
Art. 580
Parametri costituzionali:
Costituzione
Art. 2
Co.
Costituzione
Art. 3
Co.
Costituzione
Art. 13
Co.
Costituzione
Art. 32
Co. 2
Costituzione
Art. 117
Co. 1
Convenzione per la salvaguardia diritti dell'uomo e libertà fondamentali
Art. 8
Co.
Testo dell'ordinanza
N. 223 ORDINANZA (Atto di promovimento) 29 settembre 2025
Ordinanza del 29 settembre 2025 del Tribunale di Bologna nel
procedimento penale a carico di M. C., F. M. e V. F. .
Reati e pene - Aiuto al suicidio - Non punibilita', a seguito della
sentenza della Corte costituzionale n. 242 del 2019, di chi, alle
condizioni e modalita' stabilite nella medesima sentenza, agevola
l'esecuzione del proposito dell'altrui suicidio - Denunciata
previsione che la non punibilita' sia subordinata alla circostanza
che l'aiuto sia prestato a una persona "tenuta in vita da
trattamenti di sostegno vitale".
- Codice penale, art. 580.
(GU n. 47 del 19-11-2025)
TRIBUNALE DI BOLOGNA
Sezione G.I.P.
Il Giudice dott. Andrea Salvatore Romito,
letti gli atti del procedimento sopra indicato nei confronti di:
M. F. , nata il ... a ... , residente a ... , in ... e difesa
di fiducia dagli avv.ti Francesca Re del foro di Roma e Francesco di
Paola del foro di Lagonegro;
F. V. , nata il ... a ... , residente a ... , in ... e difesa
di fiducia dagli avv.ti Rocco Berardo e Francesca Re del foro di
Roma;
C. M. , nato il ... a ... , ivi residente in via ... e difeso
di fiducia dall'avv.ta Filomena Gallo del foro di Roma;
indagati per il reato di cui agli articoli 110, 580 del codice
penale;
esaminata la richiesta di archiviazione datata 13 febbraio 2023;
sentite le parti nel contesto camerale del 29 marzo 2023;
ha reso la seguente ordinanza.
Questo Giudice ritiene opportuno sollevare questione di
legittimita' costituzionale dell'art. 580 del codice penale,
limitatamente alle parole «tenuta in vita da trattamenti di sostegno
vitale» - ponendosi le stesse in contrasto con gli articoli 2, 3, 13,
32 secondo comma e 117, primo comma, Cost., quest'ultimo in
riferimento all'art. 8 Convenzione europea per la salvaguardia dei
diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali - e ravvisando nella
parte di norma segnalata, il concreto pericolo di una arbitrarieta'
applicativa e di un pregiudizio lesivo del principio di eguaglianza
in relazione a casi di pazienti affetti da patologie gravissime che
non implichino, tuttavia, il necessario ricorso a trattamenti di
sostegno vitale.
Sulla rilevanza della questione.
Ai fini di una compiuta e appagante illustrazione della rilevanza
della questione dedotta pare doveroso operare una sintetica e
preliminare ricognizione degli sviluppi fattuali della vicenda in
esame.
P. R. era un'anziana signora affetta da anni da una forma
avanzata di parkinsonismo da paralisi sopranucleare progressiva, una
patologia neurodegenerativa appartenente al gruppo delle c.d.
taupatie (v. all. 6).
Il parkinsonismo si sostanzia in una patologia
cronico-degenerativa del sistema nervoso centrale, ad eziologia non
ancora chiarita, che non si giova di specifiche terapie; l'evoluzione
della variante «tau», inoltre, si mostra ancor piu' rapida e
aggressiva, interessando inizialmente il solo aspetto motorio e - nel
tempo - anche quello cognitivo. Il paziente che ne e' portatore
assiste alla progressiva paralisi della muscolatura volontaria,
conservando di contro l'operativita' delle attivita' cardiache e
respiratorie: cio' comporta la riduzione - fino alla totale scomparsa
- delle capacita' comunicative, trovandosi l'infermo impedito sia
nell'articolazione della parola sia nei gesti espressivi del volto e
del corpo nella loro globalita'.
La diagnosi di detta patologia a carico della R. e' assai datata:
i primi sintomi comparivano gia' nel ..., ma solo tre anni dopo si
imponevano con veemenza tale da rendere necessaria una visita
neurologica che, all'esito di una tac con mezzo di contrasto,
validava anche strumentalmente la valutazione gia' supposta.
La repentina involuzione propria della citata variante involgeva
anche la specifica condizione clinica della R. tanto che nel ...,
l'apposita commissione medico-legale della ASL di Bologna -
definitivamente riconoscendo la paziente quale «portatore di handicap
in situazione di gravita'» - non disponeva neppure un'ulteriore
visita di controllo, di fatto escludendo qualsivoglia possibilita' di
recupero.
Come anticipato, l'affezione in discorso non risponde a
particolari terapie; invero, farmaco assunto con regolarita' dalla
donna era il «Madopar», il quale - lungi dal modificare o rallentare
l'evoluzione della malattia o dall'incidere sulla prognosi, che
rimane infausta a prescindere dal suo impiego - si limitava a ridurre
i tremori e le rigidita' degli arti.
Ad ogni modo, l'aspetto piu' penoso e condizionante concerneva la
restrittiva limitazione nei movimenti, dovendo la R. - di necessita'
fare ricorso all'ausilio di terzi per ogni sua basilare occorrenza.
Essa, infatti, pur essendo ancora abile alla masticazione (in
prevalenza di cibi semisolidi), non era piu' in grado di portarseli
da bocca da se'; parimenti, manteneva la continenza delle feci e
delle urine, ma non poteva alla scopo recarsi in bagno in autonomia
ne' tantomeno svolgere le funzione igieniche complementari all'atto;
allo stesso modo, fino a pochi mesi prima del decesso riusciva a
spostarsi per pochi metri con un deambulatone, ma non era in
possibilita' di raggiungerlo in autonomia ne' di assicurarsene
stabilmente la conduzione.
Nondimeno - per quel che in questa sede piu' rileva - la R.
veniva sottoposta a specifiche osservazioni neurologiche e
psichiatriche, al dichiarato scopo di addivenire ad una fondata stima
circa la sua capacita' di autodeterminazione, in ordine ad
un'eventuale richiesta di accesso alla tecnica del suicidio
medicalmente assistito.
Dal parere tecnico neurologico e neuropsicologico redatto dal
prof. A. S. (v. all. 2) emergeva con evidenza come, sul piano
cognitivo, pur con le difficolta' di valutazione connesse ai deficit
motori e manuali, la paziente apparisse «conservata nel rendimento
cognitivo globale, nella comprensione dei compiti e nelle prove che
sottostanno la capacita' decisionale».
Il parere metteva ancora in luce come le capacita' di
espressione, ancorche' ridotte dalla compromissione motoria,
permettessero tuttavia, mediante modalita' ad hoc (verbali e non), di
apprezzare «i contenuti del pensiero e del ragionamento» della
paziente, sino a ritenere che il quadro neurologico e cognitivo della
stessa fosse compatibile con una conservata capacita' di
autodeterminazione.
A fornire interessanti spunti di riflessione e' poi la relazione
psichiatrica affidata al prof. R. A. (v. all. 3), dove si legge come
il colloquio con la paziente si fosse sovente interrotto per il
sopraggiungere di un gemito cantilenante e iterativo, con comparsa di
insofferenza, rabbia e frustrazione «per il non poter dar corso, in
forma verbale adeguata, ai propri vissuti e sentimenti».
Dal punto di vista psichico veniva rilevato come non emergessero
disturbi del contenuto del pensiero ne' errori psicosensoriali; di
contro, si imponeva con chiarezza come ella, da sempre attiva e
sportiva, proponesse nell'occasione «una sofferenza lacerante nel
sentirsi ingabbiata e ingessata» in un corpo che non le consentiva
piu' autonomia alcuna.
Ancora, veniva sottolineato come l'umore della donna apparisse
improntato ad una demoralizzazione e ad un «marcato avvilimento»,
coerenti alla «corretta percezione della propria grave situazione
fisica».
Dirimenti, infine, le conclusioni del professionista.
Anzitutto, la R. veniva definita lucida, vigile, orientata nel
tempo, nello spazio e «nei confronti della propria persona»; il suo
stato emotivo era inoltre definito come «congruo» alla corretta
percezione che la donna aveva della sua malattia e della prognosi
futura.
Infatti - gia' rispetto all'attualita' di quel momento - la
paziente proponeva una chiara incapacita' a sopportare ancora a lungo
cio' che alla stessa appariva come un calvario esistenziale e in
relazione a cui, in un momento di particolare affiato esistenziale,
«riusciva a verbalizzare la frase "stanca e' dire poco" accompagnata
da una mimica improntata a dolore e angoscia».
Infine, si sottolineava come la donna esprimesse lucidamente la
scelta, «autonoma e ben radicata nella progettualita'», di non
esporre se' stessa, e di riflesso i suoi familiari, ad una vita tanto
sofferta quanto inutile.
«Tale volonta' - si legge nelle ultime battute - appare libera,
consapevole, non influenza dai farmaci che assume, e si pone in linea
coerente con un proprio sentire, che pone la dignita' della persona
al centro delle proprie scelte».
Del resto, il tenore fermo della scelta consapevole della R.
traspare chiaro dalle sue stesse parole, affidate alla penna della
figlia (v. all. 5), dove la stessa si definisce «una donna dal forte
temperamento, diverso dalle sue coetanee», che ha vissuto «tenendo
sempre le redini di ogni [sua] scelta».
L'«incattivirsi dell'affaticamento corporeo» - si legge - aveva
costretto la figlia e «care persone vicine alla famiglia» a
sostenerla nelle semplici attivita' quotidiane («Questo si', aspetto
mortificante ed umiliante»), si' da indurla alla scelta ultima,
«dolorosa e motivata da una incrollabile volonta'».
Cosi' ricostruita la situazione clinica della R. , la vicenda in
oggetto muove quindi le premesse dalla richiesta di aiuto che la
stessa faceva pervenire al C. nel ...
