Reg. ord. n. 223 del 2025 pubbl. su G.U. del 19/11/2025 n. 47

Ordinanza del Tribunale di Bologna  del 29/09/2025

Tra: M. C.

Oggetto:

Reati e pene – Aiuto al suicidio – Non punibilità, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 242 del 2019, di chi, alle condizioni e modalità stabilite nella medesima sentenza, agevola l’esecuzione del proposito dell’altrui suicidio  – Denunciata previsione che la non punibilità sia subordinata alla circostanza che l’aiuto sia prestato a una persona “tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale” – Violazione del principio di eguaglianza, in relazione a casi di pazienti affetti da patologie gravissime che non implichino, tuttavia, il necessario ricorso a trattamenti di sostegno vitale – Violazione del diritto all’autodeterminazione nelle scelte terapeutiche – Contrasto con il principio di inviolabilità della libertà personale. 

Norme impugnate:

codice penale  del  Num.  Art. 580



Parametri costituzionali:

Costituzione  Art.  Co.  

Costituzione  Art.  Co.  

Costituzione  Art. 13   Co.  

Costituzione  Art. 32   Co.

Costituzione  Art. 117   Co.

Convenzione per la salvaguardia diritti dell'uomo e libertà fondamentali  Art.  Co.  




Testo dell'ordinanza

                        N. 223 ORDINANZA (Atto di promovimento) 29 settembre 2025

Ordinanza  del  29  settembre  2025  del  Tribunale  di  Bologna  nel
procedimento penale a carico di M. C., F. M. e V. F. . 
 
Reati e pene - Aiuto al suicidio - Non punibilita', a  seguito  della
  sentenza della Corte costituzionale n. 242 del 2019, di  chi,  alle
  condizioni e modalita' stabilite nella medesima  sentenza,  agevola
  l'esecuzione  del  proposito  dell'altrui  suicidio  -   Denunciata
  previsione che la non punibilita' sia subordinata alla  circostanza
  che  l'aiuto  sia  prestato  a  una  persona  "tenuta  in  vita  da
  trattamenti di sostegno vitale". 
- Codice penale, art. 580. 


(GU n. 47 del 19-11-2025)

 
                         TRIBUNALE DI BOLOGNA 
                           Sezione G.I.P. 
 
