Reg. ord. n. 211 del 2025 pubbl. su G.U. del 05/11/2025 n. 45

Ordinanza del Tribunale di Brindisi  del 29/07/2025

Tra: R.A. S.  C/ P. L.



Oggetto:

Processo civile – Esecuzione forzata – Misure di coercizione indiretta – Esercizio, su istanza di parte o d’ufficio, da parte del giudice dell’opposizione a precetto (e, in generale, del giudice dell’esecuzione) del potere di determinare ex post un tetto quantitativo massimo (o di durata) all’applicazione delle misure di coercizione indiretta, in mancanza di predeterminazione da parte del giudice della cautela o del giudice del merito – Omessa previsione – Denunciata introduzione di un vincolo potenzialmente perpetuo – Violazione dei principi di ragionevolezza e di proporzionalità – Contrasto con il principio della libertà negoziale e con la tutela del diritto di proprietà – Violazione dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali con riferimento al diritto al rispetto dei beni, espresso dal Protocollo addizionale alla CEDU – Violazione del principio di effettività della tutela giurisdizionale e del diritto a un equo processo, tutelati anche a livello convenzionale e sovranazionale – Violazione del principio di eguaglianza, in relazione a fattispecie nelle quali è stata riconosciuta la possibilità di intervento ex officio a tutela dell’equilibrio contrattuale.

Norme impugnate:

codice di procedura civile  del  Num.  Art. 614

decreto legislativo  del 10/10/2022  Num. 149  Art. 3  Co. 44



Parametri costituzionali:

Costituzione  Art.  Co.  

Costituzione  Art. 24   Co.  

Costituzione  Art. 41   Co.

Costituzione  Art. 42   Co.

Costituzione  Art. 47   Co.  

Costituzione  Art. 111   Co.  

Costituzione  Art. 113   Co.  

Costituzione  Art. 117   Co.

Convenzione per la salvaguardia diritti dell'uomo e libertà fondamentali  Art.  Co.  

Convenzione per la salvaguardia diritti dell'uomo e libertà fondamentali  Art. 13   Co.  

Protocollo n. 1 a Convenzione europea diritti dell'uomo  Art.  Co.  

Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea  Art. 47   Co.  




Testo dell'ordinanza

                        N. 211 ORDINANZA (Atto di promovimento) 29 luglio 2025

Ordinanza  del  29  luglio  2025  del  Tribunale  di   Brindisi   nel
procedimento civile promosso da R.A. S. contro P. L., I. M. e M. L.. 
 
Processo  civile  -  Esecuzione  forzata  -  Misure  di   coercizione
  indiretta - Esercizio, su istanza di parte o  d'ufficio,  da  parte
  del giudice  dell'opposizione  a  precetto  (e,  in  generale,  del
  giudice dell'esecuzione) del potere di determinare ex post un tetto
  quantitativo massimo (o di durata) all'applicazione delle misure di
  coercizione indiretta, in mancanza di  predeterminazione  da  parte
  del giudice della  cautela  o  del  giudice  del  merito  -  Omessa
  previsione. 
- Codice  di  procedura  civile,  art.  614-bis,  nella  formulazione
  anteriore a quella sostituita dall'art. 3, comma  44,  del  decreto
  legislativo 10 ottobre 2022, n.  149  (Attuazione  della  legge  26
  novembre 2021, n. 206, recante delega al Governo  per  l'efficienza
  del processo civile e  per  la  revisione  della  disciplina  degli
  strumenti di risoluzione alternativa delle  controversie  e  misure
  urgenti di razionalizzazione dei procedimenti in materia di diritti
  delle persone e delle famiglie nonche'  in  materia  di  esecuzione
  forzata). 


(GU n. 45 del 05-11-2025)

 
                        TRIBUNALE DI BRINDISI 
           Sezione civile - Settore procedure concorsuali 
 
    Il GI, letti gli atti ed i documenti di causa; 
    viste le deduzioni delle parti e  sciolta  la  riserva  formulata
all'udienza del 10 luglio 2025; 
 