La signora, infatti, aveva fermamente espresso la volonta' di
congedarsi dalla vita nel modo che ella riteneva piu' dignitoso per
se' stessa, autosomministrandosi un farmaco letale secondo le note
procedure previste dalla normativa .... .
A seguito dell'esito positivo del percorso avviato dalla donna
presso la clinica svizzera « ... », nel ... la donna prendeva
nuovamente contatti con l'indagato, esortandolo ad aiutarla a
raggiungere la ... cosi' da salvaguardare i suoi familiari da
eventuali conseguenze legali.
Il C. incontrava quindi la signora il ... presso la sua
abitazione, cosi' prendendo coscienza della totale e continua
dipendenza della R. da terze persone nonche' della consapevolezza
della stessa di non essere tenuta in vita da trattamenti di sostegno
vitale come individuati dalla storica sentenza n. 242/2019 della
Corte costituzionale.
Il 6 febbraio la M. ritirava un apposito veicolo per il trasporto
di persone con disabilita', precedentemente prenotato e pagato
dall'associazione « ... » di cui il C. e' legale rappresentante;
dopodiche', insieme alla F. , accompagnavano la R. sino alla
cittadina ... di
Nei giorni successivi si susseguivano due diversi colloqui con il
medico competente, volti a verificare la perdurante volonta' di
scelta della donna in ordine all'autosomministrazione del farmaco
letale, entrambi conclusosi con esito positivo.
Veniva, infine, stabilito che, a causa di alcuni spasmi alla
mandibola, la R. non avrebbe potuto autosomministrarsi il medicinale
per via orale e, dunque, era proposta l'alternativa della pompa ad
infusione, attivabile dalla donna stessa tramite un pulsante.
La vicenda si concludeva, dunque, ... - si legge
nell'autodenuncia presentata dagli indagati - «nel giro di pochissimi
secondi, in quanto la sig. P. premeva immediatamente il pulsante».
Cio' premesso, e' ormai opinione ampiamente condivisa quella
secondo cui a ciascuno spetta il fondamentale diritto di scegliere se
e come curarsi, il quale include anche quello di rifiutare le cure,
pure laddove si pongano come indispensabili alla sopravvivenza.
Il diritto di interrompere queste ultime presuppone una procedura
finalizzata alla verifica della fermezza del rifiuto, oggi
disciplinata dalla legge 22 dicembre 2017, n. 219.
In particolare, la legge citata riconosce a ogni persona capace
di agire il diritto di rifiutare o interrompere qualsiasi trattamento
sanitario, ancorche' necessario alla propria sopravvivenza,
ricomprendendo nella relativa nozione anche i trattamenti di
idratazione e nutrizione artificiale (art. 1, comma 5).
L'esercizio di tale diritto viene inquadrato nel contesto della
c.d. alleanza terapeutica tra medico e paziente, che la legge punta a
valorizzare: si tratta, invero, di una relazione «che si basa sul
consenso informato, nel quale si incontrano l'autonomia decisionale
del paziente e la competenza, l'autonomia professionale e la
responsabilita' del medico», e che puo' coinvolgere, «se il paziente
lo desidera, anche i suoi familiari o la parte dell'unione civile o
il convivente ovvero una persona di fiducia del paziente medesimo»
(art. 1, comma 2).
Nella specie e' stabilito che, ove il paziente manifesti
l'intento di rifiutare o interrompere trattamenti necessari alla
propria sopravvivenza, il medico debba prospettargli le conseguenze
della sua decisione e le possibili alternative, e promuovere «ogni
azione di sostegno al paziente medesimo, anche avvalendosi dei
servizi di assistenza psicologica» tutto cio' ferma restando la
possibilita' per il paziente di mutare in qualsiasi momento la
propria volonta' (art. 1, comma 5).
In ogni caso, il medico e' tenuto a rispettare la volonta'
espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di
rinunciare al medesimo, rimanendo «in conseguenza di cio' [...]
esente da responsabilita' civile o penale» (art. 1, comma 6).
Inoltre, integrando le previsioni della legge 15 marzo 2010, n.
38, la legge del 2017 prevede che la richiesta di sospensione dei
trattamenti sanitari possa essere combinata alla richiesta di terapie
palliative, allo scopo di alleviare le sofferenze del paziente (art.
2, comma 1).
Sul punto, la Corte costituzionale con la storica sentenza 25
settembre 2019, n. 242 ha ritenuto legittima (rectius: non punibile
per l'esercizio di un diritto fondamentale) la condotta di aiuto al
suicidio del malato, purche' si tratti di «una persona a) affetta da
una patologia irreversibile e b) fonte di sofferenze fisiche
psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia c)
tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti d)
capace di prendere decisioni libere e consapevoli».
L'art. 580 del codice penale, pertanto, e' stato dichiarato
incostituzionale «nella parte in cui non esclude la punibilita' di
chi, con le modalita' previste dagli articoli 1 e 2, legge 22
dicembre 2017, n. 219 - ovvero, quanto ai fatti anteriori alla
pubblicazione della presente sentenza nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica, con modalita' equivalenti nei sensi di cui motivazione -,
agevola l'esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e
liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti
di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di
sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma
pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre
che tali condizioni e le modalita' di esecuzione siano state
verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario
nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente
competente».
La pronuncia costituiva il naturale coronario dell'ordinanza n.
207/2018, con cui la Corte - pur ritenendo legittima l'incriminazione
dell'aiuto al suicidio, in quanto funzionale alla tutela del diritto
alla vita - aveva tuttavia osservato che, in particolari situazioni,
l'assoluto divieto di aiuto al suicidio limita la liberta' di
autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese
quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, senza che tale
limitazione possa ritenersi preordinata alla tutela della vita o di
altro interesse costituzionalmente apprezzabile.
Il paziente e' costretto a subire «un processo piu' lento, in
ipotesi non corrispondente alla propria visione della dignita' nel
morire, e piu' carica di sofferenze per le persone che gli sono
care»; cio' comporta - concludeva la Corte - una lesione della
dignita' umana, oltre che dei principi di ragionevolezza e di
uguaglianza in rapporto alle diverse condizioni soggettive (art. 3
Cost.).
In realta', preso atto del vulnus costituzionale insito
nell'omnicomprensiva penalizzazione dell'aiuto al suicidio, la
Consulta aveva scelto di esortare il legislatore a prendere posizione
in proposito, cosi' da poter valutare l'eventuale proposizione di una
legge che regolasse la materia in conformita' alle segnalate esigenze
di tutela; dinanzi al silenzio del legislatore, tuttavia, la Corte
costituzionale non ha potuto far altro che dichiarare la parziale
illegittimita' costituzionale dell'art. 580 del codice penale.
La vicenda che ha impegnato il Giudice delle leggi e' quella di
un malato che non sarebbe in grado di lasciarsi morire dignitosamente
attraverso un mero rifiuto di cure, in quanto le terapie salvavita in
questione non sono tali che la loro sospensione realizzi la morte
immediata, bensi' un prolungamento indesiderato ed innaturale
dell'esistenza.
In proposito, e' ammessa una rinuncia terapeutica radicale o una
terapia del dolore con sedazione profonda continua che accompagna il
malato fino alla fine; tuttavia, dinanzi a patologia non terminali
questa soluzione appare inadatta (del resto, la stessa sedazione
profonda continuativa e' usualmente destinata alle ipotesi in cui il
malato sia in fase terminale).
La pronuncia - come detto - fa leva sulla normativa attuale, per
la quale il medico puo', con il consenso del paziente, soltanto
ricorrere alla sedazione palliativa profonda continua in associazione
alla terapia del dolore, per fronteggiare sofferenze refrattarie e i
trattamenti sanitari, mentre non consente allo stesso di mettere a
disposizione del paziente che versa nelle condizioni sopra descritte
trattamenti diretti a determinarne la morte.
Di guisa che - si argomenta - il divieto assoluto di aiuto al
suicidio finisce per limitare ingiustificatamente ed
irragionevolmente la liberta' di autodeterminazione del malato nella
scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle
sofferenze, imponendogli un'unica modalita' per congedarsi dalla
vita.
Tuttavia - come correttamente evidenziato dalla pervenuta
richiesta di atto abdicativo - la vicenda di cui ci si occupa non
sembra immediatamente risolvibile evocando i principi della sentenza
in discorso, per l'assorbente, pacifico rilievo della mancanza del
requisito di cui supra al punto c), «giacche' la signora era affetta
da una patologia irreversibile che, pero', non implicava l'utilizzo
di mezzi di trattamento di sostegno vitale, essendo il mantenimento
in vita, pur nelle acclarate, ingravescenti condizioni, non
condizionato da tali metodiche».
E', pertanto, proprio sul presupposto per cui il paziente deve
essere tenuto in vita da mezzi artificiali che questo Giudice ritiene
la necessita' di un piu' approfondito vaglio.
In proposito, soccorrono le considerazioni sviluppate dalla Corte
di assise di Massa del 27 luglio 2020, con cui sono stati assolti gli
imputati C. M. e S. W. del reato di cui all'art. 580 codice penale in
relazione al suicidio assistito di D. T.
Nell'occasione, era stata esclusa la sussistenza sia di condotte
di rafforzamento o istigazione morale sia di agevolazione materiale,
pur in un contesto in cui difettava il requisito di cui alla lettera
c), posto che il paziente era affetto da una grave patologia
irreversibile (la sclerosi multipla) che gli provocava dolori non
lenibili (il cui parziale rimedio era la somministrazione di
antidolorifici a dosaggi sempre maggiori, con rischio per la sua
vita), ma non era dipendente da trattamenti medici necessari per la
sopravvivenza (quali idratazione, alimentazione artificiale o
emotrasfusione).
Invero D. T. , pur versando in condizioni di malattia grave e
irreversibile sovrapponibili a quelle dell'A. , non era tenuto in
vita da un respiratore artificiale o da altri macchinari, bensi'
supportato unicamente da presidi farmacologici, cosicche' -secondo
una diffusa opinione - non avrebbe soddisfatto il requisito
dell'essere tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale.
Nondimeno, l'organo giudicante ha ritenuto sussistenti i
presupposti per l'applicazione dei principi espressi dalla sentenza
n. 242/2019, accogliendone una dirompente interpretazione estensiva.