    Il Giudice dott. Andrea Salvatore Romito, 
    letti gli atti del procedimento sopra indicato nei confronti di: 
        M. F. , nata il ... a ... , residente a ... , in ... e difesa
di fiducia dagli avv.ti Francesca Re del foro di Roma e Francesco  di
Paola del foro di Lagonegro; 
        F. V. , nata il ... a ... , residente a ... , in ... e difesa
di fiducia dagli avv.ti Rocco Berardo e  Francesca  Re  del  foro  di
Roma; 
        C. M. , nato il ... a ... , ivi residente in via ... e difeso
di fiducia dall'avv.ta Filomena Gallo del foro di Roma; 
    indagati per il reato di cui agli articoli 110,  580  del  codice
penale; 
    esaminata la richiesta di archiviazione datata 13 febbraio  2023;
sentite le parti nel contesto camerale del 29 marzo 2023; 
    ha reso la seguente ordinanza. 
    Questo  Giudice  ritiene   opportuno   sollevare   questione   di
legittimita'  costituzionale  dell'art.  580   del   codice   penale,
limitatamente alle parole «tenuta in vita da trattamenti di  sostegno
vitale» - ponendosi le stesse in contrasto con gli articoli 2, 3, 13,
32  secondo  comma  e  117,  primo  comma,  Cost.,  quest'ultimo   in
riferimento all'art. 8 Convenzione europea per  la  salvaguardia  dei
diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali - e ravvisando  nella
parte di norma segnalata, il concreto pericolo di  una  arbitrarieta'
applicativa e di un pregiudizio lesivo del principio  di  eguaglianza
in relazione a casi di pazienti affetti da patologie  gravissime  che
non implichino, tuttavia, il  necessario  ricorso  a  trattamenti  di
sostegno vitale. 
Sulla rilevanza della questione. 
    Ai fini di una compiuta e appagante illustrazione della rilevanza
della  questione  dedotta  pare  doveroso  operare  una  sintetica  e
preliminare ricognizione degli sviluppi  fattuali  della  vicenda  in
esame. 
    P. R. era  un'anziana  signora  affetta  da  anni  da  una  forma
avanzata di parkinsonismo da paralisi sopranucleare progressiva,  una
patologia  neurodegenerativa  appartenente  al  gruppo   delle   c.d.
taupatie (v. all. 6). 
    Il    parkinsonismo    si    sostanzia    in    una     patologia
cronico-degenerativa del sistema nervoso centrale, ad  eziologia  non
ancora chiarita, che non si giova di specifiche terapie; l'evoluzione
della  variante  «tau»,  inoltre,  si  mostra  ancor  piu'  rapida  e
aggressiva, interessando inizialmente il solo aspetto motorio e - nel
tempo - anche quello cognitivo.  Il  paziente  che  ne  e'  portatore
assiste  alla  progressiva  paralisi  della  muscolatura  volontaria,
conservando di contro  l'operativita'  delle  attivita'  cardiache  e
respiratorie: cio' comporta la riduzione - fino alla totale scomparsa
- delle capacita' comunicative,  trovandosi  l'infermo  impedito  sia
nell'articolazione della parola sia nei gesti espressivi del volto  e
del corpo nella loro globalita'. 
    La diagnosi di detta patologia a carico della R. e' assai datata:
i primi sintomi comparivano gia' nel ..., ma solo tre  anni  dopo  si
imponevano  con  veemenza  tale  da  rendere  necessaria  una  visita
neurologica che,  all'esito  di  una  tac  con  mezzo  di  contrasto,
validava anche strumentalmente la valutazione gia' supposta. 
    La repentina involuzione propria della citata variante  involgeva
anche la specifica condizione clinica della R.  tanto  che  nel  ...,
l'apposita  commissione  medico-legale  della  ASL   di   Bologna   -
definitivamente riconoscendo la paziente quale «portatore di handicap
in situazione di  gravita'»  -  non  disponeva  neppure  un'ulteriore
visita di controllo, di fatto escludendo qualsivoglia possibilita' di
recupero. 
    Come  anticipato,  l'affezione  in  discorso   non   risponde   a
particolari terapie; invero, farmaco assunto  con  regolarita'  dalla
donna era il «Madopar», il quale - lungi dal modificare o  rallentare
l'evoluzione della  malattia  o  dall'incidere  sulla  prognosi,  che
rimane infausta a prescindere dal suo impiego - si limitava a ridurre
i tremori e le rigidita' degli arti. 
    Ad ogni modo, l'aspetto piu' penoso e condizionante concerneva la
restrittiva limitazione nei movimenti, dovendo la R. - di  necessita'
fare ricorso all'ausilio di terzi per ogni sua basilare occorrenza. 
    Essa, infatti, pur essendo ancora  abile  alla  masticazione  (in
prevalenza di cibi semisolidi), non era piu' in grado  di  portarseli
da bocca da se'; parimenti, manteneva  la  continenza  delle  feci  e
delle urine, ma non poteva alla scopo recarsi in bagno  in  autonomia
ne' tantomeno svolgere le funzione igieniche complementari  all'atto;
allo stesso modo, fino a pochi mesi  prima  del  decesso  riusciva  a
spostarsi per  pochi  metri  con  un  deambulatone,  ma  non  era  in
possibilita'  di  raggiungerlo  in  autonomia  ne'  di  assicurarsene
stabilmente la conduzione. 
    Nondimeno - per quel che in questa  sede  piu'  rileva  -  la  R.
veniva  sottoposta   a   specifiche   osservazioni   neurologiche   e
psichiatriche, al dichiarato scopo di addivenire ad una fondata stima
circa  la  sua  capacita'  di  autodeterminazione,   in   ordine   ad
un'eventuale  richiesta  di  accesso  alla   tecnica   del   suicidio
medicalmente assistito. 
    Dal parere tecnico neurologico  e  neuropsicologico  redatto  dal
prof. A. S. (v.  all.  2)  emergeva  con  evidenza  come,  sul  piano
cognitivo, pur con le difficolta' di valutazione connesse ai  deficit
motori e manuali, la paziente apparisse  «conservata  nel  rendimento
cognitivo globale, nella comprensione dei compiti e nelle  prove  che
sottostanno la capacita' decisionale». 
    Il  parere  metteva  ancora  in  luce  come   le   capacita'   di
espressione,  ancorche'   ridotte   dalla   compromissione   motoria,
permettessero tuttavia, mediante modalita' ad hoc (verbali e non), di
apprezzare «i  contenuti  del  pensiero  e  del  ragionamento»  della
paziente, sino a ritenere che il quadro neurologico e cognitivo della
stessa  fosse   compatibile   con   una   conservata   capacita'   di
autodeterminazione. 
    A fornire interessanti spunti di riflessione e' poi la  relazione
psichiatrica affidata al prof. R. A. (v. all. 3), dove si legge  come
il colloquio con la paziente  si  fosse  sovente  interrotto  per  il
sopraggiungere di un gemito cantilenante e iterativo, con comparsa di
insofferenza, rabbia e frustrazione «per il non poter dar  corso,  in
forma verbale adeguata, ai propri vissuti e sentimenti». 
    Dal punto di vista psichico veniva rilevato come non  emergessero
disturbi del contenuto del pensiero ne'  errori  psicosensoriali;  di
contro, si imponeva con chiarezza  come  ella,  da  sempre  attiva  e