                               Osserva 
 
    Per comodita' espositiva si fa precedere al testo  dell'ordinanza
l'indice seguito nella stesura della stessa: 
Indice 
    1. La fattispecie concreta 
    2.  La  questione  d'incostituzionalita':  la   contrarieta'   ai
principi  di   uguaglianza,   ragionevolezza,   di   proporzionalita'
dell'art. 614-bis del codice di procedura civile, nella  formulazione
previgente alla riforma Cartabia, nella parte in cui non  prevede  la
possibilita', da parte del Giudice dell'opposizione  a  precetto,  di
determinare ex post un  tetto  quantitativo  massimo  (o  anche  solo
temporale)  all'operare  delle  misure  ex  614-bis  del  codice   di
procedura civile (su istanza di parte o, come  nel  caso  di  specie,
anche d'ufficio). 
    3. Presupposti per l'ammissibilita' del rinvio  all'ill.ma  Corte
costituzionale. 
      3.1. Perimetrazione della questione e  rilevanza  ai  fini  del
caso di specie. 
      3.2. Inquadramento dell'istituto. 
    4.   Possibilita'   di   un'interpretazione    costituzionalmente
conforme: gli argomenti a  favore  della  soluzione  favorevole  alla
possibilita', per il giudice dell'esecuzione, ove gia' non fatto  dal
giudice del merito, di determinare ex post un  tetto  quantitativo  o
temporale, massimo, all'operare delle stesse. 
      4.1. La clausola generale rebus sic stantibus  e  la  rilevanza
delle sopravvenienze. La  qualificabilita'  della  esorbitanza  della
somma maturata nei suddetti termini. 
      4.2.  La  riduzione  d'ufficio  della   penale   manifestamente
eccessiva  quale  argomento  logico  richiamabile  a   favore   della
possibilita' di apporre d'ufficio un tetto massimo. L'estensione  del
principio di necessario  equilibrio  del  rapporto  contrattuale,  ad
opera del giudice delle leggi,  alla  caparra  confirmatoria  (seppur
ricorrendo  al  diverso  rimedio  della   sanzione   della   nullita'
parziale). 
      4.3. Il fondamento equitativo del potere del G.e. di fissare ex
post di un limite massimo all'astreinte, determinata dal giudice  del
merito; cosi' come dello stesso potere del giudice  della  cognizione
di provvedere alla sua riduzione (ove non gia' coperta da giudicato). 
      4.4. Un argomento sistematico in favore del potere di  fissare,
anche ex officio, un tetto massimo ad una misura,  aliunde  irrogata:
la posizione della giurisprudenza amministrativa. 
      4.5. Argomento sistematico-evolutivo. 
      4.6. La qualificabilita' dell'eccessiva esosita'  della  penale
quale fatto sopravvenuto 
      4.7. Opponibilita' dell'exceptio doli generalis  (al  di  fuori
dell'ambito contrattuale). 
    5. Le criticita' mosse alla soluzione favorevole e la non agevole
sperimentazione di un'interpretazione costituzionalmente orientata. 
    6. Non manifesta infondatezza  della  questione  di  legittimita'
costituzionale  per  violazione  dei  principi  di  ragionevolezza  e
proporzionalita' ex art. 3 Cost. 
      6.1. Il divieto di  vincoli  perpetui  quale  declinazione  dei
principi de quibus. 
      6.2. Ricostruzione dei principi alla luce della  giurisprudenza
costituzionale. 
        6.2.1. Il principio di ragionevolezza. 
        6.2.2. Il principio di proporzionalita'. 
        6.2.3. La peculiarita' della disciplina del caso di specie. 
        6.2.4. I profili  evidenziati  dalla  difesa  dell'opponente,
rappresentata dal prof. V. Farina. 
    7. Non manifesta infondatezza  della  questione  di  legittimita'
costituzionale per violazione dell'art. 42, comma 4,  Cost.,  nonche'
dell'articolo 117 Cost.,  come  integrato,  quale  norma  interposta,
dell'art. 1 del Protocollo 1 della Convenzione  europea  dei  diritti
dell'uomo (CEDU). 
    8. Non manifesta infondatezza  della  questione  di  legittimita'
costituzionale per violazione del  principio  di  effettivita'  della
tutela giurisdizionale ex articoli 24, 111 Cost. e 47 CDFUE,  nonche'
dell'117  Cost.,  come  integrato,  quali  norme  interposte,   dagli
articoli 6 e 13 Cedu 
    9. Non manifesta infondatezza  della  questione  di  legittimita'
costituzionale per violazione del principio di uguaglianza ex art.  3
Cost. 
    10. Sintesi della questione. 
    11. Quesito posto al vaglio della Corte costituzionale. 
1. La fattispecie concreta 
    L'opposizione  a  precetto  nasce  da  un  giudizio   di   natura
cautelare, a seguito del quale, e' stata emessa una misura coercitiva
indiretta  al  fine  di   indurre   gli   opponenti   all'adempimento
dell'obbligazione  di  consegna  di  una  determinata  documentazione
medica, formata e acquisita nel corso  dell'attuazione  del  rapporto
professionale. 
    In particolare, consta  ex  actis  che  l'anno  ...  gli  opposti
chiedevano al dott. ... (medico dentista), che  accettava,  di  poter
usufruire della sua opera professionale  per  la  risoluzione  di  un
problema dentario che affiggeva la loro figlia minore, L. M. 
    Veniva, quindi, effettuato  un  esame  radiologico  sull'apparato
dentario della minore, in base al quale il suddetto professionista  e
la sua collaboratrice dott.ssa ... (medico  specialista  odontoiatra)
verificavano il tipo di cure di cui necessitava L. M. 
    Ebbe, poi, inizio,  presso  lo  studio  professionale,  un  lungo
percorso terapeutico. Nel ..., quando il ciclo terapeutico volgeva al
termine, i genitori, ritenendo che le cure cui era  stata  sottoposta
la figlia M. , non avessero prodotto l'esito sperato, si  rivolgevano
ad altro medico dentista, il dott. ..., per avere un nuovo consulto. 
    Con atto di diffida e costituzione in mora del 17 settembre 2021,
gli opposti chiedevano al dott. ...  il  risarcimento  di  tutti  gli
(asseriti) danni patiti e patiendi - ancora in corso di  accertamento
- nonche' di  indicare  la  propria  compagnia  assicurativa  per  la
responsabilita' professionale. 
    Con nota in data 1° ottobre 2021, il dott. ...  riferiva  che  le
cure sulla minore, per quanto praticate  presso  il  proprio  studio,
erano state eseguite, in piena autonomia, dalla  dott.ssa  ...  ,  in
quanto specialista, abilitata in ortodonzia,  nei  cui  confronti  li
invitava a rivolgere le richieste risarcitorie. 
    Con nota, in data 11 ottobre 2021,  gli  opposti  reiterarono  la
richiesta di risarcimento dei danni  nei  confronti  del  dott.  ...,
estendendola anche nei confronti della dott.ssa ... . 
    Con nota del 12 ottobre 2021, la dott.ssa ...  riferiva  di  aver
avuto in cura L. M. , presso lo studio del dott. ..,  «esclusivamente
per le cure odontoiatriche», invitandoli  a  rivolgere  le  richieste
risarcitorie nei confronti del collega, «quale titolare dello studio,
al quale si era rivolta  la  minore  L.  M.  ,  come  paziente  della
struttura su menzionata. 
    Dovendo  procedere,   prima   di   agire   giudizialmente,   alla
determinazione dei danni, subiti dalla loro figlia, con nota in  data
3 febbraio 2022, gli opposti chiedevano, al dott. ... e alla dott.ssa
... , la restituzione delle radiografie  eseguite  prima  dell'inizio
del ciclo terapeutico cui era stata sottoposta L .M. 
    Con nota, in data 11 febbraio 2022, il dott. ... riferiva di  non
possedere i referti degli esami diagnostici, ribadendo che L. M.  era
stata «curata e trattata solo ed esclusivamente dalla dr.ssa ...». 
    Con nota pec in data 15 febbraio 2022, la dott.ssa ...  riferiva,
invece, che «gli originali delle radiografie eseguite sulla minore M.
L. [...] (era)no state restituite presso lo Studio  ...  in  data  24
ottobre 2019». 
    Premesso tale quadro fattuale, gli opposti adivano  (con  ricorso
ex artt. 670 e-o 700 ed ex artt. 669-bis  e  614-bis  del  codice  di
procedura civile, iscritto sub n. 1668/2022 r.g.)  questo  Tribunale,
cui chiedevano di essere  autorizzati,  anche  con  decreto  inaudita
altera parte, a procedere al sequestro giudiziario delle  radiografie
in questione, con la contestuale determinazione, ai  sensi  dell'art.
614-bis del codice di procedura civile, di una somma  di  denaro  per
«ogni   giorno»   di   ritardo   nella   esecuzione    dell'adottando
provvedimento. 
    Con decreto, emesso inaudita altera  parte,  in  data  27  maggio
2022, questo  Tribunale  autorizzava  gli  opposti  «a  procedere  al
sequestro giudiziario delle  radiografie  eseguite  su  L.  M.  ...»,
fissando  l'udienza  del  7   luglio   2022   per   i   provvedimenti
consequenziali. 
    Nelle  more,  gli  opposti  ponevano  in  esecuzione  il  decreto
inaudita altera parte del 27 maggio 2022, eseguendo il sequestro  sia
presso lo studio del dott. ..., sia presso quello della dott.ssa .... 
    Tuttavia, entrambi i tentativi risultavano infruttuosi in  quanto
i due professionisti dichiaravano di non  essere  in  possesso  delle
radiografie di cui trattasi (v. verbale del  sequestro  eseguito  nei
confronti della dott.ssa ..., in atti). 
    Entrambi i medici si costituivano, poi, nel  giudizio  cautelare,
ribadendo  le  medesime  (e  antitetiche)  versioni,  relative   alla
disponibilita' della documentazione richiesta,  gia'  sostenute  ante
causam. 
    Con ordinanza resa in data 2-5 settembre 2022,(... v. doc. 1,  in
atti), questo Tribunale, sciogliendo la riserva, confermava  la  gia'
concessa autorizzazione a procedere al  sequestro  giudiziario  delle
radiografie e,  avendo  constatato  il  perdurare  dell'inadempimento
nella  riconsegna  delle  radiografie,  condannava  i  resistenti  al
pagamento, in solido, della somma di euro 50,00 per  ogni  giorno  di
ritardo nella esecuzione dell'ordinanza stessa. 
    Avverso tale ordinanza proponevano reclamo sia  la  dott.ssa  ...
(iscritto sub n. 2805/2022 r.g.), sia il dott. ... (iscritto  sub  n.
2833/2022 r.g.). 
    Nell'attesa dell'adottando provvedimento collegiale (che  avrebbe
definito la fase cautelare), gli opposti introducevano il giudizio di
merito   (che    pende    sub    n.    3474/2022    r.g.    Tribunale
Brindisi), avanzando, nei confronti dei due  medici,  la  domanda  di
risarcimento danni, alla cui quantificazione avevano dovuto procedere
senza poter disporre delle ridette radiografie. 
    Con provvedimento, in data 10 luglio 2023  (v.  doc.  2),  questo
Tribunale rigettava entrambi i reclami, condannando i  reclamanti  al
pagamento  delle  spese  legali  e  confermando  l'ordinanza  del  25
settembre 2022, con cui i  due  medici  erano  stati  condannati,  in
solido, al pagamento della somma di euro 50,00  per  ogni  giorno  di
ritardo nella esecuzione della medesima. 
    Sulla scorta degli accadimenti sin qui narrati ed in forza  della
ordinanza, resa da questo Tribunale, in data 2-5 settembre 2022,  gli
opposti hanno notificato, in data 20 luglio 2023, atto di precetto al
dott. ... e alla dott.ssa ... (v. doc.  3),  intimando  il  pagamento
della somma dovuta a titolo  di  astreinte,  ossia  per  ogni  giorno
ritardo (a decorrere dal 5 settembre 2022 e sino al 20  luglio  2023)
nella esecuzione della ordinanza medesima. 
    L'importo che veniva  precettato  era  pari  a  15917.06  ed  era
limitato al quantum maturato fino al giorno del precetto,  senza  che
la parte manifestasse la volonta' di limitare, nel futuro, la propria
pretesa a quanto richiesto con l'attivita' precettizia. 
    Avverso il succitato  precetto  (soltanto)  la  dott.ssa  ...  ha
proposto opposizione, ai sensi dell'art. 615 del codice  civile,  con
atto notificato in data 4  agosto  2023  (v.  doc.  4),  citando  gli
opposti a comparire innanzi a questo Tribunale per l'udienza  del  20
dicembre 2023. 
    In  particolare,  l'opponente  si   doleva   dell'assenza   delle
condizioni  giuridiche  richieste   per   una   legittima   attivita'
precettizia. 
    Orbene, ritiene questo Giudice, ad una valutazione  prima  facie,
che  le  ragioni  formulate  non  possano  essere  accolte   ed,   in
particolare, che non sia ammissibile una riduzione  delle  misure  ex
art. 614-bis del codice di procedura civile su  istanza  di  parte  o
anche d'ufficio; 
    Dal contraddittorio con le parti, stimolato per l'udienza  del  9
maggio, infatti, scaturito  che  in  relazione  al  suddetto  profilo
esiste un precedente specifico della suprema Corte.  Con  riferimento
alla formulazione anteriore alla novella  del  2022,  il  giudice  di
legittimita'  ha  avuto  modo  di  affermare  che   «nell'opposizione
all'esecuzione promossa in forza di un'ordinanza ex art. 614-bis  del
codice  di  procedura  civile  (nella  formulazione  anteriore   alle
modifiche introdotte dal decreto legislativo n. 149 del 2022) non  e'