Nella specie, si e' affermato come sarebbe errato interpretare
la regola iuris formulata dalla Corte costituzionale alla luce della
vicenda concreta in cui ha trovato origine; di contro, il punto di
riferimento alla base della declaratoria di illegittimita' dell'art.
580 del codice penale sarebbe piuttosto la disciplina di cui alla
legge n. 219/2017, nella parte in cui riconosce al paziente il
diritto di rifiutare e interrompere qualsiasi «trattamento
sanitario».
Secondo la Corte d'assise, dunque, tale locuzione di portata
generale sarebbe idonea a ricomprendere «ogni intervento realizzato
con terapie farmaceutiche o con l'assistenza di personale medico o
paramedico o con l'ausilio di macchinari medici».
Due, in particolare, gli aspetti di dipendenza del T
... valorizzati nell'occasione (definiti, in motivazione, come un
«trattamento assistenziale», ancora una volta, incompatibile con la
sopravvivenza).
Un primo fronte di dipendenza era dato dall'apporto
farmacologico: la stabilita' del paziente si reggeva, invero, su di
un precario equilibrio nel dosaggio di farmaci antidolorifici (la cui
riduzione avrebbe peggiorato la funzione respiratoria) e
antipertensivi (senza i quali si sarebbe prodotto uno scompenso
cardiaco).
Il secondo aspetto di asservimento era ricondotto alla
compromissione delle funzioni intestinali nell'ultimo periodo di
vita: poiche', infatti, la progressiva paralisi della muscolatura
aveva prodotto una stipsi cronica, si erano resi necessari interventi
periodici di evacuazione manuale volti ad evitare occlusioni
potenzialmente fatali.
Del resto, non e' questo l'unico sentiero che la Corte d'assise
ritiene percorribile per sussumere la vicenda in oggetto nell'ipotesi
di non punibilita', lumeggiando la possibilita' di giungere al
medesimo risultato conclusivo mediante un'analogica applicazione
della stessa, sull'assunto che questa - poiche' scriminante e
destinata ad operare in bonam partem, oltre che scevra di natura
eccezionale - si sottrarrebbe al divieto di analogia.
Di guisa che - stante l'identita' di ratio, alla luce
dell'omogeneita' delle situazioni sostanziali - la liceita'
dell'aiuto al suicidio prestato a chi versa in condizione di
dipendenza da trattamenti sanitari potrebbe parimenti affermarsi
laddove a beneficiarne siano pazienti che necessitano dell'assistenza
continua di terzi nello svolgimento delle piu' basilari attivita'
biologiche.
Secondo tale lettura, dunque, la nozione di «trattamento di
sostegno vitale» dovrebbe essere intesa in senso estensivo, come
comprensiva anche di quei trattamenti di tipo farmacologico,
interrotti quali si verificherebbe la morte del malato anche se in
maniera non rapida.
Del resto, conforto illuminante di lettura puo' trarsi anche
dalla sentenza della Corte di assise di Genova del 28 aprile 2021 -
confermativa di quella sopra citata della Corte di assise di Massa -
dove si legge che «il lapidario divieto di aiutare taluno a
procurarsi la morte, in un periodo storico risalente in cui lo scopo
unico era tutelare ad ogni costo la vita intesa come bene sociale, va
coniugato col diritto ad una vita dignitosa e col diritto al rifiuto
di trattamenti terapeutici a fronte di una malattia che abbia esito
certamente infausto, a conclusione di un percorso altrettanto certo
di dolore acutissimo e senza fine».
Cio' che ha indotto il Giudice di seconde cure a ritenere che
«legittima era l'aspirazione alla conclusione della vita, lecito era
il suicidio assistito, poiche' frutto dell'autodeterminazione del
malato a congedarsi da una esistenza che non era piu' in grado di
apprezzare, divenuta esclusivamente indicibile sofferenza».
In definitiva, appare evidente come la questione di legittimita'
costituzionale che si prospetta sia connotata dall'esistenza dalla
prima delle due condizioni di ammissibilita' richieste dalla legge
per l'accesso al giudizio della Corte.
Come e' noto, la rilevanza e' strettamente correlata alla natura
incidentale del giudizio in discorso, riguardando la stessa una
disposizione di legge la cui applicazione si impone come ineludibile
ai fini della decisione del procedimento in corso.
Questo Giudice, invero, determinandosi in ordine alla richiesta
di archiviazione in atti, sarebbe tenuto ad applicare il disposto di
cui all'art. 580 del codice penale nella sua globalita' e, dunque,
anche nella parte in cui richiede che la condotta di agevolazione
debba essere realizzata nei confronti di persona «tenuta in vita da
trattamenti di sostegno vitale».
Ai fini del presente giudizio, l'applicazione di tale frammento
di norma e' dirimente: per un verso, la circostanza che la R non
fosse tenuta in vita da un trattamento di sostegno vitale rigidamente
inteso determinerebbe - allo stato - il rigetto dell'istanza
archiviativa, necessariamente aprendo la via del rinvio a giudizio;
per altro verso, l'eventuale declaratoria di illegittimita'
costituzionale della parte indicata di norma consentirebbe di
sussumere le condotte degli indagati nell'area di non punibilita'
dell'art. 580 del codice penale gia' tracciata dalla sentenza n.
242/2019.
Sulla non manifesta infondatezza della questione
Quanto alla seconda delle condizioni di ammissibilita' per
l'accesso al giudizio della Corte, occorre preliminarmente operare
alcune precisazioni.
E' noto, infatti, come la Corte costituzionale richieda sempre
piu' frequentemente che, prima di promuovere una questione di
legittimita', il Giudice a quo debba svolgere ogni tentativo diretto
a verificare se il dubbio di costituzionalita' della disposizione
possa essere superato per via interpretativa, ricercando, tra piu'
possibili interpretazioni, quella che consenta di renderla non in
contrasto con la Carta fondamentale.
Si fa riferimento al c.d. obbligo di interpretazione conforme a
Costituzione: secondo la Corte, infatti, «in linea di principio, le
leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime perche' e'
possibile darne interpretazioni incostituzionali, ma perche' e'
impossibile darne interpretazioni costituzionali» (sentenza n.
356/1996, con un'affermazione poi costantemente ripresa in diverse
altre pronunce).
Ebbene, nel caso di specie il «sufficiente sforzo ermeneutico»
richiesto dalla giurisprudenza costituzionale e cui questo Giudice e'
chiamato a confrontarsi non pare trovare adeguata soddisfazione nelle
ragioni indicate dalla Difesa degli indagati ne' nelle
argomentazioni, sia pur acutissime, addotte dall'organo d'accusa.
La lettura del dettato normativo, come risultante dall'intervento
della sentenza n. 242/2019 e nella sua attuale formulazione, pare
ancora porre la condizione dell'essere «tenuto in vita a mezzo di
trattamenti di sostegno vitale» come impeditiva del ricomprendervi
anche la somministrazione di farmaci non immediatamente «salvavita».
Vero e', infatti, che le considerazioni sviluppate dalla Corte di
assise di Massa prima, e da quella di Genova poi, costituiscono un
dirompente approdo della giurisprudenza di merito sul punto, del
quale non puo' non tenersi conto; nondimeno, l'elevato rango degli
interessi beni giuridici in rilievo, unitamente alla specificita'
della materia, inducono questo giudicante a desistere da qualsivoglia
defatigante lettura costituzionalmente orientata, di contro
ravvisando la possibilita' di un miglior profitto in un autorevole
intervento della Corte.
Cio' premesso, ci si accinge ora a vagliare gli individuati
profili di dubitanza.
Il primo aspetto cui porre l'accento concerne il ritenuto
trattamento discriminatorio tra differenti tipologie di persone
malate.
Un soggetto corrotto nelle proprie condizioni vitali -
liberamente ed autonomamente determinatosi a porre fine alla propria
esistenza, pienamente capace di prendere decisioni libere e
consapevoli, nonche' afflitto da malattia irreversibile fonte di
gravi sofferenze fisiche o psicologiche eppure non tenuto in vita da
trattamenti di sostegno vitale stricto sensu intesi - si ritiene
possa versare in una situazione di patologia irreversibile
clinicamente accertabile altrettanto dolorosa al pari di altro malato
che si avvale di tali trattamenti.
Il requisito dei trattamenti di sostegno vitale, invero, non
contribuisce in alcun modo a misurare la capacita' di intendere e di
volere, la liberta' ed autonomia di scelta o le sofferenze fisiche o
psicologiche dei soggetti malati, risultando altresi' irrilevante al
fine di dimostrare la sussistenza di una patologia e della sua
irreversibilita'.
Esso, dunque, si pone quale del tutto indifferente rispetto ad
esigenze di tutela della vita della persona malata da abusi o
circonvenzioni, ne' e' funzionale a proteggere il malato psichiatrico
o colui che si sia determinato in maniera avventata a porre fine alla
sua vita in ragione di condizioni patologiche passeggere: l'oggettiva
presenza di una patologia seria, concretamente verificabile, infatti,
e' gia' pienamente assicurata dal requisito della malattia
irreversibile nonche' da quello delle sofferenze fisiche o
psicologiche gravi.
Pertanto, il dubbio di costituzionalita' si sostanzia in questo:
in presenza di tutti gli altri requisiti di cui si e' detto, solo le
persone malate che si trovino a doversi avvalere di un presidio
medico o di un trattamento farmacologico di sostegno ad un organo
vitale possono, sulla base dell'art. 580 del codice penale,
legittimamente usufruire dell'aiuto al suicidio nel nostro Paese; di
contro, agli altri infermi e' precluso ricorrere, nei tempi e nei
modi prescelti, a tale pratica, dovendo di necessita' affrontare
l'attesa del peggioramento delle condizioni patologiche di cui
soffrono e potendo congedarsi dalla vita con l'ausilio medico solo a
seguito della sopraggiunta dipendenza da un trattamento di sostegno
vitale.