sportiva, proponesse nell'occasione  «una  sofferenza  lacerante  nel
sentirsi ingabbiata e ingessata» in un corpo che  non  le  consentiva
piu' autonomia alcuna. 
    Ancora, veniva sottolineato come l'umore  della  donna  apparisse
improntato ad una demoralizzazione e  ad  un  «marcato  avvilimento»,
coerenti alla «corretta percezione  della  propria  grave  situazione
fisica». 
    Dirimenti, infine, le conclusioni del professionista. 
    Anzitutto, la R. veniva definita lucida,  vigile,  orientata  nel
tempo, nello spazio e «nei confronti della propria persona»;  il  suo
stato emotivo era  inoltre  definito  come  «congruo»  alla  corretta
percezione che la donna aveva della sua  malattia  e  della  prognosi
futura. 
    Infatti - gia' rispetto  all'attualita'  di  quel  momento  -  la
paziente proponeva una chiara incapacita' a sopportare ancora a lungo
cio' che alla stessa appariva come  un  calvario  esistenziale  e  in
relazione a cui, in un momento di particolare  affiato  esistenziale,
«riusciva a verbalizzare la frase "stanca e' dire poco"  accompagnata
da una mimica improntata a dolore e angoscia». 
    Infine, si sottolineava come la donna esprimesse  lucidamente  la
scelta, «autonoma  e  ben  radicata  nella  progettualita'»,  di  non
esporre se' stessa, e di riflesso i suoi familiari, ad una vita tanto
sofferta quanto inutile. 
    «Tale volonta' - si legge nelle ultime battute -  appare  libera,
consapevole, non influenza dai farmaci che assume, e si pone in linea
coerente con un proprio sentire, che pone la dignita'  della  persona
al centro delle proprie scelte». 
    Del resto, il tenore fermo  della  scelta  consapevole  della  R.
traspare chiaro dalle sue stesse parole, affidate  alla  penna  della
figlia (v. all. 5), dove la stessa si definisce «una donna dal  forte
temperamento, diverso dalle sue coetanee», che  ha  vissuto  «tenendo
sempre le redini di ogni [sua] scelta». 
    L'«incattivirsi dell'affaticamento corporeo» - si legge  -  aveva
costretto  la  figlia  e  «care  persone  vicine  alla  famiglia»   a
sostenerla nelle semplici attivita' quotidiane («Questo si',  aspetto
mortificante ed umiliante»),  si'  da  indurla  alla  scelta  ultima,
«dolorosa e motivata da una incrollabile volonta'». 
    Cosi' ricostruita la situazione clinica della R. , la vicenda  in
oggetto muove quindi le premesse dalla  richiesta  di  aiuto  che  la
stessa faceva pervenire al C. nel ... 
    La signora, infatti, aveva fermamente  espresso  la  volonta'  di
congedarsi dalla vita nel modo che ella riteneva piu'  dignitoso  per
se' stessa, autosomministrandosi un farmaco letale  secondo  le  note
procedure previste dalla normativa .... . 
    A seguito dell'esito positivo del percorso  avviato  dalla  donna
presso la clinica svizzera  «  ...  »,  nel  ...  la  donna  prendeva
nuovamente  contatti  con  l'indagato,  esortandolo  ad  aiutarla   a
raggiungere la  ...  cosi'  da  salvaguardare  i  suoi  familiari  da
eventuali conseguenze legali. 
    Il  C.  incontrava  quindi  la  signora  il  ...  presso  la  sua
abitazione,  cosi'  prendendo  coscienza  della  totale  e   continua
dipendenza della R. da terze  persone  nonche'  della  consapevolezza
della stessa di non essere tenuta in vita da trattamenti di  sostegno
vitale come individuati dalla  storica  sentenza  n.  242/2019  della
Corte costituzionale. 
    Il 6 febbraio la M. ritirava un apposito veicolo per il trasporto
di  persone  con  disabilita',  precedentemente  prenotato  e  pagato
dall'associazione « ... » di cui  il  C.  e'  legale  rappresentante;
dopodiche',  insieme  alla  F.  ,  accompagnavano  la  R.  sino  alla
cittadina ... di 
    Nei giorni successivi si susseguivano due diversi colloqui con il
medico competente, volti  a  verificare  la  perdurante  volonta'  di
scelta della donna in  ordine  all'autosomministrazione  del  farmaco
letale, entrambi conclusosi con esito positivo. 
    Veniva, infine, stabilito che, a  causa  di  alcuni  spasmi  alla
mandibola, la R. non avrebbe potuto autosomministrarsi il  medicinale
per via orale e, dunque, era proposta l'alternativa  della  pompa  ad
infusione, attivabile dalla donna stessa tramite un pulsante. 
    La   vicenda   si   concludeva,   dunque,   ...   -   si    legge
nell'autodenuncia presentata dagli indagati - «nel giro di pochissimi
secondi, in quanto la sig. P. premeva immediatamente il pulsante». 
    Cio' premesso, e'  ormai  opinione  ampiamente  condivisa  quella
secondo cui a ciascuno spetta il fondamentale diritto di scegliere se
e come curarsi, il quale include anche quello di rifiutare  le  cure,
pure laddove si pongano come indispensabili alla sopravvivenza. 
    Il diritto di interrompere queste ultime presuppone una procedura
finalizzata  alla  verifica  della   fermezza   del   rifiuto,   oggi
disciplinata dalla legge 22 dicembre 2017, n. 219. 
    In particolare, la legge citata riconosce a ogni  persona  capace
di agire il diritto di rifiutare o interrompere qualsiasi trattamento
sanitario,   ancorche'   necessario   alla   propria   sopravvivenza,
ricomprendendo  nella  relativa  nozione  anche  i   trattamenti   di
idratazione e nutrizione artificiale (art. 1, comma 5). 
    L'esercizio di tale diritto viene inquadrato nel  contesto  della
c.d. alleanza terapeutica tra medico e paziente, che la legge punta a
valorizzare: si tratta, invero, di una relazione  «che  si  basa  sul
consenso informato, nel quale si incontrano  l'autonomia  decisionale
del  paziente  e  la  competenza,  l'autonomia  professionale  e   la
responsabilita' del medico», e che puo' coinvolgere, «se il  paziente
lo desidera, anche i suoi familiari o la parte dell'unione  civile  o
il convivente ovvero una persona di fiducia  del  paziente  medesimo»
(art. 1, comma 2). 
    Nella  specie  e'  stabilito  che,  ove  il  paziente   manifesti
l'intento di rifiutare  o  interrompere  trattamenti  necessari  alla
propria sopravvivenza, il medico debba prospettargli  le  conseguenze
della sua decisione e le possibili alternative,  e  promuovere  «ogni
azione di  sostegno  al  paziente  medesimo,  anche  avvalendosi  dei
servizi di assistenza  psicologica»  tutto  cio'  ferma  restando  la
possibilita' per il  paziente  di  mutare  in  qualsiasi  momento  la
propria volonta' (art. 1, comma 5). 
    In ogni caso, il  medico  e'  tenuto  a  rispettare  la  volonta'
espressa dal paziente di rifiutare  il  trattamento  sanitario  o  di
rinunciare al medesimo,  rimanendo  «in  conseguenza  di  cio'  [...]
esente da responsabilita' civile o penale» (art. 1, comma 6). 
    Inoltre, integrando le previsioni della legge 15 marzo  2010,  n.