consentito dedurre la  scarsa  importanza  dell'inadempimento  o  del
ritardo nell'adempimento con l'effetto di ottenere una riduzione  del
"quantum"   della   misura   coercitiva,   risolvendosi    altrimenti
quest'ultima  in   un'inammissibile   modificazione   della   portata
precettiva del titolo esecutivo giudiziale, permessa  unicamente  nel
processo di cognizione e attraverso il rituale esperimento dei  mezzi
di impugnazione» (Cass. sentenza n. 22714 del 26 luglio 2023). 
    Cio' induceva questo Giudice a sottoporre, in udienza, alle parti
presenti il diverso, per  quanto  correlato,  profilo  relativo  alla
possibilita', per il Giudice dell'opposizione a precetto, non essendo
stato fatto dal giudice della cautela o del merito, di predeterminare
un tetto quantitativo massimo  all'operare  della  misura  pecuniaria
irrogata ex art. 614-bis del codice di procedura civile 
2. La questione d'incostituzionalita': la contrarieta' ai principi di
uguaglianza, ragionevolezza, di  proporzionalita'  dell'art.  614-bis
del codice di procedura civile, nella  formulazione  previgente  alla
riforma Cartabia, nella parte in cui non prevede la possibilita',  da
parte del Giudice dell'opposizione a precetto, di determinare ex post
un tetto quantitativo massimo (o anche  solo  temporale)  all'operare
delle misure ex 614-bis del codice di procedura civile (su istanza di
parte o, come nel caso di specie, anche d'ufficio). 
    Parte  opponente  si  oppone   all'esigibilita'   della   misura,
negandone la liceita' e la congruita' sotto il profilo quantitativo. 
    Pacifiche risultano tutte le sopra esposte circostanze di fatto. 
    Rileva,  a  tal  riguardo,  questo   Giudice   che,   come   gia'
evidenziato,  la  definizione  della   controversia   presuppone   la
necessaria risoluzione di una  complessa  questione  giuridica,  che,
peraltro, non risulta  essere  gia'  stata  risolta  dalla  Corte  di
cassazione, relativa al disposto di cui all'art. 614-bis  del  codice
di procedura civile nella formulazione applicabile, pro tempore, alla
fattispecie concreta, previgente alla riforma  Cartabia,  entrata  in
vigore dal 28 febbraio 2023. 
    La  norma  prevedeva  che  «Con  il  provvedimento  di   condanna
all'adempimento di obblighi diversi dal pagamento di somme di  denaro
il giudice, salvo che  cio'  sia  manifestamente  iniquo,  fissa,  su
richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dall'obbligato per ogni
violazione  o  inosservanza  successiva  ovvero  per   ogni   ritardo
nell'esecuzione  del  provvedimento.  Il  provvedimento  di  condanna
costituisce titolo esecutivo per il pagamento delle somme dovute  per
ogni violazione o inosservanza. Le disposizioni di  cui  al  presente
comma non  si  applicano  alle  controversie  di  lavoro  subordinato
pubblico o privato e  ai  rapporti  di  collaborazione  coordinata  e
continuativa  di  cui  all'articolo   409.   Il   giudice   determina
l'ammontare della somma di cui al primo comma tenuto conto del valore
della  controversia,  della  natura  della  prestazione,  del   danno
quantificato o prevedibile e di ogni altra circostanza utile.». 
    Per contro, per effetto della  riforma  Cartabia,  l'istituto  e'
stato dilatato alla fase esecutiva  con  implementazione  dei  poteri
cognitivi  del  G.e.,  salvo,  poi,  comprendere  se  si  tratti   di
cognizione sommaria,  qual  e'  quella  tipica  dello  stesso  o  con
caratteri di pienezza. 
    E' stata, infatti, aggiunta la previsione  per  cui  «Se  non  e'
stata  richiesta  nel  processo  di  cognizione,  ovvero  il   titolo
esecutivo e' diverso da un provvedimento di  condanna,  la  somma  di
denaro dovuta dall'obbligato per ogni  violazione  o  inosservanza  o
ritardo nell'esecuzione del provvedimento e' determinata dal  giudice
dell'esecuzione,   su   ricorso   dell'avente   diritto,   dopo    la
notificazione del precetto. Si applicano  in  quanto  compatibili  le
disposizioni di cui all'articolo 612». 
    La finalita' di tale previsione - ispirata a evidenti esigenze di
semplificazione ed economia processuale - e' quella di evitare che il
creditore, che si sia  gia'  provvisto  di  titolo  esecutivo,  debba
attivare un  giudizio  di  cognizione,  al  fine  di  conseguire  una
pronuncia, che,  invece,  a  ben  vedere,  secondo  taluna  dottrina,
sarebbe,  fisiologicamente,  rientrante  nei   poteri   del   Giudice
dell'esecuzione quale Giudice  chiamato  all'attuazione  del  comando
(giudiziale o negoziale) rimasto inadempiuto. Potere da  esercitarsi,
d'ufficio, oppure, ove investito di specifica istanza. 
    In tal senso, deporrebbero,  invero,  chiari  indici  sistematici
come la stessa previsione di un potere similare in  capo  al  Giudice
dell'ottemperanza, in sede amministrativa (v. infra). 
    Invero, la nuova formulazione dell'art.  614-bis  del  codice  di
procedura civile, come novellata dalla riforma Cartabia, consente  di
avanzare la domanda  di  misure  coercitive  anche  nel  giudizio  di
esecuzione  solo  se  non  richiesta  nel  precedente   processo   di
cognizione. 
    Cio' premesso, a venire, potenzialmente,  in  rilievo,  sotto  il
profilo della compatibilita'  costituzionale  dell'assetto  normativo
previgente,  e'  la  possibilita'  o  meno,  da  parte  del   Giudice
dell'opposizione a  precetto  e,  in  generale,  dell'esecuzione,  di
determinare ex post un  tetto  quantitativo  massimo  (o  anche  solo
temporale)  all'operare  delle  misure  ex  614-bis  del  codice   di
procedura civile su istanza di parte o,  come  nel  caso  di  specie,
anche d'ufficio. Cio', ogniqualvolta ne' il  giudice  della  cautela,
ne'  quello  del  merito  abbiano  provveduto  a  predeterminare   il
sacrificio massimo imponibile all'obbligato. 
    Tale  facolta'  processuale,  secondo  un  minoritario  approccio
interpretativo, dovrebbe ritenersi possibile alla stregua: 
        a) della profonda  crisi  della  tradizionale  distinzione  -
avente, invero, una sua intrinseca ragionevolezza - tra attivita'  di
tipo cognitorio e attivita' esecutiva cosi' come del passaggio da  un
quadro interpretativo  -  nella  vigenza  del  quale  le  opposizioni
esecutive costituivano gli unici momenti  cognitivi  di  un'attivita'
esecutiva, congeniata non «per conoscere, ma per attuare un  pensiero
giuridico gia' definito». Ragione per cui, nell'ambito  dell'economia
complessiva  dell'attivita'  giudiziaria,   l'attivita'   accertativa
veniva ad assumere un ruolo del  tutto  marginale  -  ad  uno  stadio
evolutivo,  contrassegnato  da  una  vera   e   propria   metamorfosi
dell'azione esecutiva verso un modello poliforme in cui la componente
cognitiva, seppur in una logica di strumentalita' e nelle forme di un
accertamento sommario e provvisorio, appare fortemente potenziata. 
    In  via  interpretativa,  infatti,  si  ritiene  in   essere   la
transizione da un ruolo monolitico del G.e., quale mero esecutore  di
un comando gia' formato, ad una veste composita e duplice,  non  solo
esecutiva, bensi' anche di giudice con poteri cognitivi  sommari,  se
non altro per tutte le questioni veicolabili dalle c.d. eccezioni  in
senso lato; 
        b) dell'applicazione, in via analogica,  di  quanto  previsto
dall'art. 1384 del codice civile,  in  materia  di  clausola  penale;
fattispecie rispetto alla quale quella in esame presenterebbe profili
di affinita' e che sarebbe espressione di un  principio  generale,  a
sua volta,  fondato  sull'osservanza  del  principio  di  buona  fede
oggettiva e di equita'; 
        c) della generalita' dell'ambito  applicativo  del  principio
equitativo,  nella  nuova  dimensione  operativa,  conseguita   dallo
stesso, con l'evoluzione dell'ordinamento interno anche alla luce dei
principi costituzionali come quello solidaristico. La  valorizzazione
di tale clausola generale potrebbe legittimare il giudice del  merito
alla revisione, ex officio, di quanto  disposto  in  sede  cautelare,
nonche' il giudice dell'esecuzione alla  quantificazione,  seppur  in
via postuma,  del  massimo  concretamente  esigibile  dall'obbligato,
destinatario della misura; 
        d) della generalita' dell'ambito applicativo del principio di
buona fede oggettiva; 
        e) di  stringenti  argomenti  sistematici  che  si  vanno  ad
esplicitare, tra cui la posizione assunta dall'Adunanza plenaria  del
Consiglio di Stato (Ad. Pl. 2019, n. 2); 
        f) della naturale vocazione  del  Giudice  dell'esecuzione  a
conoscere delle vicende sopravvenute, specie, in fatto,  rispetto  al
momento genetico del comando da eseguire. 
    Secondo taluni autori, la verifica della sopravvenuta esorbitanza
della misura sarebbe una  prerogativa  che  compete  fisiologicamente
proprio al giudice dell'esecuzione, che e' posto nelle condizioni  di
verificare gli effetti prodotti dalla  misura,  successivamente  alla
sua irrogazione e cio' potendo compiere una  valutazione  comparativa
degli interessi in gioco, in relazione -  eventualmente  -  anche  al
nuovo assetto degli stessi  venutosi  a  delineare  per  effetto  del
decorso del tempo nonche' della condotta concretamente  tenuta  dalle
parti successivamente all'irrogazione della misura. 
    D'altronde, si afferma, e'  proprio  il  giudice  dell'esecuzione
che, come nella  fattispecie  concreta,  a  seguito  del  concreto  e
compiuto sviluppo della vicenda  fattuale  e  del  suo  snodarsi  nel
tempo, puo' valutare  la  ragionevolezza  e  equita'  di  una  misura
rimasta parzialmente indeterminata da parte del giudice della cautela
(o del merito). 
    Ne', invero, tale funzione puo'  essere,  efficacemente,  assunta
dal giudice del correlato giudizio di merito,  instaurato  a  seguito
della definizione della fase cautelare e ai fini della  conservazione
della stabilita' degli effetti della stessa. 
    Cio', per due ordini di ragioni: 
        a) il destinatario della misura che ambisca alla  fissazione,
ex post, della durata temporale o  dell'importo  massimi,  per  poter
conseguire la tutela agognata  -  indicando  al  giudice  un  importo
complessivo dell'astreinte, che non sia eccedente rispetto  al  danno
subito  dal  creditore  -   dovrebbe   attendere   la   definitivita'
dell'eventuale  sentenza  di  merito  che  venga  ad  accogliere   la
richiesta risarcitoria  della  controparte.  Come  noto,  infatti,  e
conformemente  alla  dogmatica  processualistica   tradizionale,   le
sentenze di tipo dichiarativo  o  costitutivo,  ai  fini  della  loro
esecutivita', richiedono il passaggio in giudicato. 
    Correlativamente,   il   tempo   di   attesa   potrebbe    essere
inconcepibile  con  il  principio  di   effettivita'   della   tutela
giurisdizionale,  in  tal  caso,  coincidente  con   l'interesse   al
contenimento di una misura sanzionatoria di  tipo  patrimoniale  che,
diversamente, sarebbe destinata, ad incidere sine die  sulla  propria
sfera patrimoniale; 
        b)  per  contro,  il   giudice   dell'esecuzione,   investito
attraverso lo strumento dell'opposizione a precetto o all'esecuzione,
potrebbe gia' in sede di sospensiva  arginare  l'effetto  dirompente,
per  la  sfera  giuridica  dell'obbligato,  della   predetta   misura
coercitiva. 
    Dunque, secondo la suddetta dottrina, la richiesta di fissazione,
ex post, della durata temporale o dell'importo massimi della  misura,
dovrebbe ritenersi pienamente  ammissibile,  anche  nella  logica  di
un'interpretazione   costituzionalmente   orientata    della    norma
processuale, rispettosa del diritto di proprieta',  quale  valore  di
rango costituzionale ex art. 42 Cost. e che deve ritenersi preclusivo
di   qualunque   misura   che,   traducendosi    in    un'aggressione
sproporzionata della  sfera  giuridica  e  patrimoniale,  assuma  una
portata sostanzialmente espropriativa della stessa. 
    Cio', varrebbe anche per quanto concerne la  possibilita'  di  un
rilievo d'ufficio, ma cio', pero',  sempre  che  lo  stesso  non  sia
incompatibile con le richieste processuali dell'obbligato. Venendo in
rilievo diritti e  obblighi  disponibili,  non  puo'  escludersi,  in
astratto, che  l'obbligato,  nel  costituirsi,  nulla  obietti  circa
l'illegittimita' della misura coercitiva o, addirittura,  esprima  la
volonta' di soggiacere alla stessa per  ragioni  etiche  o  di  altra
natura. 
2. Presupposti per l'ammissibilita'  del  rinvio  all'ill.  ma  Corte
costituzionale. 
    2.1. Perimetrazione della questione e rilevanza ai fini del  caso
di specie 
    Invero, la soluzione di siffatta questione e'  propedeutica  alla