La necessita' della sussistenza di tale requisito, affinche'
l'aiuto a congedarsi dalla vita in modo dignitoso non sia penalmente
punibile, si ritiene del tutto arbitrario, dando di conseguenza vita
ad una oggettiva discriminazione tra persone malate, con conseguente
lesione del principio di eguaglianza di cui all'art. 3 della
Costituzione.
A sostegno, non puo' non richiamarsi l'autorevole parere reso dal
Comitato nazionale di bioetica il 18 luglio 2019 in materia di
suicidio medicalmente assistito.
Il Comitato, senza soffermarsi sulla nozione di «trattamento di
sostegno vitale» che, peraltro, risulta privo di definizione nello
stesso ambito medico, ha affermato che dovrebbe trattarsi di una
«condizione aggiuntiva, solo eventuale»; ritenerla necessaria,
viceversa, creerebbe una discriminazione irragionevole e
incostituzionale fra quanti sono mantenuti in vita artificialmente e
quanti, pur affetti da patologia anche gravissima e con forti
sofferenze, non lo sono o non lo sono ancora».
A ben vedere, il Comitato nell'occasione si spinge addirittura
oltre, arrivando a sostenere che «si imporrebbe a questi ultimi di
accettare un trattamento anche molto invasivo, come nutrizione e
idratazione artificiali o ventilazione meccanica, al solo scopo di
poter richiedere l'assistenza al suicidio, prospettando in questo
modo un trattamento sanitario obbligatorio senza alcun motivo
ragionevole».
E ben vero che il contenuto dei diritti primari e fondamentali
non e' privo di limiti.
Come chiarito dalla stessa Corte costituzionale con la sentenza
n. 75/1996, l'art. 2 della Costituzione, «nell'affermare i diritti
inviolabili dell'uomo e i doveri inderogabili di solidarieta'
politica, economica e sociale, non puo' escludere che a carico dei
cittadini siano poste quelle restrizioni della sfera giuridica rese
necessarie dalla tutela dell'ordine sociale», anche se i diritti
connotati dall'inviolabilita', «essendo intangibili nel loro
contenuto di valore», possono essere «unicamente disciplinati da
leggi generali, che possono limitarli soltanto al fine di realizzare
altri interessi costituzionali altrettanto fondamentali e generali»
(sent. n. 23571988).
Dette restrizioni si rendono necessarie poiche' «i diritti
primari e fondamentali dell'uomo diverrebbero illusori per tutti, se
ciascuno potesse esercitarli fuori dell'ambito della legge, della
civile regolamentazione, del costume corrente, per cui tali diritti
devono venir contemperati con le esigenze di una tollerabile
convivenza» (sent. n. 168/1971); tuttavia, la regola da seguire
perche' tali limiti siano ammissibili deve sempre essere quella della
«necessarieta' e ragionevolezza della limitazione» (sent. n.
141/1996).
Particolarmente significativa sul punto, infine, e' anche la
sentenza n. 143/2013 della Corte costituzionale, nella quale si e'
evidenziato come «nelle operazioni di bilanciamento non puo' esservi
un decremento di tutela di un diritto fondamentale se ad esso non fa
riscontro un corrispondente incremento di tutela di altro interesse
di pari rango».
In sintesi, dunque, si ritiene che la tutela della liberta' di
avvalersi di un aiuto a porre fine alla propria vita in modo
dignitoso, nelle condizioni di sofferenza e malattia di cui si e'
detto, appare sacrificata senza alcun corrispettivo, in termini di
innalzamento di altri diritti costituzionali.
Il secondo aspetto su cui si ritiene di porre l'attenzione
involge la violazione del principio personalista di cui all'art. 2
della Costituzione, unitamente alla liberta' di autodeterminazione in
ordine alla scelta di cure mediche.
La necessita' della sussistenza dei trattamenti di sostegno
vitale, invero, affinche' le condotte di aiuto al suicidio possano
essere ritenute non punibili, si pone in contrasto con il principio
personalista, con l'inviolabilita' della liberta' personale di cui
all'art. 13 della Costituzione, nonche' della liberta' di
autodeterminazione con specifico riguardo alle cure mediche di cui al
dettato congiunto degli articoli 2, 3, 13 e 32 della Costituzione.
Secondo il principio personalista l'organizzazione sociale deve
tendere all'obiettivo assolutamente primario di favorire «lo sviluppo
di ogni singola persona umana» (sent. n. 167/1999), sviluppo che non
si puo' arrestare al momento delle scelte di fine vita e di
liberazione dal dolore causato da una malattia irreversibile da parte
di chi ne e' afflitto.
Ebbene, l'art. 2, unitamente agli articoli 13 e 32, secondo comma
della Costituzione, tutela appunto la liberta' di autodeterminazione
in ambito terapeutico (sent. n. 438/2008), la quale si estende sino
ad abbracciare, all'interno di un rapporto medicalizzato, la scelta
di congedarsi dalla vita nel caso di malattia irreversibile che
provoca gravi sofferenze fisiche o psicologiche, ferma restando la
piena capacita' di intendere e di volere e la liberta' ed autonomia
della scelta stessa (sent. n. 242/2019).
Conseguentemente, la rilevanza penale delle condotte di
agevolazione come quelle degli indagati, cosi' come risultante
dall'attuale formulazione dall'art. 580 del codice penale, nella
parte in cui prevede il requisito dei trattamenti di sostegno vitale,
si pone in netto contrasto con l'esercizio di tale liberta'.
Per effetto della sanzione penale in capo agli agevolatori,
invero, e' precluso ad ammalati nelle medesime condizioni della R ...
di avvalersi di un aiuto esterno in una scelta tanto drammatica,
venendo anzi imposto di proseguire nel calvario delle loro sofferenze
e a rassegnarsi all'evoluzione della. malattia, che trasforma la loro
vita in una drammatica sopravvivenza.
In definitiva, la scelta di congedarsi dalla vita in simili
frangenti si pone quale essenziale e incoercibile modalita' di
affermazione della propria personalita', su cui l'individuo deve
potersi liberamente autodeterminare.
Sul punto, dunque, le difficolta' che affiorano sembrano
riconducibili ad una problematica di fondo: la stessa previsione del
requisito del trattamento di sostegno vitale.
Alla luce dell'attuale tessuto normativo, per quanto la si
estenda, infatti, ogni possibile interpretazione correttiva dovra'
continuare a richiedere che il paziente sia sottoposto ad una qualche
forma di trattamento, e cio' appare contraddittorio rispetto alla
finalita' di tutela dei diritti fondamentali che la Corte
costituzionale afferma. di voler perseguire con la non punibilita'
dei terzi che prestano il proprio apporto nella scelta suicidaria
altrui.
Rispetto a tale finalita', invero, tale requisito sembra privo di
effettiva capacita' selettiva.
Il diritto dell'individuo di scegliere il percorso medico per
liberarsi dalle sofferenze nonche' quello di sottrarsi ad un decorso
lento e ritenuto lesivo del proprio modo di intendere il concetto di
dignita' informano esigenze di tutela - a sommesso parere di questo
Giudice - che dovrebbero dirsi slegate dalla circostanza che lo
stesso paziente sia sottoposto ad un qualche trattamento.
Cio' che sembra realmente dirimente e' piuttosto il concetto
stesso di «malattia», e non il trattamento che questa riceve, che
potra' semmai rilevare come indice della gravita' o dello stadio di
avanzamento della patologia.
Del resto, attualmente esiste un preciso addentellato normativo
per ritenere irragionevole continuare a pretendere che il paziente
sia sottoposto ad un trattamento: si tratta del gia' citato art. 1,
comma 5, della legge n. 219/2017, che riconosce al paziente il
diritto di rifiutare, sin dall'inizio, «qualsiasi» trattamento
sanitario, anche di sostegno vitale (sia in senso stretto sia in
senso lato), compresa la terapia del dolore; con la contraddizione
per cui, allo stato, per accedere al suicidio assistito, un paziente
che avesse da sempre rifiutato qualsiasi cura dovrebbe prima chiedere
di essere sottoposto ad un trattamento per poi rinunciarvi.
Non si esclude che, mediante il requisito in oggetto, si sia
voluta esprimere una diversa esigenza di disciplina, cioe' riservare
il suicidio assistito soltanto a pazienti ormai prossimi al decesso
per cause naturali o comunque la cui malattia, ex se, porterebbe ad
un esito letale. Tuttavia, anche a voler mantenere una tale logica
limitativa, sarebbe forse piu' congruo inserire un requisito
ulteriore e diverso, in ogni caso espungendo un vincolo - peraltro un
unicum a livello internazionale nella disciplina del suicidio
assistito - che di fatto espone al rischio delle segnalate
ingiustizie sostanziali.
P.Q.M.
Ritenuta la rilevanza nel presente giudizio e la non manifesta
infondatezza della questione di legittimita' costituzionale dell'art.
580 del codice penale, limitatamente alle parole «tenuta in vita da
trattamenti di sostegno vitale» - ponendosi le stesse in contrasto
con gli articoli 2, 3, 13, 32, secondo comma, e 117, primo comma
della Costituzione, quest'ultimo in riferimento all'art. 8 della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta' fondamentali - e ravvisando nella parte di norma segnalata
il concreto pericolo di una arbitrarieta' applicativa e di un
pregiudizio lesivo del principio di eguaglianza in relazione a casi
di pazienti affetti da patologie gravissime che non implichino,
tuttavia, il necessario ricorso a trattamenti di sostegno vitale;
Sospende il presente procedimento a carico di M. F. F. V. e C.
M.;
Dispone la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale
affinche', ove ne ravvisi i presupposti, voglia dichiarare
l'illegittimita' costituzionale dell'art. 580 del codice penale nella
parte indicata;
Dispone che la presente ordinanza sia notificata al Presidente
del Consiglio dei ministri e comunicata ai Presidenti delle due
Camere del Parlamento.
Bologna, 29 settembre 2025
Il Giudice: Romito
Oggetto:
Reati e pene – Aiuto al suicidio – Non punibilità, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 242 del 2019, di chi, alle condizioni e modalità stabilite nella medesima sentenza, agevola l’esecuzione del proposito dell’altrui suicidio – Denunciata previsione che la non punibilità sia subordinata alla circostanza che l’aiuto sia prestato a una persona “tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale” – Violazione del principio di eguaglianza, in relazione a casi di pazienti affetti da patologie gravissime che non implichino, tuttavia, il necessario ricorso a trattamenti di sostegno vitale – Violazione del diritto all’autodeterminazione nelle scelte terapeutiche – Contrasto con il principio di inviolabilità della libertà personale.