38, la legge del 2017 prevede che la  richiesta  di  sospensione  dei
trattamenti sanitari possa essere combinata alla richiesta di terapie
palliative, allo scopo di alleviare le sofferenze del paziente  (art.
2, comma 1). 
    Sul punto, la Corte costituzionale con  la  storica  sentenza  25
settembre 2019, n. 242 ha ritenuto legittima (rectius:  non  punibile
per l'esercizio di un diritto fondamentale) la condotta di  aiuto  al
suicidio del malato, purche' si tratti di «una persona a) affetta  da
una  patologia  irreversibile  e  b)  fonte  di  sofferenze   fisiche
psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia  c)
tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti d)
capace di prendere decisioni libere e consapevoli». 
    L'art. 580 del  codice  penale,  pertanto,  e'  stato  dichiarato
incostituzionale «nella parte in cui non esclude  la  punibilita'  di
chi, con le modalita'  previste  dagli  articoli  1  e  2,  legge  22
dicembre 2017, n. 219  -  ovvero,  quanto  ai  fatti  anteriori  alla
pubblicazione della presente sentenza nella Gazzetta Ufficiale  della
Repubblica, con modalita' equivalenti nei sensi di cui motivazione -,
agevola l'esecuzione  del  proposito  di  suicidio,  autonomamente  e
liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita  da  trattamenti
di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di
sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa  intollerabili,  ma
pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli,  sempre
che  tali  condizioni  e  le  modalita'  di  esecuzione  siano  state
verificate  da  una  struttura  pubblica   del   servizio   sanitario
nazionale,  previo  parere  del   comitato   etico   territorialmente
competente». 
    La pronuncia costituiva il naturale coronario  dell'ordinanza  n.
207/2018, con cui la Corte - pur ritenendo legittima l'incriminazione
dell'aiuto al suicidio, in quanto funzionale alla tutela del  diritto
alla vita - aveva tuttavia osservato che, in particolari  situazioni,
l'assoluto divieto  di  aiuto  al  suicidio  limita  la  liberta'  di
autodeterminazione del malato nella scelta  delle  terapie,  comprese
quelle finalizzate a  liberarlo  dalle  sofferenze,  senza  che  tale
limitazione possa ritenersi preordinata alla tutela della vita  o  di
altro interesse costituzionalmente apprezzabile. 
    Il paziente e' costretto a subire «un  processo  piu'  lento,  in
ipotesi non corrispondente alla propria visione  della  dignita'  nel
morire, e piu' carica di sofferenze  per  le  persone  che  gli  sono
care»; cio' comporta -  concludeva  la  Corte  -  una  lesione  della
dignita' umana,  oltre  che  dei  principi  di  ragionevolezza  e  di
uguaglianza in rapporto alle diverse condizioni  soggettive  (art.  3
Cost.). 
    In  realta',  preso  atto  del   vulnus   costituzionale   insito
nell'omnicomprensiva  penalizzazione  dell'aiuto  al   suicidio,   la
Consulta aveva scelto di esortare il legislatore a prendere posizione
in proposito, cosi' da poter valutare l'eventuale proposizione di una
legge che regolasse la materia in conformita' alle segnalate esigenze
di tutela; dinanzi al silenzio del legislatore,  tuttavia,  la  Corte
costituzionale non ha potuto far altro  che  dichiarare  la  parziale
illegittimita' costituzionale dell'art. 580 del codice penale. 
    La vicenda che ha impegnato il Giudice delle leggi e'  quella  di
un malato che non sarebbe in grado di lasciarsi morire dignitosamente
attraverso un mero rifiuto di cure, in quanto le terapie salvavita in
questione non sono tali che la loro  sospensione  realizzi  la  morte
immediata,  bensi'  un  prolungamento  indesiderato   ed   innaturale
dell'esistenza. 
    In proposito, e' ammessa una rinuncia terapeutica radicale o  una
terapia del dolore con sedazione profonda continua che accompagna  il
malato fino alla fine; tuttavia, dinanzi a  patologia  non  terminali
questa soluzione appare inadatta  (del  resto,  la  stessa  sedazione
profonda continuativa e' usualmente destinata alle ipotesi in cui  il
malato sia in fase terminale). 
    La pronuncia - come detto - fa leva sulla normativa attuale,  per
la quale il medico puo',  con  il  consenso  del  paziente,  soltanto
ricorrere alla sedazione palliativa profonda continua in associazione
alla terapia del dolore, per fronteggiare sofferenze refrattarie e  i
trattamenti sanitari, mentre non consente allo stesso  di  mettere  a
disposizione del paziente che versa nelle condizioni sopra  descritte
trattamenti diretti a determinarne la morte. 
    Di guisa che - si argomenta - il divieto  assoluto  di  aiuto  al
suicidio    finisce    per    limitare     ingiustificatamente     ed
irragionevolmente la liberta' di autodeterminazione del malato  nella
scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a  liberarlo  dalle
sofferenze, imponendogli  un'unica  modalita'  per  congedarsi  dalla
vita. 
    Tuttavia  -  come  correttamente  evidenziato   dalla   pervenuta
richiesta di atto abdicativo - la vicenda di cui  ci  si  occupa  non
sembra immediatamente risolvibile evocando i principi della  sentenza
in discorso, per l'assorbente, pacifico rilievo  della  mancanza  del
requisito di cui supra al punto c), «giacche' la signora era  affetta
da una patologia irreversibile che, pero', non  implicava  l'utilizzo
di mezzi di trattamento di sostegno vitale, essendo  il  mantenimento
in  vita,  pur  nelle  acclarate,   ingravescenti   condizioni,   non
condizionato da tali metodiche». 
    E', pertanto, proprio sul presupposto per cui  il  paziente  deve
essere tenuto in vita da mezzi artificiali che questo Giudice ritiene
la necessita' di un piu' approfondito vaglio. 
    In proposito, soccorrono le considerazioni sviluppate dalla Corte
di assise di Massa del 27 luglio 2020, con cui sono stati assolti gli
imputati C. M. e S. W. del reato di cui all'art. 580 codice penale in
relazione al suicidio assistito di D. T. 
    Nell'occasione, era stata esclusa la sussistenza sia di  condotte
di rafforzamento o istigazione morale sia di agevolazione  materiale,
pur in un contesto in cui difettava il requisito di cui alla  lettera
c), posto  che  il  paziente  era  affetto  da  una  grave  patologia
irreversibile (la sclerosi multipla) che  gli  provocava  dolori  non
lenibili  (il  cui  parziale  rimedio  era  la  somministrazione   di
antidolorifici a dosaggi sempre maggiori,  con  rischio  per  la  sua
vita), ma non era dipendente da trattamenti medici necessari  per  la
sopravvivenza  (quali  idratazione,   alimentazione   artificiale   o
emotrasfusione). 
    Invero D. T. , pur versando in condizioni  di  malattia  grave  e