decisione della  controversia,  dovendo  questo  Giudice  sondare  la
possibilita' di un intervento ex officio su una penale che rischia di
assumere una portata sproporzionata  rispetto  al  danno  inferto  al
destinatario della stessa, cosi' come rispetto alla sua  funzione  di
coercizione all'adempimento. 
    Infatti, a fronte di un danno non patrimoniale di tipo biologico,
ancora in corso di quantificazione davanti al giudice del  merito  e,
apparentemente, di entita' non grave, i creditori  della  prestazione
hanno precettato l'importo finora maturato, pari ad euro ... . 
    Peraltro, la misura  e'  stata  irrogata,  cautelativamente,  dal
giudice del 700 del codice di procedura civile e su di  essa  non  e'
disceso alcun giudicato ne'  esplicito,  ne'  implicito,  essendo  il
giudice di merito ancora in corso. 
    Inoltre,    tale    questione    presenta    gravi    difficolta'
interpretative, essendosi gia' manifestati contrastanti  orientamenti
sia in giurisprudenza sia in dottrina. 
    Si deve premettere che, come gia' evidenziato, tale questione  e'
distinta,  per  quanto  affine,  a  quella  relativa  al  potere   di
riduzione,  da  parte  del  Giudice  dell'esecuzione,  della  penale,
disposta, come in questo caso,  dal  giudice  della  cautela  (o  del
merito). 
    Con  riferimento  alla  fattispecie  della  riducibilita'   della
penale, aliunde irrogata, da parte del giudice dell'esecuzione,  come
gia'  evidenziato,  in  relazione  alla  formulazione   della   norma
processuale  anteriore  alla  novella  del  2022,   il   giudice   di
legittimita'  ha  avuto  modo  di  affermare  che   «nell'opposizione
all'esecuzione promossa in forza di un'ordinanza ex art. 614-bis  del
codice  di  procedura  civile  (nella  formulazione  anteriore   alle
modifiche introdotte dal decreto legislativo n. 149 del 2022) non  e'
consentito dedurre la  scarsa  importanza  dell'inadempimento  o  del
ritardo nell'adempimento con l'effetto di ottenere una riduzione  del
"quantum"   della   misura   coercitiva,   risolvendosi    altrimenti
quest'ultima  in   un'inammissibile   modificazione   della   portata
precettiva del titolo esecutivo giudiziale, permessa  unicamente  nel
processo di cognizione e attraverso il rituale esperimento dei  mezzi
di impugnazione» (Cass. sentenza n. 22714 del 26 luglio 2023). 
    In suddetto caso, gia' sottoposto al vaglio della suprema  Corte,
veniva in  rilevo  il  problema  di  un'eventuale  rimodulazione  del
quantum, irrogato da parte del  giudice  dell'esecuzione,  che,  come
evidenziato dalla suprema Corte, ove ritenuta ammissibile, darebbe la
stura  ad  una  (illegittima)  duplicazione  della  valutazione  gia'
espressa  dal  giudice  del  merito  (o  della  fase  interinale)   e
rientrante nella  sua  competenza  funzionale.  Cio',  peraltro,  con
effetti, potenzialmente, non solo ex nunc ma anche ex tunc.  Infatti,
tale rivisitazione, laddove, per ipotesi, fosse ritenuta ammissibile,
incidendo sulla misura della sanzione, possa  intervenire  anche  con
riguardo al momento genetico della stessa. Cio',  salvo  considerare,
quale circostanza ostativa a cio', il legittimo affidamento,  riposto
dal  creditore,  sulla  stabilita',  almeno  per  gli  effetti   gia'
prodotti, della misura coercitiva, costituendo  gli  stessi  «diritti
quesiti». 
    Per contro, la diversa fattispecie - integrata nel caso di specie
- che e' incentrata sulla possibilita' di una  cristallizzazione  pro
futuro della pretesa sanzionatoria, ex officio o su istanza di  parte
(con la specificazione,  ad  opera  del  giudice  dell'opposizione  a
precetto, di una durata o di un  importo  massimo,  complessivamente,
esigibile)   sottende   la   mera   precisazione   di   un   precetto
giurisdizionale  che   non   viene   travolto   nella   sua   portata
contenutistica,  neanche  solo  in  parte,  ma   solo   integrato   e
specificato «per il suo armonioso e virtuoso funzionamento». 
    In particolare, taluni tribunali hanno ritenuto  che  il  giudice
dell'esecuzione non possa, in alcun modo, interferire su  una  misura
eterodeterminata   dal   Giudice   della   cognizione,   diversamente
travalicando la sua «vocazione istituzionale» e cio' neanche sotto il
profilo della possibilita' di determinare ex post un importo massimo. 
    Inoltre,  specie,  quando  la  misura   sia   contenuta   in   un
provvedimento definitivo perche' passato in giudicato, si porrebbe un
problema di violazione della res iudicata. 
    Invero, analogo problema viene posto  per  l'ipotesi -  quale  e'
quella del caso di specie - del  giudicato  cautelare,  assistito  da
quella peculiare stabilita' rebus sic stantibus che  e'  propria  dei
provvedimenti cautelari, non  piu'  reclamabili  o  gia'  passati  al
vaglio  del  Collegio  (per  essere   dallo   stesso   confermati   o
rimodulati). Stabilita' destinata a venire meno solo in  presenza  di
un mutamento del quadro fattuale o giuridico che, per cosi' dire,  ha
fatto  da  sfondo  all'assunzione  del   provvedimento,   come   pure
desumibile dalla disciplina in materia di  revoca  dei  provvedimenti
cautelari ex art. 669-decies del codice di procedura civile. 
    Dunque,  il  potere  di  riduzione  del  giudice  dell'esecuzione
sarebbe da ritenersi del tutto precluso anche  in  tale  fattispecie,
cosi' come - profilo rilevante nella fattispecie concreta -  in  sede
esecutiva, non  sarebbe  apponibile  alcun  limite  massimo,  in  via
postuma, all'astreinte irrogata in sede esecutiva. 
    Altri giudici, invece, si sono  espressi  limitatamente  al  gia'
menzionato potere di riduzione, ammettendolo per la  misura  irrogata
dal Giudice della cautela,  ma  in  capo  al  Giudice  investito  del
merito. 
    A  tal  riguardo,  si  e'  ritenuto  che  tale   facolta'   fosse
esercitabile anche d'ufficio, se necessario, per cui  il  giudice  di
merito potrebbe, ad esempio, valutare la congruita'  e  l'adeguatezza
della penale disposta da una  ordinanza  cautelare  ed  eventualmente
rideterminarla (v. Tribunale Milano Sez. spec.  Impresa,  15  ottobre
2019 secondo cui «Al giudice del merito  chiamato  ad  applicare  una
penale disposta da una ordinanza cautelare per il caso di  violazione
dell'inibitoria all'utilizzo di  un  marchio,  spetta  il  potere  di
valutarne la congruita' e l'adeguatezza, con conseguente possibilita'
di sua rideterminazione»). 
    Nondimeno, non constano pronunce che si siano  interrogate  sulla
possibilita', a fronte di una misura coercitiva stabilita in sede  di
700 del codice di procedura civile, di una  fissazione  ex  post  del
suddetto limite quantitativo o temporale in sede esecutiva. 
    Per quanto  concerne  il  formante  dottrinale,  invece,  secondo
taluni autori, nell'ipotesi di comminatoria di una misura  coercitiva
indiretta, verrebbe in rilievo una fattispecie analoga  a  quella  di
cui all'art. 1382 del codice civile (rubricata come «clausola  penale
in caso d'inadempimento o di ritardo nell'adempimento»), in quanto il
creditore sarebbe esonerato dalla prova di alcun danno e con il  solo
elemento di differenziazione, rappresentato  dalla  circostanza  che,
nell'ipotesi dell'art. 614-bis del codice  di  procedura  civile,  la
somma e' determinata dal  giudice,  non  dalle  parti  nell'esercizio
della loro autonomia. 
    La  disamina  della  questione  relativa  al  riconoscimento  del
potere, in capo al G.e., di un'eventuale modulazione  ex  post  della
durata o dell'importo massimo della misura, richiede una  preliminare
ricostruzione della disciplina in materia anche al fine  di  definire
la natura giuridica e la ratio ispirativa dell'istituto. 
    2.2. Inquadramento dell'istituto 
    Come  noto,  con  la  legge  n.  69/2009,  hanno  fatto  ingresso
nell'ordinamento giuridico le misure di coercizione indiretta, che si
appalesa come «l'unico strumento in grado di assicurare  l'attuazione
dei diritti a prestazioni infungibili e insurrogabili  con  le  forme
tradizionali di esecuzione forzata». 
    A tal riguardo, non e' peregrino ricordare come  il  concetto  di
infungibilita' sia stato  inteso  variamente  in  dottrina.  Infatti,
oltre all'infungibilita' che discende dalla natura della  prestazione
(diversa dalla realizzazione di un'opera materiale, di cui  si  legge
nell'art. 612 del codice di procedura civile)  o  che  si  riconnette
«all'interesse del  creditore  derivante  dall'intuitus  personae,  o
comunque all'obiettivo regolamento contrattuale», ulteriori  elementi
rivelatori della infungibilita'  erano  «fatti  derivare  da  divieti
inderogabili dell'ordinamento (riduzione in schiavitu', soggezione al
potere altrui, status familiari) o  piu'  in  generale  da  sfere  di
autonomia e liberta' non coercibili in quanto protette al  piu'  alto
livello costituzionale». 
    Invero, la precedente formulazione  della  norma  in  termini  di
«Attuazione degli obblighi di fare infungibile o  di  non  fare»,  ne
implicava l'applicabilita' solo alle predette obbligazioni. 
    Si sosteneva, infatti, che trattandosi, come  si  avra'  modo  di
spiegare, di  una  misura  sanzionatoria  e,  dunque,  di  una  «pena
privata», avrebbero trovato applicazione il principio di tassativita'
e il suo corollario logico  della  necessita'  di  un'interpretazione
restrittiva della norma. 
    L'iniziale formulazione non conteneva alcun riferimento, al  fine
di escluderli dalla propria portata  applicativa,  ai  diritti  della
personalita'.  Nondimeno,  prevedeva  «una   innovativa   limitazione
consistente nel potere del giudice di negare la comminatoria in  caso
di  manifesta  iniquita'  della  stessa»,   formulazione   fortemente
criticata per la sua eccessiva genericita'. 
    Nella   vigenza   dell'originaria   formulazione   della   norma,
autorevole  dottrina  aveva  sollecitato  la  generalizzazione  della
portata  operativa  dell'astreinte,  anche  con  riguardo  ai  titoli
esecutivi, di natura stragiudiziale. 
    Con il  decreto-legge  n.  83/2015,  convertito  dalla  legge  n.
132/2015, e' stata novellata la rubrica, che si esprime - e cosi' e',
tutt'ora, anche a seguito della riforma  Cartabia  -  in  termini  di
«Misure di coercizione indiretta». 
    Al  contempo,  per  effetto  della  predetta  novella,  e'  stato
precisato il novero delle obbligazioni cui  l'istituto  puo'  trovare
applicazione,  ovvero  tutti  gli  obblighi  differenti   da   quelli
pecuniari ovvero aventi ad oggetto il pagamento di somme di denaro. 
    Il riferimento e' alle obbligazioni di facere infungibili,  cosi'
come a quelle di non fare, ascrivibili alla  prima  categoria,  cosi'
come alla prestazione di consegna o di rilascio di  cose  e  ad  ogni
altro provvedimento condannatorio («diverso»  da  quelli  relativi  a
somme di denaro) anche di «indole inibitoria». 
    Come evidenziato in dottrina, la  novella  assume  rilievo  nella
misura in cui contribuisce a mutare del tutto  sia  «la  fisionomia»,
sia «la ratio dell'istituto», elevandolo da «strumento  residuale  di
tutela rispetto all'esecuzione forzata diretta, per  i  casi  in  cui
essa non puo' operare», a  «rimedio  con  essa  concorrente,  potendo
essere  utilizzato  dal  giudice  anche  a   presidio   di   obblighi
perfettamente fungibili e passibili di  esecuzione  nelle  forme  del
codice di rito». 
    Per la sua importanza nella ricostruzione  dell'istituto,  appare
utile precisarne, ulteriormente, l'ambito operativo. 
    Secondo la dottrina piu' accreditata, non sarebbe  superabile  il
limite costituito dalla natura  necessariamente  «condannatoria»  del
provvedimento, per  cui  dovrebbero  ritenersi  escluse  le  sentenze
dichiarative e costitutive. Nondimeno, e' stato osservato come, sotto
il profilo della sua «ontologia e della sua dinamica funzionale», «la
misura coercitiva non si attaglia esclusivamente a una  pronuncia  di
condanna,  ben  potendosi  immaginarla  accessoria  a  una  pronuncia
costitutiva  o  di  accertamento  e  finanche  a   un   provvedimento
endoprocessuale». 
    A tal  riguardo,  dubbia  e'  l'ammissibilita'  della  stessa  in
concorso con l'azione ex art. 2932 del codice civile,  quale  ipotesi
paradigmatica di esecuzione in forma specifica, in  quanto  volta  ad
assicurare al creditore il medesimo bene della vita agognato. 
    A tal riguardo, militano in senso favorevole, elementari esigenze
connesse al principio di effettivita' della tutela. 
    Diversamente, infatti, l'interessato, per  conseguire  la  tutela