Norme impugnate:
codice penale del Num. Art. 580
Parametri costituzionali:
Costituzione Art. 2 Co.
Costituzione Art. 3 Co.
Costituzione Art. 13 Co.
Costituzione Art. 32 Co. 2
Costituzione Art. 117 Co. 1
Convenzione per la salvaguardia diritti dell'uomo e libertà fondamentali Art. 8 Co.
Testo dell'ordinanza
N. 223 ORDINANZA (Atto di promovimento) 29 settembre 2025
Ordinanza del 29 settembre 2025 del Tribunale di Bologna nel
procedimento penale a carico di M. C., F. M. e V. F. .
Reati e pene - Aiuto al suicidio - Non punibilita', a seguito della
sentenza della Corte costituzionale n. 242 del 2019, di chi, alle
condizioni e modalita' stabilite nella medesima sentenza, agevola
l'esecuzione del proposito dell'altrui suicidio - Denunciata
previsione che la non punibilita' sia subordinata alla circostanza
che l'aiuto sia prestato a una persona "tenuta in vita da
trattamenti di sostegno vitale".
- Codice penale, art. 580.
(GU n. 47 del 19-11-2025)
TRIBUNALE DI BOLOGNA
Sezione G.I.P.
Il Giudice dott. Andrea Salvatore Romito,
letti gli atti del procedimento sopra indicato nei confronti di:
M. F. , nata il ... a ... , residente a ... , in ... e difesa
di fiducia dagli avv.ti Francesca Re del foro di Roma e Francesco di
Paola del foro di Lagonegro;
F. V. , nata il ... a ... , residente a ... , in ... e difesa
di fiducia dagli avv.ti Rocco Berardo e Francesca Re del foro di
Roma;
C. M. , nato il ... a ... , ivi residente in via ... e difeso
di fiducia dall'avv.ta Filomena Gallo del foro di Roma;
indagati per il reato di cui agli articoli 110, 580 del codice
penale;
esaminata la richiesta di archiviazione datata 13 febbraio 2023;
sentite le parti nel contesto camerale del 29 marzo 2023;
ha reso la seguente ordinanza.
Questo Giudice ritiene opportuno sollevare questione di
legittimita' costituzionale dell'art. 580 del codice penale,
limitatamente alle parole «tenuta in vita da trattamenti di sostegno
vitale» - ponendosi le stesse in contrasto con gli articoli 2, 3, 13,
32 secondo comma e 117, primo comma, Cost., quest'ultimo in
riferimento all'art. 8 Convenzione europea per la salvaguardia dei
diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali - e ravvisando nella
parte di norma segnalata, il concreto pericolo di una arbitrarieta'
applicativa e di un pregiudizio lesivo del principio di eguaglianza
in relazione a casi di pazienti affetti da patologie gravissime che
non implichino, tuttavia, il necessario ricorso a trattamenti di
sostegno vitale.
Sulla rilevanza della questione.
Ai fini di una compiuta e appagante illustrazione della rilevanza
della questione dedotta pare doveroso operare una sintetica e
preliminare ricognizione degli sviluppi fattuali della vicenda in
esame.
P. R. era un'anziana signora affetta da anni da una forma
avanzata di parkinsonismo da paralisi sopranucleare progressiva, una
patologia neurodegenerativa appartenente al gruppo delle c.d.
taupatie (v. all. 6).
Il parkinsonismo si sostanzia in una patologia
cronico-degenerativa del sistema nervoso centrale, ad eziologia non
ancora chiarita, che non si giova di specifiche terapie; l'evoluzione
della variante «tau», inoltre, si mostra ancor piu' rapida e
aggressiva, interessando inizialmente il solo aspetto motorio e - nel
tempo - anche quello cognitivo. Il paziente che ne e' portatore
assiste alla progressiva paralisi della muscolatura volontaria,
conservando di contro l'operativita' delle attivita' cardiache e
respiratorie: cio' comporta la riduzione - fino alla totale scomparsa
- delle capacita' comunicative, trovandosi l'infermo impedito sia
nell'articolazione della parola sia nei gesti espressivi del volto e
del corpo nella loro globalita'.
La diagnosi di detta patologia a carico della R. e' assai datata:
i primi sintomi comparivano gia' nel ..., ma solo tre anni dopo si
imponevano con veemenza tale da rendere necessaria una visita
neurologica che, all'esito di una tac con mezzo di contrasto,
validava anche strumentalmente la valutazione gia' supposta.
La repentina involuzione propria della citata variante involgeva
anche la specifica condizione clinica della R. tanto che nel ...,
l'apposita commissione medico-legale della ASL di Bologna -
definitivamente riconoscendo la paziente quale «portatore di handicap
in situazione di gravita'» - non disponeva neppure un'ulteriore
visita di controllo, di fatto escludendo qualsivoglia possibilita' di
recupero.
Come anticipato, l'affezione in discorso non risponde a
particolari terapie; invero, farmaco assunto con regolarita' dalla
donna era il «Madopar», il quale - lungi dal modificare o rallentare
l'evoluzione della malattia o dall'incidere sulla prognosi, che
rimane infausta a prescindere dal suo impiego - si limitava a ridurre
i tremori e le rigidita' degli arti.
Ad ogni modo, l'aspetto piu' penoso e condizionante concerneva la
restrittiva limitazione nei movimenti, dovendo la R. - di necessita'
fare ricorso all'ausilio di terzi per ogni sua basilare occorrenza.
Essa, infatti, pur essendo ancora abile alla masticazione (in
prevalenza di cibi semisolidi), non era piu' in grado di portarseli
da bocca da se'; parimenti, manteneva la continenza delle feci e
delle urine, ma non poteva alla scopo recarsi in bagno in autonomia
ne' tantomeno svolgere le funzione igieniche complementari all'atto;
allo stesso modo, fino a pochi mesi prima del decesso riusciva a
spostarsi per pochi metri con un deambulatone, ma non era in
possibilita' di raggiungerlo in autonomia ne' di assicurarsene
stabilmente la conduzione.
Nondimeno - per quel che in questa sede piu' rileva - la R.
veniva sottoposta a specifiche osservazioni neurologiche e
psichiatriche, al dichiarato scopo di addivenire ad una fondata stima
circa la sua capacita' di autodeterminazione, in ordine ad
un'eventuale richiesta di accesso alla tecnica del suicidio
medicalmente assistito.
Dal parere tecnico neurologico e neuropsicologico redatto dal
prof. A. S. (v. all. 2) emergeva con evidenza come, sul piano
cognitivo, pur con le difficolta' di valutazione connesse ai deficit
motori e manuali, la paziente apparisse «conservata nel rendimento
cognitivo globale, nella comprensione dei compiti e nelle prove che
sottostanno la capacita' decisionale».
Il parere metteva ancora in luce come le capacita' di
espressione, ancorche' ridotte dalla compromissione motoria,
permettessero tuttavia, mediante modalita' ad hoc (verbali e non), di
apprezzare «i contenuti del pensiero e del ragionamento» della
paziente, sino a ritenere che il quadro neurologico e cognitivo della
stessa fosse compatibile con una conservata capacita' di
autodeterminazione.
A fornire interessanti spunti di riflessione e' poi la relazione
psichiatrica affidata al prof. R. A. (v. all. 3), dove si legge come
il colloquio con la paziente si fosse sovente interrotto per il
sopraggiungere di un gemito cantilenante e iterativo, con comparsa di
insofferenza, rabbia e frustrazione «per il non poter dar corso, in
forma verbale adeguata, ai propri vissuti e sentimenti».
Dal punto di vista psichico veniva rilevato come non emergessero
disturbi del contenuto del pensiero ne' errori psicosensoriali; di
contro, si imponeva con chiarezza come ella, da sempre attiva e
sportiva, proponesse nell'occasione «una sofferenza lacerante nel
sentirsi ingabbiata e ingessata» in un corpo che non le consentiva
piu' autonomia alcuna.
Ancora, veniva sottolineato come l'umore della donna apparisse
improntato ad una demoralizzazione e ad un «marcato avvilimento»,
coerenti alla «corretta percezione della propria grave situazione
fisica».
Dirimenti, infine, le conclusioni del professionista.
Anzitutto, la R. veniva definita lucida, vigile, orientata nel
tempo, nello spazio e «nei confronti della propria persona»; il suo
stato emotivo era inoltre definito come «congruo» alla corretta
percezione che la donna aveva della sua malattia e della prognosi
futura.
Infatti - gia' rispetto all'attualita' di quel momento - la
paziente proponeva una chiara incapacita' a sopportare ancora a lungo
cio' che alla stessa appariva come un calvario esistenziale e in
relazione a cui, in un momento di particolare affiato esistenziale,
«riusciva a verbalizzare la frase "stanca e' dire poco" accompagnata
da una mimica improntata a dolore e angoscia».
Infine, si sottolineava come la donna esprimesse lucidamente la
scelta, «autonoma e ben radicata nella progettualita'», di non
esporre se' stessa, e di riflesso i suoi familiari, ad una vita tanto
sofferta quanto inutile.
«Tale volonta' - si legge nelle ultime battute - appare libera,
consapevole, non influenza dai farmaci che assume, e si pone in linea
coerente con un proprio sentire, che pone la dignita' della persona
al centro delle proprie scelte».
Del resto, il tenore fermo della scelta consapevole della R.
traspare chiaro dalle sue stesse parole, affidate alla penna della
figlia (v. all. 5), dove la stessa si definisce «una donna dal forte
temperamento, diverso dalle sue coetanee», che ha vissuto «tenendo
sempre le redini di ogni [sua] scelta».
L'«incattivirsi dell'affaticamento corporeo» - si legge - aveva
costretto la figlia e «care persone vicine alla famiglia» a
sostenerla nelle semplici attivita' quotidiane («Questo si', aspetto
mortificante ed umiliante»), si' da indurla alla scelta ultima,
«dolorosa e motivata da una incrollabile volonta'».