irreversibile sovrapponibili a quelle dell'A. ,  non  era  tenuto  in
vita da un respiratore artificiale  o  da  altri  macchinari,  bensi'
supportato unicamente da presidi  farmacologici,  cosicche'  -secondo
una  diffusa  opinione  -  non  avrebbe  soddisfatto   il   requisito
dell'essere tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale. 
    Nondimeno,  l'organo  giudicante  ha   ritenuto   sussistenti   i
presupposti per l'applicazione dei principi espressi  dalla  sentenza
n. 242/2019, accogliendone una dirompente interpretazione estensiva. 
     Nella specie, si e' affermato come sarebbe  errato  interpretare
la regola iuris formulata dalla Corte costituzionale alla luce  della
vicenda concreta in cui ha trovato origine; di contro,  il  punto  di
riferimento alla base della declaratoria di illegittimita'  dell'art.
580 del codice penale sarebbe piuttosto la  disciplina  di  cui  alla
legge n. 219/2017, nella  parte  in  cui  riconosce  al  paziente  il
diritto  di   rifiutare   e   interrompere   qualsiasi   «trattamento
sanitario». 
    Secondo la Corte d'assise,  dunque,  tale  locuzione  di  portata
generale sarebbe idonea a ricomprendere «ogni  intervento  realizzato
con terapie farmaceutiche o con l'assistenza di  personale  medico  o
paramedico o con l'ausilio di macchinari medici». 
    Due,  in  particolare,  gli   aspetti   di   dipendenza   del   T
... valorizzati nell'occasione (definiti,  in  motivazione,  come  un
«trattamento assistenziale», ancora una volta, incompatibile  con  la
sopravvivenza). 
    Un   primo   fronte   di   dipendenza   era   dato   dall'apporto
farmacologico: la stabilita' del paziente si reggeva, invero,  su  di
un precario equilibrio nel dosaggio di farmaci antidolorifici (la cui
riduzione   avrebbe   peggiorato   la   funzione   respiratoria)    e
antipertensivi (senza i  quali  si  sarebbe  prodotto  uno  scompenso
cardiaco). 
    Il  secondo  aspetto  di   asservimento   era   ricondotto   alla
compromissione delle  funzioni  intestinali  nell'ultimo  periodo  di
vita: poiche', infatti, la  progressiva  paralisi  della  muscolatura
aveva prodotto una stipsi cronica, si erano resi necessari interventi
periodici  di  evacuazione  manuale  volti  ad   evitare   occlusioni
potenzialmente fatali. 
    Del resto, non e' questo l'unico sentiero che la  Corte  d'assise
ritiene percorribile per sussumere la vicenda in oggetto nell'ipotesi
di non  punibilita',  lumeggiando  la  possibilita'  di  giungere  al
medesimo  risultato  conclusivo  mediante  un'analogica  applicazione
della  stessa,  sull'assunto  che  questa  -  poiche'  scriminante  e
destinata ad operare in bonam partem,  oltre  che  scevra  di  natura
eccezionale - si sottrarrebbe al divieto di analogia. 
    Di  guisa  che  -  stante  l'identita'  di   ratio,   alla   luce
dell'omogeneita'  delle  situazioni   sostanziali   -   la   liceita'
dell'aiuto  al  suicidio  prestato  a  chi  versa  in  condizione  di
dipendenza da  trattamenti  sanitari  potrebbe  parimenti  affermarsi
laddove a beneficiarne siano pazienti che necessitano dell'assistenza
continua di terzi nello svolgimento  delle  piu'  basilari  attivita'
biologiche. 
    Secondo tale lettura,  dunque,  la  nozione  di  «trattamento  di
sostegno vitale» dovrebbe essere  intesa  in  senso  estensivo,  come
comprensiva  anche  di  quei  trattamenti  di   tipo   farmacologico,
interrotti quali si verificherebbe la morte del malato  anche  se  in
maniera non rapida. 
    Del resto, conforto illuminante  di  lettura  puo'  trarsi  anche
dalla sentenza della Corte di assise di Genova del 28 aprile  2021  -
confermativa di quella sopra citata della Corte di assise di Massa  -
dove  si  legge  che  «il  lapidario  divieto  di  aiutare  taluno  a
procurarsi la morte, in un periodo storico risalente in cui lo  scopo
unico era tutelare ad ogni costo la vita intesa come bene sociale, va
coniugato col diritto ad una vita dignitosa e col diritto al  rifiuto
di trattamenti terapeutici a fronte di una malattia che  abbia  esito
certamente infausto, a conclusione di un percorso  altrettanto  certo
di dolore acutissimo e senza fine». 
    Cio' che ha indotto il Giudice di seconde  cure  a  ritenere  che
«legittima era l'aspirazione alla conclusione della vita, lecito  era
il suicidio assistito,  poiche'  frutto  dell'autodeterminazione  del
malato a congedarsi da una esistenza che non era  piu'  in  grado  di
apprezzare, divenuta esclusivamente indicibile sofferenza». 
    In definitiva, appare evidente come la questione di  legittimita'
costituzionale che si prospetta sia  connotata  dall'esistenza  dalla
prima delle due condizioni di ammissibilita'  richieste  dalla  legge
per l'accesso al giudizio della Corte. 
    Come e' noto, la rilevanza e' strettamente correlata alla  natura
incidentale del giudizio  in  discorso,  riguardando  la  stessa  una
disposizione di legge la cui applicazione si impone come  ineludibile
ai fini della decisione del procedimento in corso. 
    Questo Giudice, invero, determinandosi in ordine  alla  richiesta
di archiviazione in atti, sarebbe tenuto ad applicare il disposto  di
cui all'art. 580 del codice penale nella sua  globalita'  e,  dunque,
anche nella parte in cui richiede che  la  condotta  di  agevolazione
debba essere realizzata nei confronti di persona «tenuta in  vita  da
trattamenti di sostegno vitale». 
    Ai fini del presente giudizio, l'applicazione di  tale  frammento
di norma e' dirimente: per un verso, la  circostanza  che  la  R  non
fosse tenuta in vita da un trattamento di sostegno vitale rigidamente
inteso  determinerebbe  -  allo  stato  -  il  rigetto   dell'istanza
archiviativa, necessariamente aprendo la via del rinvio  a  giudizio;
per  altro  verso,   l'eventuale   declaratoria   di   illegittimita'
costituzionale  della  parte  indicata  di  norma  consentirebbe   di
sussumere le condotte degli indagati  nell'area  di  non  punibilita'
dell'art. 580 del codice penale  gia'  tracciata  dalla  sentenza  n.
242/2019. 
Sulla non manifesta infondatezza della questione 
    Quanto  alla  seconda  delle  condizioni  di  ammissibilita'  per
l'accesso al giudizio della Corte,  occorre  preliminarmente  operare
alcune precisazioni. 
    E' noto, infatti, come la Corte  costituzionale  richieda  sempre
piu'  frequentemente  che,  prima  di  promuovere  una  questione  di
legittimita', il Giudice a quo debba svolgere ogni tentativo  diretto
a verificare se il dubbio  di  costituzionalita'  della  disposizione
possa essere superato per via interpretativa,  ricercando,  tra  piu'
possibili interpretazioni, quella che consenta  di  renderla  non  in