agognata, sarebbe costretto a attendere  il  passaggio  in  giudicato
della sentenza  costitutiva  che  abbia,  eventualmente,  accolto  la
domanda di pronuncia giurisdizionale, sostitutiva  del  consenso  non
manifestato nei termini convenuti. 
    Ne', in senso contrario, appare utile richiamare  la  circostanza
per cui l'obbligo di contrarre non  si  configura  come  infungibile,
potendosi sempre richiedere una pronuncia del giudice che tenga luogo
del contratto non stipulato spontaneamente dall'obbligato. 
    A tale obiezione e',  agevolmente,  replicabile  che  presupposto
applicativo della norma - e, al contempo, suo limite - e' che si  non
si aneli all'esecuzione di un'obbligazione pecuniaria,  quale  tipico
obbligo di genere, non  rilevando,  per  contro,  la  sostituibilita'
della prestazione dovuta e non eseguita. 
    Peraltro, chiaramente,  l'obbligazione  di  datio  del  consenso,
estrinsecandosi in una manifestazione di volonta' negoziale e non  in
una consegna materiale della res, non puo' considerarsi tale. 
    Peraltro, al fine di delimitare l'ambito operativo  della  norma,
per scelta esplicita del legislatore, non possono venire  in  rilievo
controversie di lavoro subordinato pubblico e privato, cosi' come  la
misura  risulta   inapplicabile   in   relazione   ai   rapporti   di
collaborazione coordinata e continuativa ex art. 409 del  del  codice
di procedura civile. 
    D'altronde,  e'  innegabile   che   le   stesse   afferiscano   a
obbligazioni di natura personalissima, oltre che, per taluni  autori,
di rango costituzionale, essendo indubbio  che  alcune  tipologie  di
prestazione  come  quella  artistica   costituiscano   strumento   di
estrinsecazione e affermazione della personalita'  umana  ex  art.  2
Cost. 
    Sotto il profilo della  natura  giuridica,  come  evidenziato  in
dottrina, tale  forma  rimediale,  di  cui  si  conoscono  precedenti
nell'ordinamento francese e tedesco,  avrebbe  natura  sanzionatoria,
sostanziandosi nell'imposizione, in capo all'obbligato, di una specie
di penale per  l'inadempimento  in  senso  assoluto  o  l'adempimento
tardivo di una pronuncia di condanna. 
    Ne' costituisce circostanza ostativa a tale qualificazione che la
somma di denaro abbia quale beneficiario il creditore e non lo Stato,
trattandosi  di  sanzione  destinata  a  esplicare  la  sua  funzione
repressiva nei rapporti fra due privati, coincidenti con le parti del
rapporto obbligatorio. 
    Invero, taluna dottrina ne rivendica una finalita'  composita  e,
sostanzialmente, duplice: «una funzione anzitutto compulsoria, ovvero
tesa a stimolare l'adempimento alle statuizioni del provvedimento  di
condanna sotto pena del pagamento di una  somma  di  denaro...  ;  in
secondo luogo sanzionatoria, ove riguardata ex post, nella misura  in
cui, non essendosi realizzata  la  prima  funzione,  in  mancanza  di
esatto  adempimento  da  parte  del  soggetto  tenuto,  questi  sara'
chiamato a corrispondere alla controparte una somma di denaro». 
    Da cio', come autorevolmente sostenuto, deriverebbe che quando il
debitore destinatario della misura, perche' inadempiente rispetto  al
comando giudiziale, ottenga, eventualmente, la riforma dello  stesso,
non potrebbe ripetere quanto pagato. 
    Diversamente, si afferma, verrebbe  ad  essere  neutralizzata  la
funzione sanzionatoria che non avrebbe piu' modo  di  dispiegarsi  in
modo effettivo. 
    Invero, proprio la natura ancillare del provvedimento, irrogativo
dell'astreinte, rispetto  al  titolo  giudiziale  caducato,  dovrebbe
indurre a considerare criticamente tale soluzione. 
    Sotto il diverso piano strutturale, la misura coercitiva  di  cui
all'art. 614-bis del  codice  di  procedura  civile  ha  una  portata
accessoria rispetto al provvedimento di condanna  e  ha  essa  stessa
contenuto condannatorio. 
    Per quanto concerne l'ambito operativo della misura, pur dopo  la
novella del  2015,  in  una  prospettiva  de  iure  ferendo,  si  era
prospettata - sollecitazione, poi, accolta, seppur con dei correttivi
operativi, dalla riforma Cartabia - l'introduzione di una  competenza
concorrente del giudice dell'esecuzione. 
    Infatti, la circostanza che la  misura  dovesse  essere  irrogata
contestualmente   con   la   condanna   impediva   la    «modulazione
dell'astreinte rispetto ai fatti successivi alla sua irrogazione», da
parte del Giudice dell'esecuzione. 
    In ultimo, si era proposto di attribuire a quest'ultimo anche  il
potere di procedere  alla  liquidazione  della  somma,  anche  quando
l'irrogazione della misura fosse avvenuta da parte del giudice  della
cognizione, nell'ambito di un processo sommario in contraddittorio. 
    La legge delega sulla riforma del processo civile  e  il  decreto
legislativo n. 149 del 2022, che vi ha  dato  attuazione,  come  gia'
evidenziato, hanno arginato solo in parte tali profili di criticita'. 
    Come  gia'  evidenziato,  per  effetto  della  riforma  Cartabia,
l'istituto e' stato dilatato alla fase esecutiva. 
    Orbene, la questione di legittimita' e' posta in  relazione  alla
formulazione previgente, ma  ritiene  questo  Giudice  che  l'analisi
delle modifiche, apportate  dalla  riforma  Cartabia,  possa  offrire
elementi utili nella logica  di  un'interpretazione  evolutiva  della
versione previgente, applicabile, ratione temporis, alla  fattispecie
concreta. In particolare, il  riferimento  e'  alla  possibilita'  di
formulare la richiesta di 614-bis  del  codice  di  procedura  civile
anche al di fuori dei termini perentori previsti per la  formulazione
di domande e eccezioni in senso stretto. 
    Cio' premesso, e' stata aggiunta la previsione per cui «Se non e'
stata  richiesta  nel  processo  di  cognizione,  ovvero  il   titolo
esecutivo e' diverso da un provvedimento di  condanna,  la  somma  di
denaro dovuta dall'obbligato per ogni  violazione  o  inosservanza  o
ritardo nell'esecuzione del provvedimento e' determinata dal  giudice
dell'esecuzione,   su   ricorso   dell'avente   diritto,   dopo    la
notificazione del precetto. Si applicano  in  quanto  compatibili  le
disposizioni di cui all'articolo 612». 
    Secondo la Relazione  illustrativa,  la  nuova  formulazione  «e'
volta a porre rimedio ad  una  lacuna  della  normativa  vigente  che
attribuisce al solo giudice» della cognizione il potere  di  irrogare
la misura coercitiva, «cosi' evitando di imporre  all'avente  diritto
alla prestazione risultante da un titolo esecutivo stragiudiziale  di
instaurare un processo ad hoc. Lo stesso puo' ripetersi per  il  lodo
arbitrale». 
    Orbene, la nuova formulazione dell'art.  614-bis  del  codice  di
procedura civile, come introdotta dalla riforma Cartabia, consente di
avanzare la domanda  di  misure  coercitive  anche  nel  giudizio  di
esecuzione. Cio', sempre che la stessa non sia stata  gia'  richiesta
nel precedente processo di cognizione. 
    Cio' vuol dire che, stando al tenore  testuale  della  norma,  la
competenza  del   secondo   all'assunzione   del   provvedimento   e'
subordinata non alla mancata concessione da parte del  giudice  della
cognizione, ma alla sua mancata richiesta da parte dell'interessato. 
    Ne   consegue,   logicamente,   che   il   potere   del   giudice
dell'esecuzione e' inibito anche nell'ipotesi in cui  la  misura  sia
stata meramente richiesta al giudice della cognizione, ma tal  ultimo
l'abbia negata(1). 
    E' chiara la valenza preclusiva che il legislatore della  riforma
ha voluto accordare alle valutazioni del giudice del merito, anche in
nome di quella competenza funzionale che esclude  la  proponibilita',
davanti al giudice dell'esecuzione, delle questioni dedotte (o  anche
semplicemente deducibili) in sede di cognizione. 
    A fronte di un  chiaro  dato  testuale,  non  pare  condivisibile
l'opzione esegetica che ritiene la  misura  applicabile  dal  giudice
della  esecuzione  anche  quando  la  misura  sia  stata  ritualmente
richiesta ma non concessa. 
    Si e' affermato che, in tale ipotesi, non  vi  sarebbero  ragioni
giuridiche impeditive della competenza del  G.e..  La  ratio  sarebbe
quella di non ingenerare sovrapposizioni (cognitive e decisorie)  tra
il  giudice  della  cognizione  e  quello  dell'esecuzione   e   tale
interferenza,  del  secondo,  nella  sfera  del  primo   sarebbe   da
escludersi quando l'istanza al giudice della cognizione  sia  rimasta
trascurata, a meno che non possa dirsi implicitamente rigettata. 
    Inoltre, in tale ipotesi nell'ipotesi di omissione di  pronuncia,
«non puo'  formarsi  il  giudicato  mancando  una  decisione  neppure
implicita». 
    Ne', a tal riguardo, data l'insuperabilita' del  dato  normativo,
e'   sufficiente   invocare    l'esigenza    di    un'interpretazione
costituzionalmente conforme (in  funzione  del  diritto  della  parte
all'effettivita' della tutela giurisdizionale e del  principio  della
ragionevole durata del processo). 
    D'altronde,  vale  anche  in  tale  caso  il  generale  principio
dell'insuperabilita' del dato testuale racchiusa  nel  noto  brocardo
per cui in claris non fit interpretatio. Dunque,  il  potere  de  quo
viene riconosciuto anche in capo al  giudice  dell'esecuzione(2)  «in
chiave complementare» e non concorrente, rispetto  al  giudice  della
cognizione, implementando, in ogni caso,  la  soglia  complessiva  di
effettivita' del sistema di tutela esecutiva(3), quale corollario del
piu' generale  principio  del  giusto  processo,  che  ha  fondamento
normativo costituzionale nell'art. 24, 111 Cost., nonche' comunitario
e convenzionale negli articoli 6, 13 Cedu e 47 CDFUE. 
    In particolare, l'art. 13 della CEDU sancisce il  diritto  ad  un
ricorso effettivo a favore di ogni persona i cui diritti  e  liberta'
fondamentali siano stati violati. 
    A tal riguardo, sotto il profilo dell'ambito operativo  temporale
della norma, la novella permette di formulare  richiesta  al  giudice
dell'esecuzione in relazione a condanne che siano state emesse  prima
del 2009, sempre che il diritto di agire in  via  esecutiva  non  sia
prescritto. Data la sopra evidenziata complementarieta'  dei  poteri,
appare utile l'esatta individuazione  del  termine  finale  entro  il
quale la misura e' richiedibile nel processo di cognizione. 
    Deve convenirsi con quella dottrina, secondo cui la richiesta  di
applicazione dell'art. 614-bis, 1°  comma  del  codice  di  procedura
civile  conosca  quale  momento  consumativo  del  potere  di   farne
richiesta la «precisazione delle conclusioni  ...  nei  limiti  degli
atti introduttivi o a norma dell'art. 171-ter» (art. 189,  1°  comma,
n. 1, del codice di procedura civile. 
    Per contro, per  quanto  concerne  il  dies  a  quo,  non  appare
conforme ai superiori dettami costituzionali, la tesi di chi  ritiene
che  se   ne   debba   fare   richiesta   necessariamente   nell'atto
introduttivo. 
    Peraltro, sotto il profilo  processuale  e  del  raccordo  con  i
principi generali che conformano l'autonomia processuale delle parti,
secondo autorevole dottrina, la suddetta istanza non sarebbe idonea a
ingenerare ne' una domanda nuova,  ne'  una  modifica  della  domanda
originaria, in quanto preordinata  al  conseguimento  di  una  misura
meramente  strumentale  al  conseguimento   del   bene   della   vita
originariamente dedotto in giudizio. 
    Il provvedimento irrogativo della misura,  assunto  dal  giudice,
avrebbe un rilievo meramente  processuale  o  di  rito,  non  essendo
configurabile, per l'appunto, un diritto sostanziale  a  ottenere  la
misura coercitiva. Esso, infatti, non ha la funzione di  definire  un
rapporto   giuridico,   assicurandone   una   regolamentazione,    ma
ingenererebbe «un nuovo rapporto  obbligatorio  la  cui  funzione  e'
quella, strettamente processuale, di dare esecuzione  indiretta  alla
pronuncia giudiziale». 
    D'altronde,   l'aver   la   novella   attribuito    al    giudice
dell'esecuzione una competenza (non concorrente, ma  alternativa)  in
materia, costituirebbe un'indiretta conferma della  natura  meramente
strumentale e accessoria del provvedimento, al pari  dell'istanza  di
conversione. 
    Tale tesi non e' stata priva di riscontri nella giurisprudenza di
legittimita' (Corte di cassazione;  sezione  III,  ordinanza  del  23
marzo 2024, n. 7927; secondo cui «Il provvedimento con  il  quale  il
giudice del merito, ex art. 614-bis del codice di  procedura  civile,
concede  (o  nega)  la  misura  coercitiva  indiretta  ha  natura  di