Cosi' ricostruita la situazione clinica della R. , la vicenda in
oggetto muove quindi le premesse dalla richiesta di aiuto che la
stessa faceva pervenire al C. nel ...
La signora, infatti, aveva fermamente espresso la volonta' di
congedarsi dalla vita nel modo che ella riteneva piu' dignitoso per
se' stessa, autosomministrandosi un farmaco letale secondo le note
procedure previste dalla normativa .... .
A seguito dell'esito positivo del percorso avviato dalla donna
presso la clinica svizzera « ... », nel ... la donna prendeva
nuovamente contatti con l'indagato, esortandolo ad aiutarla a
raggiungere la ... cosi' da salvaguardare i suoi familiari da
eventuali conseguenze legali.
Il C. incontrava quindi la signora il ... presso la sua
abitazione, cosi' prendendo coscienza della totale e continua
dipendenza della R. da terze persone nonche' della consapevolezza
della stessa di non essere tenuta in vita da trattamenti di sostegno
vitale come individuati dalla storica sentenza n. 242/2019 della
Corte costituzionale.
Il 6 febbraio la M. ritirava un apposito veicolo per il trasporto
di persone con disabilita', precedentemente prenotato e pagato
dall'associazione « ... » di cui il C. e' legale rappresentante;
dopodiche', insieme alla F. , accompagnavano la R. sino alla
cittadina ... di
Nei giorni successivi si susseguivano due diversi colloqui con il
medico competente, volti a verificare la perdurante volonta' di
scelta della donna in ordine all'autosomministrazione del farmaco
letale, entrambi conclusosi con esito positivo.
Veniva, infine, stabilito che, a causa di alcuni spasmi alla
mandibola, la R. non avrebbe potuto autosomministrarsi il medicinale
per via orale e, dunque, era proposta l'alternativa della pompa ad
infusione, attivabile dalla donna stessa tramite un pulsante.
La vicenda si concludeva, dunque, ... - si legge
nell'autodenuncia presentata dagli indagati - «nel giro di pochissimi
secondi, in quanto la sig. P. premeva immediatamente il pulsante».
Cio' premesso, e' ormai opinione ampiamente condivisa quella
secondo cui a ciascuno spetta il fondamentale diritto di scegliere se
e come curarsi, il quale include anche quello di rifiutare le cure,
pure laddove si pongano come indispensabili alla sopravvivenza.
Il diritto di interrompere queste ultime presuppone una procedura
finalizzata alla verifica della fermezza del rifiuto, oggi
disciplinata dalla legge 22 dicembre 2017, n. 219.
In particolare, la legge citata riconosce a ogni persona capace
di agire il diritto di rifiutare o interrompere qualsiasi trattamento
sanitario, ancorche' necessario alla propria sopravvivenza,
ricomprendendo nella relativa nozione anche i trattamenti di
idratazione e nutrizione artificiale (art. 1, comma 5).
L'esercizio di tale diritto viene inquadrato nel contesto della
c.d. alleanza terapeutica tra medico e paziente, che la legge punta a
valorizzare: si tratta, invero, di una relazione «che si basa sul
consenso informato, nel quale si incontrano l'autonomia decisionale
del paziente e la competenza, l'autonomia professionale e la
responsabilita' del medico», e che puo' coinvolgere, «se il paziente
lo desidera, anche i suoi familiari o la parte dell'unione civile o
il convivente ovvero una persona di fiducia del paziente medesimo»
(art. 1, comma 2).
Nella specie e' stabilito che, ove il paziente manifesti
l'intento di rifiutare o interrompere trattamenti necessari alla
propria sopravvivenza, il medico debba prospettargli le conseguenze
della sua decisione e le possibili alternative, e promuovere «ogni
azione di sostegno al paziente medesimo, anche avvalendosi dei
servizi di assistenza psicologica» tutto cio' ferma restando la
possibilita' per il paziente di mutare in qualsiasi momento la
propria volonta' (art. 1, comma 5).
In ogni caso, il medico e' tenuto a rispettare la volonta'
espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di
rinunciare al medesimo, rimanendo «in conseguenza di cio' [...]
esente da responsabilita' civile o penale» (art. 1, comma 6).
Inoltre, integrando le previsioni della legge 15 marzo 2010, n.
38, la legge del 2017 prevede che la richiesta di sospensione dei
trattamenti sanitari possa essere combinata alla richiesta di terapie
palliative, allo scopo di alleviare le sofferenze del paziente (art.
2, comma 1).
Sul punto, la Corte costituzionale con la storica sentenza 25
settembre 2019, n. 242 ha ritenuto legittima (rectius: non punibile
per l'esercizio di un diritto fondamentale) la condotta di aiuto al
suicidio del malato, purche' si tratti di «una persona a) affetta da
una patologia irreversibile e b) fonte di sofferenze fisiche
psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia c)
tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti d)
capace di prendere decisioni libere e consapevoli».
L'art. 580 del codice penale, pertanto, e' stato dichiarato
incostituzionale «nella parte in cui non esclude la punibilita' di
chi, con le modalita' previste dagli articoli 1 e 2, legge 22
dicembre 2017, n. 219 - ovvero, quanto ai fatti anteriori alla
pubblicazione della presente sentenza nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica, con modalita' equivalenti nei sensi di cui motivazione -,
agevola l'esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e
liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti
di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di
sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma
pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre
che tali condizioni e le modalita' di esecuzione siano state
verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario
nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente
competente».
La pronuncia costituiva il naturale coronario dell'ordinanza n.
207/2018, con cui la Corte - pur ritenendo legittima l'incriminazione
dell'aiuto al suicidio, in quanto funzionale alla tutela del diritto
alla vita - aveva tuttavia osservato che, in particolari situazioni,
l'assoluto divieto di aiuto al suicidio limita la liberta' di
autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese
quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, senza che tale
limitazione possa ritenersi preordinata alla tutela della vita o di
altro interesse costituzionalmente apprezzabile.
Il paziente e' costretto a subire «un processo piu' lento, in
ipotesi non corrispondente alla propria visione della dignita' nel
morire, e piu' carica di sofferenze per le persone che gli sono
care»; cio' comporta - concludeva la Corte - una lesione della
dignita' umana, oltre che dei principi di ragionevolezza e di
uguaglianza in rapporto alle diverse condizioni soggettive (art. 3
Cost.).
In realta', preso atto del vulnus costituzionale insito
nell'omnicomprensiva penalizzazione dell'aiuto al suicidio, la
Consulta aveva scelto di esortare il legislatore a prendere posizione
in proposito, cosi' da poter valutare l'eventuale proposizione di una
legge che regolasse la materia in conformita' alle segnalate esigenze
di tutela; dinanzi al silenzio del legislatore, tuttavia, la Corte
costituzionale non ha potuto far altro che dichiarare la parziale
illegittimita' costituzionale dell'art. 580 del codice penale.
La vicenda che ha impegnato il Giudice delle leggi e' quella di
un malato che non sarebbe in grado di lasciarsi morire dignitosamente
attraverso un mero rifiuto di cure, in quanto le terapie salvavita in
questione non sono tali che la loro sospensione realizzi la morte
immediata, bensi' un prolungamento indesiderato ed innaturale
dell'esistenza.
In proposito, e' ammessa una rinuncia terapeutica radicale o una
terapia del dolore con sedazione profonda continua che accompagna il
malato fino alla fine; tuttavia, dinanzi a patologia non terminali
questa soluzione appare inadatta (del resto, la stessa sedazione
profonda continuativa e' usualmente destinata alle ipotesi in cui il
malato sia in fase terminale).
La pronuncia - come detto - fa leva sulla normativa attuale, per
la quale il medico puo', con il consenso del paziente, soltanto
ricorrere alla sedazione palliativa profonda continua in associazione
alla terapia del dolore, per fronteggiare sofferenze refrattarie e i
trattamenti sanitari, mentre non consente allo stesso di mettere a
disposizione del paziente che versa nelle condizioni sopra descritte
trattamenti diretti a determinarne la morte.
Di guisa che - si argomenta - il divieto assoluto di aiuto al
suicidio finisce per limitare ingiustificatamente ed
irragionevolmente la liberta' di autodeterminazione del malato nella
scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle
sofferenze, imponendogli un'unica modalita' per congedarsi dalla
vita.
Tuttavia - come correttamente evidenziato dalla pervenuta
richiesta di atto abdicativo - la vicenda di cui ci si occupa non
sembra immediatamente risolvibile evocando i principi della sentenza
in discorso, per l'assorbente, pacifico rilievo della mancanza del
requisito di cui supra al punto c), «giacche' la signora era affetta
da una patologia irreversibile che, pero', non implicava l'utilizzo
di mezzi di trattamento di sostegno vitale, essendo il mantenimento
in vita, pur nelle acclarate, ingravescenti condizioni, non
condizionato da tali metodiche».
E', pertanto, proprio sul presupposto per cui il paziente deve
essere tenuto in vita da mezzi artificiali che questo Giudice ritiene
la necessita' di un piu' approfondito vaglio.
In proposito, soccorrono le considerazioni sviluppate dalla Corte
di assise di Massa del 27 luglio 2020, con cui sono stati assolti gli
imputati C. M. e S. W. del reato di cui all'art. 580 codice penale in
relazione al suicidio assistito di D. T.
Nell'occasione, era stata esclusa la sussistenza sia di condotte
di rafforzamento o istigazione morale sia di agevolazione materiale,
pur in un contesto in cui difettava il requisito di cui alla lettera
c), posto che il paziente era affetto da una grave patologia
irreversibile (la sclerosi multipla) che gli provocava dolori non
lenibili (il cui parziale rimedio era la somministrazione di
antidolorifici a dosaggi sempre maggiori, con rischio per la sua
vita), ma non era dipendente da trattamenti medici necessari per la
sopravvivenza (quali idratazione, alimentazione artificiale o
emotrasfusione).