contrasto con la Carta fondamentale. 
    Si fa riferimento al c.d. obbligo di interpretazione  conforme  a
Costituzione: secondo la Corte, infatti, «in linea di  principio,  le
leggi non si dichiarano  costituzionalmente  illegittime  perche'  e'
possibile  darne  interpretazioni  incostituzionali,  ma  perche'  e'
impossibile  darne  interpretazioni  costituzionali»   (sentenza   n.
356/1996, con un'affermazione poi costantemente  ripresa  in  diverse
altre pronunce). 
    Ebbene, nel caso di specie il  «sufficiente  sforzo  ermeneutico»
richiesto dalla giurisprudenza costituzionale e cui questo Giudice e'
chiamato a confrontarsi non pare trovare adeguata soddisfazione nelle
ragioni   indicate   dalla   Difesa   degli   indagati   ne'    nelle
argomentazioni, sia pur acutissime, addotte dall'organo d'accusa. 
    La lettura del dettato normativo, come risultante dall'intervento
della sentenza n. 242/2019 e nella  sua  attuale  formulazione,  pare
ancora porre la condizione dell'essere «tenuto in  vita  a  mezzo  di
trattamenti di sostegno vitale» come  impeditiva  del  ricomprendervi
anche la somministrazione di farmaci non immediatamente «salvavita». 
    Vero e', infatti, che le considerazioni sviluppate dalla Corte di
assise di Massa prima, e da quella di Genova  poi,  costituiscono  un
dirompente approdo della giurisprudenza  di  merito  sul  punto,  del
quale non puo' non tenersi conto; nondimeno,  l'elevato  rango  degli
interessi beni giuridici in  rilievo,  unitamente  alla  specificita'
della materia, inducono questo giudicante a desistere da qualsivoglia
defatigante   lettura   costituzionalmente   orientata,   di   contro
ravvisando la possibilita' di un miglior profitto  in  un  autorevole
intervento della Corte. 
    Cio' premesso, ci si  accinge  ora  a  vagliare  gli  individuati
profili di dubitanza. 
    Il  primo  aspetto  cui  porre  l'accento  concerne  il  ritenuto
trattamento  discriminatorio  tra  differenti  tipologie  di  persone
malate. 
    Un  soggetto  corrotto  nelle   proprie   condizioni   vitali   -
liberamente ed autonomamente determinatosi a porre fine alla  propria
esistenza,  pienamente  capace  di  prendere   decisioni   libere   e
consapevoli, nonche' afflitto  da  malattia  irreversibile  fonte  di
gravi sofferenze fisiche o psicologiche eppure non tenuto in vita  da
trattamenti di sostegno vitale stricto  sensu  intesi  -  si  ritiene
possa  versare  in  una   situazione   di   patologia   irreversibile
clinicamente accertabile altrettanto dolorosa al pari di altro malato
che si avvale di tali trattamenti. 
    Il requisito dei trattamenti  di  sostegno  vitale,  invero,  non
contribuisce in alcun modo a misurare la capacita' di intendere e  di
volere, la liberta' ed autonomia di scelta o le sofferenze fisiche  o
psicologiche dei soggetti malati, risultando altresi' irrilevante  al
fine di dimostrare la  sussistenza  di  una  patologia  e  della  sua
irreversibilita'. 
    Esso, dunque, si pone quale del tutto  indifferente  rispetto  ad
esigenze di tutela  della  vita  della  persona  malata  da  abusi  o
circonvenzioni, ne' e' funzionale a proteggere il malato psichiatrico
o colui che si sia determinato in maniera avventata a porre fine alla
sua vita in ragione di condizioni patologiche passeggere: l'oggettiva
presenza di una patologia seria, concretamente verificabile, infatti,
e'  gia'  pienamente  assicurata   dal   requisito   della   malattia
irreversibile  nonche'  da  quello   delle   sofferenze   fisiche   o
psicologiche gravi. 
    Pertanto, il dubbio di costituzionalita' si sostanzia in  questo:
in presenza di tutti gli altri requisiti di cui si e' detto, solo  le
persone malate che si trovino  a  doversi  avvalere  di  un  presidio
medico o di un trattamento farmacologico di  sostegno  ad  un  organo
vitale  possono,  sulla  base  dell'art.  580  del   codice   penale,
legittimamente usufruire dell'aiuto al suicidio nel nostro Paese;  di
contro, agli altri infermi e' precluso ricorrere,  nei  tempi  e  nei
modi prescelti, a tale  pratica,  dovendo  di  necessita'  affrontare
l'attesa  del  peggioramento  delle  condizioni  patologiche  di  cui
soffrono e potendo congedarsi dalla vita con l'ausilio medico solo  a
seguito della sopraggiunta dipendenza da un trattamento  di  sostegno
vitale. 
    La necessita' della  sussistenza  di  tale  requisito,  affinche'
l'aiuto a congedarsi dalla vita in modo dignitoso non sia  penalmente
punibile, si ritiene del tutto arbitrario, dando di conseguenza  vita
ad una oggettiva discriminazione tra persone malate, con  conseguente
lesione  del  principio  di  eguaglianza  di  cui  all'art.  3  della
Costituzione. 
    A sostegno, non puo' non richiamarsi l'autorevole parere reso dal
Comitato nazionale di bioetica  il  18  luglio  2019  in  materia  di
suicidio medicalmente assistito. 
    Il Comitato, senza soffermarsi sulla nozione di  «trattamento  di
sostegno vitale» che, peraltro, risulta privo  di  definizione  nello
stesso ambito medico, ha affermato  che  dovrebbe  trattarsi  di  una
«condizione  aggiuntiva,  solo  eventuale»;   ritenerla   necessaria,
viceversa,   creerebbe   una    discriminazione    irragionevole    e
incostituzionale fra quanti sono mantenuti in vita artificialmente  e
quanti, pur  affetti  da  patologia  anche  gravissima  e  con  forti
sofferenze, non lo sono o non lo sono ancora». 
    A ben vedere, il Comitato nell'occasione  si  spinge  addirittura
oltre, arrivando a sostenere che «si imporrebbe a  questi  ultimi  di
accettare un trattamento anche  molto  invasivo,  come  nutrizione  e
idratazione artificiali o ventilazione meccanica, al  solo  scopo  di
poter richiedere l'assistenza al  suicidio,  prospettando  in  questo
modo  un  trattamento  sanitario  obbligatorio  senza  alcun   motivo
ragionevole». 
    E ben vero che il contenuto dei diritti  primari  e  fondamentali
non e' privo di limiti. 
    Come chiarito dalla stessa Corte costituzionale con  la  sentenza
n. 75/1996, l'art. 2 della Costituzione,  «nell'affermare  i  diritti
inviolabili  dell'uomo  e  i  doveri  inderogabili  di   solidarieta'
politica, economica e sociale, non puo' escludere che  a  carico  dei
cittadini siano poste quelle restrizioni della sfera  giuridica  rese
necessarie dalla tutela dell'ordine  sociale»,  anche  se  i  diritti
connotati  dall'inviolabilita',   «essendo   intangibili   nel   loro
contenuto di valore»,  possono  essere  «unicamente  disciplinati  da
leggi generali, che possono limitarli soltanto al fine di  realizzare
altri interessi costituzionali altrettanto fondamentali  e  generali»
(sent. n. 23571988). 