provvedimento in rito. Tale inquadramento giustifica e da' fondamento
alla  cognizione  piena  della  S.C.  per  inosservanza  della  norma
processuale». 
    Sulla base  di  tali  premesse  ricostruttive,  nel  processo  di
cognizione l'applicazione dell'art. 614-bis del codice  di  procedura
civile potrebbe essere domandata - naturalmente senza poter  allegare
nuove circostanze di fatto - nelle conclusioni contenute  nelle  note
scritte depositate nel termine di cui all'art. 189, 1° comma,  n.  1,
del codice di procedura civile e, per il  procedimento  semplificato,
in quelle che  il  giudice  invita  a  precisare  a  norma  dell'art.
281-sexies del codice di procedura civile quando rimette la causa  in
decisione (art. 281-terdecies c.p.c). 
    Nella  vigenza  della  disciplina  anteriore   alla   novella   e
all'anticipazione  delle   preclusioni   processuali,   era,   stato,
correlativamente, affermato che poiche' la  richiesta  di  astreintes
non veicola, nel  processo,  una  nuova  situazione  soggettiva,  ne'
dilata l'oggetto del decidere, non  vi  sarebbero  state  preclusioni
processuali  alla  sua  proposizione  fino  alla  precisazione  delle
conclusioni e, persino, in appello. 
    Inoltre, sotto il profilo del sindacato  di  legittimita'  e  dei
suoi  limiti,  lo  stesso,  vertendo  sull'inosservanza  della  norma
processuale che disciplina tali misure, potrebbe avere ad oggetto sia
l'an, ovvero, la verifica dei presupposti necessari  per  l'esercizio
del  potere,  sia  la  correttezza  di  tal  ultimo,  in   punto   di
liquidazione dell'astreinte. 
    A tale riguardo, cio' che la S.C. puo' valutare non e' il  merito
della valutazione operata dal giudice ma la motivazione e, dunque, il
percorso ragionativo che sorregge il provvedimento  «in  quanto  resa
con  riferimento  concreto  ai  parametri  di  riferimento»  previsti
dall'art. 614-bis del codice di procedura civile 
    Altri  autori,  in   cio'   seguiti   dalla   giurisprudenza   di
legittimita',  hanno  visto,  invece,  nella   misura   de   qua   un
provvedimento, preordinato alla tutela  di  un  autonomo  bene  della
vita, a sua volta, oggetto di uno specifico diritto  soggettivo,  con
la  conseguenza  che  la  relativa  istanza  sarebbe  soggetta   alle
preclusioni processuali applicabili alle domande nuove. 
    Sotto il profilo della tutela del  diritto  alla  difesa  ed,  in
particolare, di quello al contraddittorio processuale, i fatti, posti
a fondamento della suddetta richiesta di  tutela,  dovrebbero  essere
oggetto di tempestiva allegazione, cosi'  da  consentire  cosi'  alla
controparte  l'esercizio   delle   proprie   prerogative   difensive;
esercizio che sarebbe precluso, se la domanda potesse essere avanzata
oltre  il  limite  temporale   di   maturazione   delle   preclusioni
processuali. 
    In tal senso, di recente, anche Cass. sezione III, ordinanza  del
23 maggio 2024, n. 14461, secondo cui «l'istanza volta ad ottenere la
misura di  coercizione  indiretta  ex  art.  614-bis  del  codice  di
procedura  civile  (nella  formulazione  anteriore   alle   modifiche
apportate dal decreto legislativo n. 149 del  2022)  costituisce  una
vera e propria domanda giudiziale e, come  tale,  va  avanzata  prima
della maturazione delle preclusioni assertive, poiche'  non  consegue
necessariamente alla pronuncia di condanna, a differenza delle  spese
di lite, e dev'essere determinata  tenuto  conto  di  circostanze  di
fatto  -  quali  il  valore  della  controversia,  la  natura   della
prestazione,  il  danno  quantificato  o  prevedibile  -  che   vanno
tempestivamente  allegate  (e,  se  del  caso,  provate),  cosi'   da
consentire  alla  controparte   una   compiuta   difesa,   altrimenti
impossibile se la richiesta fosse sottratta alle barriere  preclusive
del rito». 
    Invero, la nuova formulazione della norma, nella  misura  in  cui
riconosce la richiedibilita' della misura in sede  esecutiva,  sembra
offrire argomenti insuperabili  ai  fini  della  ricostruzione  della
misura quale mero strumento processuale, rilevante in rito e inidoneo
ad ampliare il thema decidendum. 
    Al fine di comprimere la discrezionalita' valutativa del  giudice
che ha natura,  essenzialmente,  tecnica,  la  novella,  ampliando  i
criteri gia' previsti dal vecchio testo  -  ovvero  il  valore  della
controversia,  la  natura  della   prestazione   dovuta,   il   danno
quantificato o prevedibile  e  ogni  altra  circostanza  utile  -  ha
previsto in aggiunta quello del «vantaggio per l'obbligato  derivante
dall'inadempimento».  Cio',  pero',  senza  prevedere  una  qualunque
cornice edittale che possa fungere da limite massimo e minimo cui  il
giudice debba attenersi (comma 3). 
    Cio', impregiudicato il diritto del creditore  di  agire  in  via
risarcitoria per i pregiudizi, eventualmente,  non  compensati  dalla
misura. 
    Anche per l'ipotesi in cui la misura  sia  richiesta  al  giudice
dell'esecuzione, ai fini della concreta commisurazione della  penale,
valgono i parametri  fin  dall'origine  previsti  dalla  norma  quale
criteri conformativi del potere del Giudice della cognizione. 
    Cio', per quanto  la  Cartabia  sia  intervenuta  a  specificare,
traendo tale criterio commisurativo dall'indifferenziata  formula  di
chiusura della norma, che si debba avere riguardo anche al «vantaggio
per l'obbligato derivante dall'inadempimento»,  ovvero  all'utilita',
tradibile da tal ultimo dal proprio inadempimento.  D'altronde,  come
desumibile dalla Relazione  illustrativa,  data  la  finalita'  della
norma che e' quella di spronare  all'adempimento,  appare  del  tutto
imprescindibile - anche nella  logica  di  un'analisi  economica  del
diritto - porsi (anche) dall'angolo visuale del  debitore.  Cio',  al
fine di verificare il tipo di  valutazione  da  questi  astrattamente
esperibile,   in   termini   di   maggiore   o   minore   convenienza
dell'adempimento. 
    L'approccio  e',  evidentemente,  quello   della   valorizzazione
dell'agire razionale delle parti,  secondo  categorie  e  giudizi  di
matrice essenzialmente  economica  che  sono  quelle  che  conformano
l'agire dell'homo economicus. 
    In  questa  prospettiva   appare   prioritario   il   riferimento
all'utilitas traibile  dal  debitore  dalla  propria  inerzia  o  dal
proprio ritardo nell'adempimento delle prestazioni dovute. 
    Deve, invece, ritenersi subvalente il diverso criterio del  danno
che l'inadempimento medesimo e' idoneo a ingenerare. 
    Cio',  anche  perche'  l'esecuzione  c.d.  indiretta   non   puo'
assurgere a rimedio sostitutivo del risarcimento  del  danno  causato
dall'inadempimento. 
    A tal riguardo, non puo' sottacersi la diversa opinione  per  cui
«tale  criterio»  avrebbe  fatto  «assumere  alla  misura  coercitiva
indiretta anche il carattere di risarcimento punitivo,  ora  ritenuto
compatibile col nostro ordinamento», ma non incondizionatamente. 
    Infatti, la configurazione di una  finalita'  punitiva  richiede,
come ricordato dalle  S.U.  5  luglio  2017,  n.  16601,  che  esista
un'espressa previsione legislativa che renda attuale alcune di quelle
funzioni che, nella logica di un sistema polifunzionale, sono proprie
dell'apparato rimediale risarcitorio.(4) 
    In tal caso, pur a fronte di un nomen iuris non univoco, sarebbe,
comunque, individuabile un solido argomento normativo. 
    Evidente e' la suggestione proveniente dal riferimento  al  danno
cagionato (o cagionabile) dall'obbligato, nonche' la sua idoneita' ad
evocare i criteri di risarcimento del danno ambientale e previsti per
le altre ipotesi - eccezionali e  di  stretta  interpretazione  -  di
danno punitivo. 
    Peraltro, sotto il profilo della sua concreta applicazione,  deve
ritenersi che il criterio commisurativo  de  quo  non  si  presti  ad
un'agevole  applicazione,  con   la   conseguenza   che   originera',
tendenzialmente, solo liquidazioni in via equitativa. 
    Altro  profilo  innovativo  della  nuova  formulazione  dell'art.
614-bis del codice di  procedura  civile  e'  quello  concernente  il
potere del giudice, investito della richiesta, di stabilire il dies a
quo dal quale procedere al computo della somma dovuta, cosi' come  la
durata massima della misura. 
    Si e' previsto  che  questi  non  possa,  ma  debba  indicare  la
decorrenza (cosi' da assicurare al soccombente il tempo necessario ad
adempiere) e, dall'altro, possa fissare il termine massimo di  durata
della misura «tenendo conto della finalita' della stessa  e  di  ogni
circostanza utile» (comma 1); termine, decorso il  quale,  la  misura
coercitiva e'  destinata  a  perdere  effetti,  non  producendo  piu'
esborsi a carico del destinatario della stessa. 
    Come evincibile dal dato testuale, il  potere  di  cui  al  primo
segmento normativo ha  natura  vincolata,  in  contrapposizione  alla
portata meramente discrezionale di  quello  di  indicare  il  termine
finale che sancisce lo spirare giuridico della stessa. 
    Secondo un'autorevole e condivisibile  dottrina,  il  legislatore
della riforma si sarebbe limitato a consacrare, in  norma  formale  e
espressa, un principio gia' operante a livello ordinamentale. 
    Verrebbe in rilievo «una razionalizzazione dell'esistente, questi
poteri essendo esercitabili anche nella vigenza del testo  precedente
dell'art.  614-bis  del  codice  di  procedura  civile»,  con  chiare
finalita' deflattive del contenzioso in materia. 
    Dunque, in  sintesi,  l'attuale  formulazione  della  norma,  per
quanto abbia ribadito la tradizionale dicotomia  fra  giudizio  della
cognizione presupposto e giudizio esecutivo,  radica  una  competenza
comminatoria in capo al Giudice  dell'esecuzione.  Soprattutto,  come
evidenziato, la domanda di penale  sembrerebbe  sfuggire  ai  termini
previsti per la proposizione di eccezioni e domande riconvenzionali e
cosi' deve ritenersi anche per le  difese  e  le  eccezioni  volte  a
contrastarne o a mitigarne l'applicazione. 
    E' indubbio che tale conformazione dell'istituto  possa  incidere
sull'interpretazione della stessa, nella formulazione previgente. 
4. Possibilita' di  un'interpretazione  costituzionalmente  conforme:
gli argomenti a favore della soluzione favorevole alla  possibilita',
per il giudice dell'esecuzione, ove gia' non fatto  dal  giudice  del
merito, di determinare ex post un  tetto  quantitativo  o  temporale,
massimo, all'operare delle stesse. 
    Cio' premesso, la norma, come gia' evidenziato, nella  sua  nuova
formulazione, conseguente alla novella, non prevede espressamente  la
possibilita', per il giudice dell'esecuzione, ove gia' non fatto  dal
giudice del merito, di determinare ex post un tetto  quantitativo  (o
temporale) massimo all'operare delle stesse. 
    Si limita a prevedere come lo stesso possa: 
        1) irrogare la misura, solo ove la stessa non sia stata  gia'
richiesta nell'eventuale giudizio di merito presupposto e sempre  che
il titolo esecutivo sia diverso da un provvedimento di condanna; 
        2) fissare, al momento dell'irrogazione, un termine di durata
della misura, tenendo conto della finalita' della stessa  e  di  ogni
circostanza utile. Tale  potere  non  e'  espressamente  riferito  al
Giudice dell'esecuzione, ma si desume da un'interpretazione combinata
del primo e del secondo comma; l'uno volto a  conformare  l'esercizio
del potere di irrogazione da parte del giudice del  merito;  l'altro,
preordinato  a  sancire  la  legittimazione  sussidiaria  del   G.e.,
rispetto al Giudice del merito. 
    Come gia' evidenziato, pero', taluna dottrina  ha  ritenuto  che,
nondimeno, il potere di fissazione ex post di un limite massimo,  pur
in difetto di un'espressa previsione abilitante, fosse ammissibile. 
    In tal senso, deporrebbero una pluralita'  di  ragioni  testuali,
logiche e sistematiche. 
    4.1. La clausola generale rebus  sic  stantibus  e  la  rilevanza
delle sopravvenienze. La  qualificabilita'  della  esorbitanza  della
somma maturata nei suddetti termini. 
    In primis, deve  richiamarsi  quell'orientamento  dottrinale  che
ritiene operativa, anche in materia di misure coercitive, la clausola
generale, rebus sic stantibus, che e' alla base della possibilita'  -
nel contesto dell'ordinamento interno - di  richiedere  una  modifica
giudiziale di un qualunque provvedimento di volontaria  giurisdizione
(come quello regolativo delle condizioni di separazione), cosi' come,
in  relazione  all'ordinamento  internazionale,  della  facolta'   di