Invero D. T. , pur versando in condizioni di malattia grave e
irreversibile sovrapponibili a quelle dell'A. , non era tenuto in
vita da un respiratore artificiale o da altri macchinari, bensi'
supportato unicamente da presidi farmacologici, cosicche' -secondo
una diffusa opinione - non avrebbe soddisfatto il requisito
dell'essere tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale.
Nondimeno, l'organo giudicante ha ritenuto sussistenti i
presupposti per l'applicazione dei principi espressi dalla sentenza
n. 242/2019, accogliendone una dirompente interpretazione estensiva.
Nella specie, si e' affermato come sarebbe errato interpretare
la regola iuris formulata dalla Corte costituzionale alla luce della
vicenda concreta in cui ha trovato origine; di contro, il punto di
riferimento alla base della declaratoria di illegittimita' dell'art.
580 del codice penale sarebbe piuttosto la disciplina di cui alla
legge n. 219/2017, nella parte in cui riconosce al paziente il
diritto di rifiutare e interrompere qualsiasi «trattamento
sanitario».
Secondo la Corte d'assise, dunque, tale locuzione di portata
generale sarebbe idonea a ricomprendere «ogni intervento realizzato
con terapie farmaceutiche o con l'assistenza di personale medico o
paramedico o con l'ausilio di macchinari medici».
Due, in particolare, gli aspetti di dipendenza del T
... valorizzati nell'occasione (definiti, in motivazione, come un
«trattamento assistenziale», ancora una volta, incompatibile con la
sopravvivenza).
Un primo fronte di dipendenza era dato dall'apporto
farmacologico: la stabilita' del paziente si reggeva, invero, su di
un precario equilibrio nel dosaggio di farmaci antidolorifici (la cui
riduzione avrebbe peggiorato la funzione respiratoria) e
antipertensivi (senza i quali si sarebbe prodotto uno scompenso
cardiaco).
Il secondo aspetto di asservimento era ricondotto alla
compromissione delle funzioni intestinali nell'ultimo periodo di
vita: poiche', infatti, la progressiva paralisi della muscolatura
aveva prodotto una stipsi cronica, si erano resi necessari interventi
periodici di evacuazione manuale volti ad evitare occlusioni
potenzialmente fatali.
Del resto, non e' questo l'unico sentiero che la Corte d'assise
ritiene percorribile per sussumere la vicenda in oggetto nell'ipotesi
di non punibilita', lumeggiando la possibilita' di giungere al
medesimo risultato conclusivo mediante un'analogica applicazione
della stessa, sull'assunto che questa - poiche' scriminante e
destinata ad operare in bonam partem, oltre che scevra di natura
eccezionale - si sottrarrebbe al divieto di analogia.
Di guisa che - stante l'identita' di ratio, alla luce
dell'omogeneita' delle situazioni sostanziali - la liceita'
dell'aiuto al suicidio prestato a chi versa in condizione di
dipendenza da trattamenti sanitari potrebbe parimenti affermarsi
laddove a beneficiarne siano pazienti che necessitano dell'assistenza
continua di terzi nello svolgimento delle piu' basilari attivita'
biologiche.
Secondo tale lettura, dunque, la nozione di «trattamento di
sostegno vitale» dovrebbe essere intesa in senso estensivo, come
comprensiva anche di quei trattamenti di tipo farmacologico,
interrotti quali si verificherebbe la morte del malato anche se in
maniera non rapida.
Del resto, conforto illuminante di lettura puo' trarsi anche
dalla sentenza della Corte di assise di Genova del 28 aprile 2021 -
confermativa di quella sopra citata della Corte di assise di Massa -
dove si legge che «il lapidario divieto di aiutare taluno a
procurarsi la morte, in un periodo storico risalente in cui lo scopo
unico era tutelare ad ogni costo la vita intesa come bene sociale, va
coniugato col diritto ad una vita dignitosa e col diritto al rifiuto
di trattamenti terapeutici a fronte di una malattia che abbia esito
certamente infausto, a conclusione di un percorso altrettanto certo
di dolore acutissimo e senza fine».
Cio' che ha indotto il Giudice di seconde cure a ritenere che
«legittima era l'aspirazione alla conclusione della vita, lecito era
il suicidio assistito, poiche' frutto dell'autodeterminazione del
malato a congedarsi da una esistenza che non era piu' in grado di
apprezzare, divenuta esclusivamente indicibile sofferenza».
In definitiva, appare evidente come la questione di legittimita'
costituzionale che si prospetta sia connotata dall'esistenza dalla
prima delle due condizioni di ammissibilita' richieste dalla legge
per l'accesso al giudizio della Corte.
Come e' noto, la rilevanza e' strettamente correlata alla natura
incidentale del giudizio in discorso, riguardando la stessa una
disposizione di legge la cui applicazione si impone come ineludibile
ai fini della decisione del procedimento in corso.
Questo Giudice, invero, determinandosi in ordine alla richiesta
di archiviazione in atti, sarebbe tenuto ad applicare il disposto di
cui all'art. 580 del codice penale nella sua globalita' e, dunque,
anche nella parte in cui richiede che la condotta di agevolazione
debba essere realizzata nei confronti di persona «tenuta in vita da
trattamenti di sostegno vitale».
Ai fini del presente giudizio, l'applicazione di tale frammento
di norma e' dirimente: per un verso, la circostanza che la R non
fosse tenuta in vita da un trattamento di sostegno vitale rigidamente
inteso determinerebbe - allo stato - il rigetto dell'istanza
archiviativa, necessariamente aprendo la via del rinvio a giudizio;
per altro verso, l'eventuale declaratoria di illegittimita'
costituzionale della parte indicata di norma consentirebbe di
sussumere le condotte degli indagati nell'area di non punibilita'
dell'art. 580 del codice penale gia' tracciata dalla sentenza n.
242/2019.
Sulla non manifesta infondatezza della questione
Quanto alla seconda delle condizioni di ammissibilita' per
l'accesso al giudizio della Corte, occorre preliminarmente operare
alcune precisazioni.
E' noto, infatti, come la Corte costituzionale richieda sempre
piu' frequentemente che, prima di promuovere una questione di
legittimita', il Giudice a quo debba svolgere ogni tentativo diretto
a verificare se il dubbio di costituzionalita' della disposizione
possa essere superato per via interpretativa, ricercando, tra piu'
possibili interpretazioni, quella che consenta di renderla non in
contrasto con la Carta fondamentale.
Si fa riferimento al c.d. obbligo di interpretazione conforme a
Costituzione: secondo la Corte, infatti, «in linea di principio, le
leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime perche' e'
possibile darne interpretazioni incostituzionali, ma perche' e'
impossibile darne interpretazioni costituzionali» (sentenza n.
356/1996, con un'affermazione poi costantemente ripresa in diverse
altre pronunce).
Ebbene, nel caso di specie il «sufficiente sforzo ermeneutico»
richiesto dalla giurisprudenza costituzionale e cui questo Giudice e'
chiamato a confrontarsi non pare trovare adeguata soddisfazione nelle
ragioni indicate dalla Difesa degli indagati ne' nelle
argomentazioni, sia pur acutissime, addotte dall'organo d'accusa.
La lettura del dettato normativo, come risultante dall'intervento
della sentenza n. 242/2019 e nella sua attuale formulazione, pare
ancora porre la condizione dell'essere «tenuto in vita a mezzo di
trattamenti di sostegno vitale» come impeditiva del ricomprendervi
anche la somministrazione di farmaci non immediatamente «salvavita».
Vero e', infatti, che le considerazioni sviluppate dalla Corte di
assise di Massa prima, e da quella di Genova poi, costituiscono un
dirompente approdo della giurisprudenza di merito sul punto, del
quale non puo' non tenersi conto; nondimeno, l'elevato rango degli
interessi beni giuridici in rilievo, unitamente alla specificita'
della materia, inducono questo giudicante a desistere da qualsivoglia
defatigante lettura costituzionalmente orientata, di contro
ravvisando la possibilita' di un miglior profitto in un autorevole
intervento della Corte.
Cio' premesso, ci si accinge ora a vagliare gli individuati
profili di dubitanza.
Il primo aspetto cui porre l'accento concerne il ritenuto
trattamento discriminatorio tra differenti tipologie di persone
malate.
Un soggetto corrotto nelle proprie condizioni vitali -
liberamente ed autonomamente determinatosi a porre fine alla propria
esistenza, pienamente capace di prendere decisioni libere e
consapevoli, nonche' afflitto da malattia irreversibile fonte di
gravi sofferenze fisiche o psicologiche eppure non tenuto in vita da
trattamenti di sostegno vitale stricto sensu intesi - si ritiene
possa versare in una situazione di patologia irreversibile
clinicamente accertabile altrettanto dolorosa al pari di altro malato
che si avvale di tali trattamenti.
Il requisito dei trattamenti di sostegno vitale, invero, non
contribuisce in alcun modo a misurare la capacita' di intendere e di
volere, la liberta' ed autonomia di scelta o le sofferenze fisiche o
psicologiche dei soggetti malati, risultando altresi' irrilevante al
fine di dimostrare la sussistenza di una patologia e della sua
irreversibilita'.
Esso, dunque, si pone quale del tutto indifferente rispetto ad
esigenze di tutela della vita della persona malata da abusi o
circonvenzioni, ne' e' funzionale a proteggere il malato psichiatrico
o colui che si sia determinato in maniera avventata a porre fine alla
sua vita in ragione di condizioni patologiche passeggere: l'oggettiva
presenza di una patologia seria, concretamente verificabile, infatti,
e' gia' pienamente assicurata dal requisito della malattia
irreversibile nonche' da quello delle sofferenze fisiche o
psicologiche gravi.
Pertanto, il dubbio di costituzionalita' si sostanzia in questo:
in presenza di tutti gli altri requisiti di cui si e' detto, solo le
persone malate che si trovino a doversi avvalere di un presidio
medico o di un trattamento farmacologico di sostegno ad un organo
vitale possono, sulla base dell'art. 580 del codice penale,
legittimamente usufruire dell'aiuto al suicidio nel nostro Paese; di
contro, agli altri infermi e' precluso ricorrere, nei tempi e nei
modi prescelti, a tale pratica, dovendo di necessita' affrontare
l'attesa del peggioramento delle condizioni patologiche di cui
soffrono e potendo congedarsi dalla vita con l'ausilio medico solo a
seguito della sopraggiunta dipendenza da un trattamento di sostegno
vitale.