    Dette  restrizioni  si  rendono  necessarie  poiche'  «i  diritti
primari e fondamentali dell'uomo diverrebbero illusori per tutti,  se
ciascuno potesse esercitarli fuori  dell'ambito  della  legge,  della
civile regolamentazione, del costume corrente, per cui  tali  diritti
devono  venir  contemperati  con  le  esigenze  di  una   tollerabile
convivenza» (sent. n.  168/1971);  tuttavia,  la  regola  da  seguire
perche' tali limiti siano ammissibili deve sempre essere quella della
«necessarieta'  e  ragionevolezza  della   limitazione»   (sent.   n.
141/1996). 
    Particolarmente significativa sul  punto,  infine,  e'  anche  la
sentenza n. 143/2013 della Corte costituzionale, nella  quale  si  e'
evidenziato come «nelle operazioni di bilanciamento non puo'  esservi
un decremento di tutela di un diritto fondamentale se ad esso non  fa
riscontro un corrispondente incremento di tutela di  altro  interesse
di pari rango». 
    In sintesi, dunque, si ritiene che la tutela  della  liberta'  di
avvalersi di un  aiuto  a  porre  fine  alla  propria  vita  in  modo
dignitoso, nelle condizioni di sofferenza e malattia  di  cui  si  e'
detto, appare sacrificata senza alcun corrispettivo,  in  termini  di
innalzamento di altri diritti costituzionali. 
    Il secondo aspetto  su  cui  si  ritiene  di  porre  l'attenzione
involge la violazione del principio personalista di  cui  all'art.  2
della Costituzione, unitamente alla liberta' di autodeterminazione in
ordine alla scelta di cure mediche. 
    La necessita'  della  sussistenza  dei  trattamenti  di  sostegno
vitale, invero, affinche' le condotte di aiuto  al  suicidio  possano
essere ritenute non punibili, si pone in contrasto con  il  principio
personalista, con l'inviolabilita' della liberta'  personale  di  cui
all'art.  13  della   Costituzione,   nonche'   della   liberta'   di
autodeterminazione con specifico riguardo alle cure mediche di cui al
dettato congiunto degli articoli 2, 3, 13 e 32 della Costituzione. 
    Secondo il principio personalista l'organizzazione  sociale  deve
tendere all'obiettivo assolutamente primario di favorire «lo sviluppo
di ogni singola persona umana» (sent. n. 167/1999), sviluppo che  non
si puo'  arrestare  al  momento  delle  scelte  di  fine  vita  e  di
liberazione dal dolore causato da una malattia irreversibile da parte
di chi ne e' afflitto. 
    Ebbene, l'art. 2, unitamente agli articoli 13 e 32, secondo comma
della Costituzione, tutela appunto la liberta' di  autodeterminazione
in ambito terapeutico (sent. n. 438/2008), la quale si  estende  sino
ad abbracciare, all'interno di un rapporto medicalizzato,  la  scelta
di congedarsi dalla vita  nel  caso  di  malattia  irreversibile  che
provoca gravi sofferenze fisiche o psicologiche,  ferma  restando  la
piena capacita' di intendere e di volere e la liberta'  ed  autonomia
della scelta stessa (sent. n. 242/2019). 
    Conseguentemente,  la  rilevanza   penale   delle   condotte   di
agevolazione  come  quelle  degli  indagati,  cosi'  come  risultante
dall'attuale formulazione dall'art.  580  del  codice  penale,  nella
parte in cui prevede il requisito dei trattamenti di sostegno vitale,
si pone in netto contrasto con l'esercizio di tale liberta'. 
    Per effetto della  sanzione  penale  in  capo  agli  agevolatori,
invero, e' precluso ad ammalati nelle medesime condizioni della R ...
di avvalersi di un aiuto esterno  in  una  scelta  tanto  drammatica,
venendo anzi imposto di proseguire nel calvario delle loro sofferenze
e a rassegnarsi all'evoluzione della. malattia, che trasforma la loro
vita in una drammatica sopravvivenza. 
    In definitiva, la scelta  di  congedarsi  dalla  vita  in  simili
frangenti si  pone  quale  essenziale  e  incoercibile  modalita'  di
affermazione della propria  personalita',  su  cui  l'individuo  deve
potersi liberamente autodeterminare. 
    Sul  punto,  dunque,  le  difficolta'  che   affiorano   sembrano
riconducibili ad una problematica di fondo: la stessa previsione  del
requisito del trattamento di sostegno vitale. 
    Alla luce  dell'attuale  tessuto  normativo,  per  quanto  la  si
estenda, infatti, ogni possibile  interpretazione  correttiva  dovra'
continuare a richiedere che il paziente sia sottoposto ad una qualche
forma di trattamento, e cio'  appare  contraddittorio  rispetto  alla
finalita'  di  tutela  dei  diritti   fondamentali   che   la   Corte
costituzionale afferma. di voler perseguire con  la  non  punibilita'
dei terzi che prestano il proprio  apporto  nella  scelta  suicidaria
altrui. 
    Rispetto a tale finalita', invero, tale requisito sembra privo di
effettiva capacita' selettiva. 
    Il diritto dell'individuo di scegliere  il  percorso  medico  per
liberarsi dalle sofferenze nonche' quello di sottrarsi ad un  decorso
lento e ritenuto lesivo del proprio modo di intendere il concetto  di
dignita' informano esigenze di tutela - a sommesso parere  di  questo
Giudice - che dovrebbero  dirsi  slegate  dalla  circostanza  che  lo
stesso paziente sia sottoposto ad un qualche trattamento. 
    Cio' che sembra realmente  dirimente  e'  piuttosto  il  concetto
stesso di «malattia», e non il trattamento  che  questa  riceve,  che
potra' semmai rilevare come indice della gravita' o dello  stadio  di
avanzamento della patologia. 
    Del resto, attualmente esiste un preciso  addentellato  normativo
per ritenere irragionevole continuare a pretendere  che  il  paziente
sia sottoposto ad un trattamento: si tratta del gia' citato  art.  1,
comma 5, della legge  n.  219/2017,  che  riconosce  al  paziente  il
diritto  di  rifiutare,  sin  dall'inizio,  «qualsiasi»   trattamento
sanitario, anche di sostegno vitale (sia  in  senso  stretto  sia  in
senso lato), compresa la terapia del dolore;  con  la  contraddizione
per cui, allo stato, per accedere al suicidio assistito, un  paziente
che avesse da sempre rifiutato qualsiasi cura dovrebbe prima chiedere
di essere sottoposto ad un trattamento per poi rinunciarvi. 
    Non si esclude che, mediante il  requisito  in  oggetto,  si  sia
voluta esprimere una diversa esigenza di disciplina, cioe'  riservare
il suicidio assistito soltanto a pazienti ormai prossimi  al  decesso
per cause naturali o comunque la cui malattia, ex se,  porterebbe  ad
un esito letale. Tuttavia, anche a voler mantenere  una  tale  logica
limitativa,  sarebbe  forse  piu'  congruo  inserire   un   requisito
ulteriore e diverso, in ogni caso espungendo un vincolo - peraltro un
unicum  a  livello  internazionale  nella  disciplina  del   suicidio
assistito  -  che  di  fatto  espone  al  rischio   delle   segnalate
ingiustizie sostanziali. 