recedere dello Stato dagli impegni assunti  con  altri  soggetti  del
diritto internazionale(5) 
    Si ritiene che, ogniqualvolta vi sia un rapporto  di  durata,  il
provvedimento giurisdizionale che lo vada a regolare,  dettandone  la
disciplina,  possa  essere  oggetto   di   mutamenti   e   variazioni
contenutistiche  e  cio'  quando  si  registri  una  modifica   delle
condizioni (fattuali e giuridiche)  che  hanno  presieduto  alla  sua
assunzione. 
    La sua stabilita' contenutistica  sarebbe,  dunque,  condizionata
risolutivamente all'invarianza delle predette condizioni. 
    A tal riguardo, si sostiene,  espressamente,  che  «un  principio
generale dell'ordinamento e' quello per  il  quale  --  il  giudicato
opera rebus sic stantibus, sicche' la  statuizione  che  lo  contiene
puo' essere modificata per fatti successivi alla sua formazione»... 
    Cio'  premesso,  come  gia'  evidenziato,  presupposto   per   la
revisione  della  regola  giurisdizionale,  non  consacrata  in   una
sentenza di merito passata in giudicato, e'  la  configurabilita'  di
una sopravvenienza. 
    Se ne rinviene conferma in specifiche previsioni normative: 
        a) nell'art. 669-decies del codice di  procedura  civile  per
cui «Salvo che sia stato  proposto  reclamo  ai  sensi  dell'articolo
669-terdecies, nel corso dell'istruzione il giudice istruttore  della
causa di merito puo', su istanza di parte, modificare o revocare  con
ordinanza il provvedimento cautelare, anche se  emesso  anteriormente
alla causa, se si verificano mutamenti  nelle  circostanze  o  se  si
allegano  fatti  anteriori  di  cui  si   e'   acquisita   conoscenza
successivamente al provvedimento cautelare. In tale  caso,  l'istante
deve fornire la prova del momento in cui ne e' venuto  a  conoscenza.
Quando il giudizio di merito non sia iniziato o sia stato  dichiarato
estinto, la revoca e  la  modifica  dell'ordinanza  di  accoglimento,
esaurita l'eventuale fase del reclamo proposto ai sensi dell'articolo
669-terdecies, possono essere richieste al giudice che ha  provveduto
sull'istanza cautelare se si verificano mutamenti nelle circostanze o
se si allegano fatti anteriori di  cui  si  e'  acquisita  conoscenza
successivamente al provvedimento cautelare. In  tale  caso  l'istante
deve fornire la prova del momento in cui ne e' venuto  a  conoscenza.
Se la causa di merito e' devoluta alla giurisdizione  di  un  giudice
straniero  o  ad  arbitrato,  ovvero  se  l'azione  civile  e'  stata
esercitata o trasferita nel processo penale, i provvedimenti previsti
dal presente articolo devono essere  richiesti  dal  giudice  che  ha
emanato   il   provvedimento   cautelare,   salvo   quanto   disposto
dall'articolo 818, primo comma»; 
        b) nel 2° comma dell'art. 283 del codice di procedura  civile
- introdotto proprio dalla Riforma Cartabia -  in  virtu'  del  quale
l'istanza di sospensiva dell'efficacia  esecutiva  o  dell'esecuzione
della sentenza impugnata  «puo'  essere  proposta  o  riproposta  nel
giudizio di appello se si verificano mutamenti nelle circostanze  che
devono  essere  specificamente   indicati   nel   ricorso,   a   pena
d'inammissibilita'». 
    Ovviamente, se il provvedimento,  contenente  la  misura  di  cui
all'art. 614-bis del codice di procedura civile  e  emanato  in  sede
cognitiva, non sia ancora  definitivo,  revoca  o  modifica  potranno
essere  richieste  al  giudice  della  cognizione,  con  il   reclamo
(articoli 183-ter e 669-terdecies del codice di procedura  civile)  o
anche in sede di gravame della sentenza. 
    Nell'ipotesi in cui il  provvedimento  non  sia  piu'  tangibile,
l'istanza di revoca o modifica  non  potranno  essere  presentate  al
giudice   dell'esecuzione(6),    ma,    quando    il    provvedimento
giurisdizionale non sia ancora, definitivo, tale  potere  processuale
sarebbe esercitabile, anche ex officio. 
    Ovviamente, deve ritenersi che tale principio operi limitatamente
ai provvedimenti che si proiettino  nel  tempo  e  che  non  assumano
efficacia di giudicato, almeno inteso in senso stretto, come  quelli,
per l'appunto, di natura cautelare,  quale  e'  quello  del  caso  di
specie. 
    Laddove, invece, il provvedimento sia assistito  dal  crisma  del
giudicato  formale,  perche'  emesso  a  seguito  di  un  giudizio  a
cognizione   piena,   affermarne   la   rivedibilita'   ingenererebbe
un'evidente aporia logica. Cio', salvo assumere  la  configurabilita'
di giudicati cedevoli o relativi che, invero, appare una costruzione,
di per se', «barocca» e priva di linearita' logica oltre  che  essere
in contrasto con il generale principio di certezza del  diritto  (che
lo stesso giudice comunitario ha ritenuto essere presidio di civilta'
giuridica) e di tutela del legittimo affidamento. 
    Orbene,  secondo  tale   prospettazione   teorica,   il   giudice
dell'esecuzione, in difetto di un giudicato, potrebbe, in ogni  caso,
ritenere che la sopravvenuta esorbitanza dell'importo  rispetto  agli
interessi da tutelare costituisca una modifica delle circostanze  che
il  giudice  della  cognizione  (piena  o  sommaria)  abbia  posto  a
fondamento della sua determinazione; con la conseguente  possibilita'
di apporvi un limite massimo. 
    4.2. La riduzione d'ufficio della penale manifestamente eccessiva
quale argomento logico richiamabile a favore  della  possibilita'  di
apporre d'ufficio un tetto massimo.  L'estensione  del  principio  di
necessario equilibrio del rapporto contrattuale, ad opera del Giudice
delle leggi, alla caparra confirmatoria (seppur ricorrendo al diverso
rimedio della sanzione della nullita' parziale). 
    In  secondo  luogo,  secondo  taluni   autori,   accogliendo   la
ricostruzione della misura coercitiva quale speciale clausola  penale
o quale penale sui  generis,  sarebbe  applicabile  l'art.  1384  del
codice civile(7) che subordina l'applicabilita' della riduzione della
stessa alla  circostanza  che  l'obbligazione  principale  sia  stata
eseguita in  parte  oppure  che  la  prestazione  sia  manifestamente
sproporzionata, avuto sempre riguardo all'interesse che il  creditore
aveva all'adempimento. 
    Si ritiene che, ammettendo l'operare  del  potere  di  riduzione,
anche ex officio, dell'entita' della misura coercitiva, in tal  caso,
praticabile solo dal giudice della cognizione, dovrebbe  ritenersi  a
fortiori  che  lo  stesso  possa  determinare  ex   post   un   tetto
quantitativo massimo all'operare delle stesse. E quando cio' non  sia
accaduto, analogo potere dovrebbe riconoscersi  in  capo  al  giudice
dell'esecuzione. 
    D'altronde, se la novella del 2022 ha riconosciuto il potere  per
il G.e. di irrogare,  per  la  prima  volta,  l'astreinte,  non  puo'
ragionevolmente escludersi che lo stesso possa porre un tetto massimo
a quella irrogata, aliunde, ovvero in sede di cognizione. 
    Cio', secondo il principio, logico prima che  giuridico,  secondo
cui «nel piu' sta il meno», ovvero, il riconoscimento di un potere di
una certa ampiezza e latitudine, implica la tacita attribuzione anche
di una facolta' a contenuto piu'  ristretto,  idealmente,  ricompresa
nella prima. 
    Invero, la trasposizione in relazione alla misura coercitiva  del
regime proprio della clausola penale, impone la  ricostruzione  della
natura di entrambe al fine di  vagliarne  l'eventuale  accostabilita'
sotto il profilo funzionale. 
    Come gia' evidenziato, plurime sono  le  teorie  che  sono  state
ventilate con riguardo alla seconda. 
    E' stata  elaborata  una  prima  tesi  che  sostiene  la  natura,
essenzialmente, risarcitoria della penale, di  predeterminazione  del
danno e di esonero dalla  relativa  prova  in  un'ottica  chiaramente
semplificatoria, in relazione alla  quale  l'intervento  del  giudice
assume una funzione correttiva e di riequilibrio contrattuale. 
    Tale ricostruzione muove dalla considerazione per  cui  l'opposta
qualificazione  in  termini  di  pena  avrebbe  contrastato  con   il
principio per cui, nel nostro ordinamento, sono da ritenersi  bandite
le  pene  private,  essendo  il  potere   sanzionatorio   prerogativa
esclusiva dello Stato e, piu' esattamente -  dato  l'attuale  assetto
dell'ordinamento costituzionale -  dei  pubblici  poteri  centrali  e
locali. 
    E', infatti, indubbio che il  nostro  ordinamento  sia  ispirato,
dopo la novella costituzionale del 2001, al  principio  pluralista  e
che lo stesso sia connotato da un sistema di governo  multilivello  e
affidato al dialogo fra  piu'  enti  territoriali  di  pari  dignita'
costituzionale. 
    E' chiaro che l'adesione a tale ricostruzione e' idonea a rendere
difficilmente accostabili i  due  istituti,  essendo  inequivoco  che
l'astreinte, per la preminente opzione  interpretativa,  non  assolva
mai  ad  una  funzione  risarcitoria,  ovvero  di  compensazione  del
pregiudizio subito dal creditore. 
    Cio', salvo  che  si  acceda  alla  tesi  ricostruttiva  per  cui
l'introduzione,   quale   criterio   commisurativo   della    stessa,
dell'utilitas tratta dal debitore,  sarebbe  idonea  ad  attrarre  la
stessa nell'alveo del risarcimento del danno c.d. punitivo. 
    La  sovrapposizione  delle  due  fattispecie  rimediali   diviene
agevole  ove,  invece,  si  opti  per  la  ricostruzione  in  termini
sanzionatori,  nel  qual   caso   l'intervento   giudiziale   sarebbe
preordinato a garantire l'adeguatezza e la congruita' della sanzione. 
    Invero, esiste, come  noto,  anche  una  terza  ricostruzione  in
relazione alla natura della penale che distingue tra: 
        clausola  penale  c.d.   «pura»   (con   funzione   meramente
preventiva di coazione all'adempimento e, successivamente, punitiva); 
        la clausola penale «non pura» (quella nella quale  le  parti,
con  dichiarazione  espressa,  hanno  introdotto   la   funzione   di
liquidazione del danno indipendentemente della prova di esso. 
    Nell'ipotesi  di  clausola  penale  «non  pura»,  la  parte   non
inadempiente potrebbe non domandare l'adempimento  della  prestazione
dedotta nella penale e preferire il risarcimento integrale del danno.
Cio', in virtu' di un'applicazione analogica dell'art. 1385, comma 3,
cc. 
    A  tal  riguardo,  si  rende   opportuna   una   breve   disamina
dell'istituto. 
    Al fine di comprendere se la riduzione  della  misura  coercitiva
indiretta possa avvenire anche d'ufficio, potrebbe essere  richiamate
le stesse considerazioni svolte dalla suprema  Corte  in  materia  di
clausola penale. 
    Al momento dell'entrata in vigore del codice civile del 1942,  la
giurisprudenza della Corte di cassazione era concorde  nell'affermare
che il potere del Giudice di ridurre la  penale  non  potesse  essere
esercitato d'ufficio, sebbene talvolta  si  fosse  affermato  che  la
richiesta di  riduzione  della  penale  dovesse  ritenersi  implicita
nell'affermazione di nulla dovere a tale titolo. 
    Invero, con il passare del tempo, e' venuto  emergendo  un  altro
orientamento, che, al fine di mitigare il rigore del dato  normativo,
ha  affermato  che  l'istanza  di  riduzione  della  penale   potesse
ritenersi implicita nella deduzione difensiva di non dovere alcunche'
a tale titolo. 
    Tale tesi e' stata, successivamente, oggetto di revisione critica
ad opera della sentenza n. 10511/1999 della Corte di cassazione,  che
ha, invece, ritenuto che la penale potesse essere ridotta ex officio,
anche in assenza di una sollecitazione delle parti in tal senso(8) 
    Tale opzione esegetica si e' fondata su due distinte ragioni: 
        1. la prima relativa «al riscontro nella giurisprudenza,  che
fino ad  allora  aveva  negato  il  potere  del  giudice  di  ridurre
d'ufficio la penale, di taluni cedimenti, individuati nel fatto  che,
in alcune  delle  pronunzie,  l'ossequio  al  principio  tradizionale
appariva solo formale, poiche' si giungeva  talvolta  a  ritenere  la
domanda di riduzione implicita  nell'assunto  della  parte  di  nulla
dovere a titolo di penale ovvero l'eccezione relativa proponibile  in
appello»; 
        2.  la  seconda  fondata  «sull'osservazione  che   l'esegesi
tradizionale non appariva piu' adeguata alla luce  di  una  rilettura
degli  istituti  codicistici  in  senso  conformativo   ai   precetti
superiori della Costituzione, individuati nel dovere di  solidarieta'
nei rapporti intersoggettivi (art. 2  Cost.),  nell'esistenza  di  un
principio di  inesigibilita'  come  limite  alle  pretese  creditorie
(Corte cost. n. 19/1994), da valutare insieme ai canoni  generali  di