La necessita' della sussistenza di tale requisito, affinche'
l'aiuto a congedarsi dalla vita in modo dignitoso non sia penalmente
punibile, si ritiene del tutto arbitrario, dando di conseguenza vita
ad una oggettiva discriminazione tra persone malate, con conseguente
lesione del principio di eguaglianza di cui all'art. 3 della
Costituzione.
A sostegno, non puo' non richiamarsi l'autorevole parere reso dal
Comitato nazionale di bioetica il 18 luglio 2019 in materia di
suicidio medicalmente assistito.
Il Comitato, senza soffermarsi sulla nozione di «trattamento di
sostegno vitale» che, peraltro, risulta privo di definizione nello
stesso ambito medico, ha affermato che dovrebbe trattarsi di una
«condizione aggiuntiva, solo eventuale»; ritenerla necessaria,
viceversa, creerebbe una discriminazione irragionevole e
incostituzionale fra quanti sono mantenuti in vita artificialmente e
quanti, pur affetti da patologia anche gravissima e con forti
sofferenze, non lo sono o non lo sono ancora».
A ben vedere, il Comitato nell'occasione si spinge addirittura
oltre, arrivando a sostenere che «si imporrebbe a questi ultimi di
accettare un trattamento anche molto invasivo, come nutrizione e
idratazione artificiali o ventilazione meccanica, al solo scopo di
poter richiedere l'assistenza al suicidio, prospettando in questo
modo un trattamento sanitario obbligatorio senza alcun motivo
ragionevole».
E ben vero che il contenuto dei diritti primari e fondamentali
non e' privo di limiti.
Come chiarito dalla stessa Corte costituzionale con la sentenza
n. 75/1996, l'art. 2 della Costituzione, «nell'affermare i diritti
inviolabili dell'uomo e i doveri inderogabili di solidarieta'
politica, economica e sociale, non puo' escludere che a carico dei
cittadini siano poste quelle restrizioni della sfera giuridica rese
necessarie dalla tutela dell'ordine sociale», anche se i diritti
connotati dall'inviolabilita', «essendo intangibili nel loro
contenuto di valore», possono essere «unicamente disciplinati da
leggi generali, che possono limitarli soltanto al fine di realizzare
altri interessi costituzionali altrettanto fondamentali e generali»
(sent. n. 23571988).
Dette restrizioni si rendono necessarie poiche' «i diritti
primari e fondamentali dell'uomo diverrebbero illusori per tutti, se
ciascuno potesse esercitarli fuori dell'ambito della legge, della
civile regolamentazione, del costume corrente, per cui tali diritti
devono venir contemperati con le esigenze di una tollerabile
convivenza» (sent. n. 168/1971); tuttavia, la regola da seguire
perche' tali limiti siano ammissibili deve sempre essere quella della
«necessarieta' e ragionevolezza della limitazione» (sent. n.
141/1996).
Particolarmente significativa sul punto, infine, e' anche la
sentenza n. 143/2013 della Corte costituzionale, nella quale si e'
evidenziato come «nelle operazioni di bilanciamento non puo' esservi
un decremento di tutela di un diritto fondamentale se ad esso non fa
riscontro un corrispondente incremento di tutela di altro interesse
di pari rango».
In sintesi, dunque, si ritiene che la tutela della liberta' di
avvalersi di un aiuto a porre fine alla propria vita in modo
dignitoso, nelle condizioni di sofferenza e malattia di cui si e'
detto, appare sacrificata senza alcun corrispettivo, in termini di
innalzamento di altri diritti costituzionali.
Il secondo aspetto su cui si ritiene di porre l'attenzione
involge la violazione del principio personalista di cui all'art. 2
della Costituzione, unitamente alla liberta' di autodeterminazione in
ordine alla scelta di cure mediche.
La necessita' della sussistenza dei trattamenti di sostegno
vitale, invero, affinche' le condotte di aiuto al suicidio possano
essere ritenute non punibili, si pone in contrasto con il principio
personalista, con l'inviolabilita' della liberta' personale di cui
all'art. 13 della Costituzione, nonche' della liberta' di
autodeterminazione con specifico riguardo alle cure mediche di cui al
dettato congiunto degli articoli 2, 3, 13 e 32 della Costituzione.
Secondo il principio personalista l'organizzazione sociale deve
tendere all'obiettivo assolutamente primario di favorire «lo sviluppo
di ogni singola persona umana» (sent. n. 167/1999), sviluppo che non
si puo' arrestare al momento delle scelte di fine vita e di
liberazione dal dolore causato da una malattia irreversibile da parte
di chi ne e' afflitto.
Ebbene, l'art. 2, unitamente agli articoli 13 e 32, secondo comma
della Costituzione, tutela appunto la liberta' di autodeterminazione
in ambito terapeutico (sent. n. 438/2008), la quale si estende sino
ad abbracciare, all'interno di un rapporto medicalizzato, la scelta
di congedarsi dalla vita nel caso di malattia irreversibile che
provoca gravi sofferenze fisiche o psicologiche, ferma restando la
piena capacita' di intendere e di volere e la liberta' ed autonomia
della scelta stessa (sent. n. 242/2019).
Conseguentemente, la rilevanza penale delle condotte di
agevolazione come quelle degli indagati, cosi' come risultante
dall'attuale formulazione dall'art. 580 del codice penale, nella
parte in cui prevede il requisito dei trattamenti di sostegno vitale,
si pone in netto contrasto con l'esercizio di tale liberta'.
Per effetto della sanzione penale in capo agli agevolatori,
invero, e' precluso ad ammalati nelle medesime condizioni della R ...
di avvalersi di un aiuto esterno in una scelta tanto drammatica,
venendo anzi imposto di proseguire nel calvario delle loro sofferenze
e a rassegnarsi all'evoluzione della. malattia, che trasforma la loro
vita in una drammatica sopravvivenza.
In definitiva, la scelta di congedarsi dalla vita in simili
frangenti si pone quale essenziale e incoercibile modalita' di
affermazione della propria personalita', su cui l'individuo deve
potersi liberamente autodeterminare.
Sul punto, dunque, le difficolta' che affiorano sembrano
riconducibili ad una problematica di fondo: la stessa previsione del
requisito del trattamento di sostegno vitale.
Alla luce dell'attuale tessuto normativo, per quanto la si
estenda, infatti, ogni possibile interpretazione correttiva dovra'
continuare a richiedere che il paziente sia sottoposto ad una qualche
forma di trattamento, e cio' appare contraddittorio rispetto alla
finalita' di tutela dei diritti fondamentali che la Corte
costituzionale afferma. di voler perseguire con la non punibilita'
dei terzi che prestano il proprio apporto nella scelta suicidaria
altrui.
Rispetto a tale finalita', invero, tale requisito sembra privo di
effettiva capacita' selettiva.
Il diritto dell'individuo di scegliere il percorso medico per
liberarsi dalle sofferenze nonche' quello di sottrarsi ad un decorso
lento e ritenuto lesivo del proprio modo di intendere il concetto di
dignita' informano esigenze di tutela - a sommesso parere di questo
Giudice - che dovrebbero dirsi slegate dalla circostanza che lo
stesso paziente sia sottoposto ad un qualche trattamento.
Cio' che sembra realmente dirimente e' piuttosto il concetto
stesso di «malattia», e non il trattamento che questa riceve, che
potra' semmai rilevare come indice della gravita' o dello stadio di
avanzamento della patologia.
Del resto, attualmente esiste un preciso addentellato normativo
per ritenere irragionevole continuare a pretendere che il paziente
sia sottoposto ad un trattamento: si tratta del gia' citato art. 1,
comma 5, della legge n. 219/2017, che riconosce al paziente il
diritto di rifiutare, sin dall'inizio, «qualsiasi» trattamento
sanitario, anche di sostegno vitale (sia in senso stretto sia in
senso lato), compresa la terapia del dolore; con la contraddizione
per cui, allo stato, per accedere al suicidio assistito, un paziente
che avesse da sempre rifiutato qualsiasi cura dovrebbe prima chiedere
di essere sottoposto ad un trattamento per poi rinunciarvi.
Non si esclude che, mediante il requisito in oggetto, si sia
voluta esprimere una diversa esigenza di disciplina, cioe' riservare
il suicidio assistito soltanto a pazienti ormai prossimi al decesso
per cause naturali o comunque la cui malattia, ex se, porterebbe ad
un esito letale. Tuttavia, anche a voler mantenere una tale logica
limitativa, sarebbe forse piu' congruo inserire un requisito
ulteriore e diverso, in ogni caso espungendo un vincolo - peraltro un
unicum a livello internazionale nella disciplina del suicidio
assistito - che di fatto espone al rischio delle segnalate
ingiustizie sostanziali.
P.Q.M.
Ritenuta la rilevanza nel presente giudizio e la non manifesta
infondatezza della questione di legittimita' costituzionale dell'art.
580 del codice penale, limitatamente alle parole «tenuta in vita da
trattamenti di sostegno vitale» - ponendosi le stesse in contrasto
con gli articoli 2, 3, 13, 32, secondo comma, e 117, primo comma
della Costituzione, quest'ultimo in riferimento all'art. 8 della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta' fondamentali - e ravvisando nella parte di norma segnalata
il concreto pericolo di una arbitrarieta' applicativa e di un
pregiudizio lesivo del principio di eguaglianza in relazione a casi
di pazienti affetti da patologie gravissime che non implichino,
tuttavia, il necessario ricorso a trattamenti di sostegno vitale;
Sospende il presente procedimento a carico di M. F. F. V. e C.
M.;
Dispone la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale
affinche', ove ne ravvisi i presupposti, voglia dichiarare
l'illegittimita' costituzionale dell'art. 580 del codice penale nella
parte indicata;
Dispone che la presente ordinanza sia notificata al Presidente
del Consiglio dei ministri e comunicata ai Presidenti delle due
Camere del Parlamento.
Bologna, 29 settembre 2025
Il Giudice: Romito