 
                               P.Q.M. 
 
    Ritenuta la rilevanza nel presente giudizio e  la  non  manifesta
infondatezza della questione di legittimita' costituzionale dell'art.
580 del codice penale, limitatamente alle parole «tenuta in  vita  da
trattamenti di sostegno vitale» - ponendosi le  stesse  in  contrasto
con gli articoli 2, 3, 13, 32, secondo  comma,  e  117,  primo  comma
della Costituzione, quest'ultimo  in  riferimento  all'art.  8  della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta' fondamentali - e ravvisando nella parte di  norma  segnalata
il concreto  pericolo  di  una  arbitrarieta'  applicativa  e  di  un
pregiudizio lesivo del principio di eguaglianza in relazione  a  casi
di pazienti affetti  da  patologie  gravissime  che  non  implichino,
tuttavia, il necessario ricorso a trattamenti di sostegno vitale; 
    Sospende il presente procedimento a carico di M. F. F.  V.  e  C.
M.; 
    Dispone la trasmissione  degli  atti  alla  Corte  costituzionale
affinche',  ove  ne  ravvisi   i   presupposti,   voglia   dichiarare
l'illegittimita' costituzionale dell'art. 580 del codice penale nella
parte indicata; 
    Dispone che la presente ordinanza sia  notificata  al  Presidente
del Consiglio dei ministri  e  comunicata  ai  Presidenti  delle  due
Camere del Parlamento. 
        Bologna, 29 settembre 2025 
 
                         Il Giudice: Romito
                    

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