buona fede oggettiva e di correttezza  (articoli  1175,  1337,  1359,
1366, 1375 del codice civile)». 
    La suprema Corte, a  Sezioni  Unite,  con  la  pronuncia  del  13
settembre 2005 n. 18128, componendo il  contrasto  interpretativo  al
riguardo, ha optato per tale ultima soluzione. 
    A tale esito, e' pervenuta tentando di superare le critiche mosse
dalla tesi tradizionale, contraria alla riducibilita' d'ufficio. 
    La  tesi  «negazionista»  invocava  il  generale  principio  c.d.
dispositivo che conformerebbe anche la fattispecie  di  cui  all'art.
1384 del codice civile, secondo cui il giudice non  puo'  pronunciare
se non nei limiti della domanda  e  delle  eccezioni  proposte  dalle
parti. 
    Dal punto  di  vista  processuale,  pertanto,  si  era  affermato
(Cass., sez. lav., 19 aprile  2002  n.  5691)  che  la  richiesta  di
riduzione  ad  equita'  doveva   tenere   conto   delle   preclusioni
processuali  previste  nel  contesto  dei  diversi   riti,   con   la
conseguenza, ad esempio, che, nel processo  del  lavoro,  la  domanda
doveva essere avanzata soltanto  nel  ricorso  introduttivo  o  nella
comparsa di risposta, oppure nel primo atto difensivo  successivo  al
verificarsi di fatti sopravvenuti idonei ad  incidere  sull'ammontare
della penale. 
    Orbene,  secondo  le  Sezioni  Unite,  «il  giudice  che   riduca
l'ammontare della penale, al cui pagamento il  creditore  ha  chiesto
che il debitore sia condannato, non viola(va) in alcun modo la  prima
proposizione del richiamato art. 112 del codice di procedura  civile,
atteso che il limite postogli dalla norma (era), in  linea  generale,
che egli non puo' condannare il debitore ad  una  somma  superiore  a
quella richiesta, mentre puo' condannarlo al pagamento di  una  somma
inferiore». 
    Peraltro, l'art. 112 del codice di procedura civile, nel disporre
che il Giudice  non  puo'  pronunciare  d'ufficio  su  eccezioni  che
possono essere proposte soltanto dalle parti, lasciava intendere  che
vi sono, oltre alle eccezioni proponibili soltanto dalle parti, anche
eccezioni che non lo sono e, in quanto tali, rilevabili d'ufficio. 
    Se cosi' e', allora, il problema della riducibilita' della penale
non era risolto dal riferimento all'art. 112 del codice di  procedura
civile e dalla verifica della sua osservanza, ma  dalla  risposta  al
quesito se la riduzione della penale sia oggetto di una eccezione che
puo' essere proposta soltanto dalla parte. 
    A tal riguardo, giova ricordare che le eccezioni in senso stretto
rappresentano  un   numerus   clausus,   essendo   tutte   le   altre
riconducibili al potere di rilevazione del giudice adito. 
    Cio' premesso, secondo le Sezioni Unite, l'art. 1384  del  codice
civile  non  conteneva   alcun   riferimento   all'imprescindibilita'
dell'eccezione della parte, quale presupposto per  l'attivazione  del
potere di riduzione. 
    Peraltro,   in   alcune   pronunce,   l'ossequio   al   principio
tradizionale appariva solo formale, poiche' si  giungeva  talvolta  a
ritenere la domanda di riduzione implicita nell'assunto  della  parte
di nulla dovere  a  titolo  di  penale  ovvero  l'eccezione  relativa
proponibile in appello (Cass., sez.  III,  30  marzo  1984  n.  2112;
Cass., sez. II, 26 gennaio 1982 n. 519; Cass., sez.  III,  26  giugno
1981 n. 4157(9). 
    Il  secondo   argomento   storico,   invocato   dall'orientamento
maggioritario, era quello per cui la riduzione della  penale  sarebbe
posta a tutela di un interesse individuale e particolare, quello  del
debitore a non subire un eccessivo  sacrificio  della  propria  sfera
giuridica; ragione per cui a tal  ultimo  sarebbe  stata  rimessa  la
decisione del riequilibrio della penale. 
    Orbene, per la suprema Corte anche questo argomento si fondava su
un assioma non dimostrato e  cioe'  che  l'istituto  della  riduzione
della penale fosse predisposto nell'interesse della parte debitrice. 
    In particolare,  "una  affermazione  di  questo  tipo  appar(iva)
contraddetta dall'osservazione che la penale  «puo'»  ma  non  «deve»
essere ridotta dal  giudice,  avuto  riguardo  all'interesse  che  il
creditore aveva all'adempimento". 
    Da cio' si desumeva che: 
        a) non esisteva un diritto del debitore alla riduzione  della
penale; 
        b) il criterio che il Giudice doveva utilizzare per  valutare
se una penale fosse eccessiva aveva natura oggettiva, atteso che  non
era previsto che il Giudice  dovesse  tenere  conto  della  posizione
soggettiva del debitore e del riflesso  che  sul  suo  patrimonio  la
penale potesse avere, ma solo dello squilibrio tra le posizioni delle
parti, mentre il riferimento all'interesse  del  creditore  aveva  la
sola funzione di indicare lo strumento per mezzo del  quale  valutare
se la penale sia manifestamente eccessiva o meno. 
    Ne discendeva, logicamente, che, pur sostanziandosi la  riduzione
della penale in un provvedimento che rende in concreto  meno  onerosa
la posizione del debitore e che deve  essere  adottato  tenuto  conto
dell'interesse che il creditore aveva all'adempimento, il  potere  di
riduzione  appariva  attribuito  al  Giudice  non   per   la   tutela
dell'interesse della parte tenuta  al  pagamento  della  penale,  ma,
piuttosto, a tutela di un interesse che lo trascendeva  e  di  natura
sovraindividuale(10). 
    Infine, il supremo Collegio ha ritenuto non determinante  neppure
l'argomento per cui il giudice, nell'esercizio dei poteri  equitativi
diretti  alla  determinazione  dell'oggetto  dell'obbligazione  della
clausola, non dispone di altri parametri di  giudizio  rispetto  alla
verifica  dell'equilibrio  raggiunto  dalle   parti   stesse,   nelle
preventiva determinazione delle conseguenze dell'inadempimento. 
    E cio' sia con riguardo al  momento  genetico  sia  in  relazione
all'attuazione concreta del rapporto. 
    Ha  affermato,  infatti,  che  questo  argomento   non   appariva
decisivo,   considerando   che   la   mancata   allegazione   (o   la
impossibilita' di riscontri negli atti acquisiti) della  eccessivita'
della penale  puo'  rendere  in  concreto  maggiormente  difficoltoso
l'accertamento della  medesima,  ma  non  costituisce,  di  per  se',
circostanza  preclusiva  dell'esercizio  officioso  del  potere   del
giudice. 
    A tal proposito, richiamava cio' che accade in tema  di  nullita'
del contratto, che  il  Giudice  puo'  dichiarare  d'Ufficio  purche'
risultino dagli atti i presupposti della nullita' medesima (Cass.  n.
4062/87), senza  che  per  l'accertamento  della  nullita'  occorrano
indagini di fatto per le quali manchino gli elementi necessari (Cass.
n. 1768/86, 4955/85, 985/81), e piu' di  recente  Cass.  n.  1552/04,
secondo  cui  «La  rilevabilita'  d'Ufficio  della  nullita'  di   un
contratto prevista dall'art. 1421 del codice civile non comporta  che
il Giudice sia obbligato ad un accertamento d'ufficio in  tal  senso,
dovendo  invece  detta  nullita'  risultare  "ex  actis",  ossia  dal
materiale probatorio legittimamente acquisito al processo, essendo  i
poteri officiosi del Giudice limitati al rilievo della nullita' e non
intesi percio' ad esonerare la parte dall'onere  probatorio  gravante
su di essa». 
    Secondo  le  Sezioni  Unite,  il  potere  conferito  al   giudice
dall'art. 1384 del codice civile di ridurre la penale  manifestamente
eccessiva era da considerarsi fondato sulla necessita' di  correggere
l'esercizio dell'autonomia  privata,  mediante  l'attivazione  di  un
potere equitativo che ristabilisca un congruo  contemperamento  degli
interessi   contrapposti,   valutando   l'interesse   del   creditore
all'adempimento,  cui  ha  diritto,  tenendosi  conto  dell'effettiva
incidenza di esso sull'equilibrio delle prestazioni e sulla  concreta
situazione contrattuale. 
    Cio', a tutela di un interesse  superiore  all'osservanza  di  un
generale principio di equilibrio che ha un fondamento  essenzialmente
equitativo. 
    Secondo il supremo consesso, la legge,  quindi,  nel  riconoscere
l'autonomia contrattuale delle parti, ne sanciva i limiti  operativi.
La verifica dell'osservanza del rispetto di tali ultimi e'  demandato
al Giudice, che non puo' riconoscere tutela al diritto fatto  valere,
se esso si fonda su un contratto il cui contenuto  non  sia  conforme
alla legge ovvero sia diretto a realizzare interessi che non appaiono
meritevoli secondo l'ordinamento giuridico. 
    L'intervento  del  Giudice,  in  tali  casi,   e'   indubbiamente
esercizio di un potere officioso attribuito dalla legge. 
    Lo stesso articolo 1384 c.c.m secondo la  suprema  Corte,  doveva
considerarsi mero momento di  emersione  formale  di  tale  principio
generale che avrebbe portata  inderogabile  e  sarebbe,  comunque,  a
imporsi all'autonomia delle parti. 
    Se nel nostro ordinamento non fosse stato previsto e disciplinato
l'istituto della clausola  penale  e,  tuttavia,  le  parti  avessero
introdotto in  un  contratto  una  clausola  con  tale  funzione,  il
Giudice, chiamato a pronunciarsi in ordine ad una domanda di condanna
del  debitore  al  pagamento  della  penale  pattuita   per   effetto
dell'inadempimento, avrebbe dovuto formulare, d'ufficio, un  giudizio
sulla validita' della clausola; giudizio  che  avrebbe  potuto  avere
esito negativo, ove fosse stato ravvisato un  contrasto  dell'accordo
con principi fondamentali dell'ordinamento, ad esempio per  il  fatto
che la penale doveva essere pagata anche se il danno non sussisteva. 
    In questo caso, vi sarebbe stato  un  controllo  d'ufficio  sulla
tutelabilita' dell'accordo delle parti e, ove il controllo  si  fosse
concluso negativamente, la tutela, programmata dall'ordinamento,  non
sarebbe stata accordata. 
    Nel nostro diritto positivo, questo controllo non  e'  necessario
perche' l'istituto e' riconosciuto e disciplinato dal legislatore che
ha  effettuato  una  valutazione,  di  tipo  preventivo,  generale  e
astratta circa la liceita' della fattispecie (art. 1382 e  segg.  del
codice civile). 
    Le Sezioni  Unite  hanno  invocato,  inoltre,  la  necessita'  di
un'esegesi costituzionalmente orientata della norma, secondo cui tale
potere  giudiziale  di  riduzione  della   penale   potrebbe   essere
esercitato  d'ufficio.  E  cio'  sia  con  riferimento  alla   penale
manifestamente eccessiva, sia con riferimento all'ipotesi in  cui  la
riduzione avvenga perche'  l'obbligazione  principale  sia  stata  in
parte eseguita, giacche' in quest'ultimo caso, la mancata  previsione
da parte dei contraenti di una riduzione  della  penale  in  caso  di
adempimento di parte dell'obbligazione, si traduce  comunque  in  una
eccessivita' della penale  se  rapportata  alla  sola  parte  rimasta
inadempiuta. 
    La suprema Corte ha invocato i principi conformatori della stessa
costruzione costituzionale, ovvero: 
        a) il dovere di  solidarieta'  nei  rapporti  intersoggettivi
(art. 2 Cost.); 
        b)  il  principio  generale  di  inesigibilita'  come  limite
(esterno) alle pretese creditorie (C. cost. n.  19/94),  fondato  sui
canoni generali di buona fede oggettiva e  di  correttezza  (articoli
1175, 1337, 1359, 1366, 1375 del codice  civile)  e  suscettibile  di
fondare  il  ricorso  ad  un'eccezione  o  anche  ad   un'azione   di
accertamento dell'eventuale superamento di tale limite. 
    Con riguardo a tale principio di inesigibilita', richiamato dalle
SS.  UU.,  esso  trova  riscontro  in  talune  pronunce  della  Corte
costituzionale(11). 
    Questo principio di inesigibilita' era gia' stato affermato anche
dalle supreme magistrature, ordinaria e amministrativa(12). 
    Peraltro, tale principio non e' applicabile soltanto  nell'ambito
dell'ordinamento giuridico statale(13) 
    Secondo le S.U. del 2005,  si  rende,  pertanto,  necessaria  una
lettura della norma di cui all'art. 1384 del codice civile che meglio
rispecchi l'esigenza di tutela di un interesse oggettivo fondato  sui
principi costituzionali richiamati. 
    Proprio il suddetto principio viene  evocato  in  supporto  della
tesi favorevole alla possibilita', per il giudice  della  cognizione,
di predeterminare ex ante il tetto massimo delle  misure  coercitive;
nonche', per quello dell'esecuzione, di procedere, sia su istanza  di
parte sia ex officio, ad una determinazione ex post. 
    Invero, ritiene questo Giudice remittente che forti dubbi sorgono
in relazione alla possibilita'  che  cio'  possa  avvenire  anche  in
presenza  di  una   volonta'   di   segno   opposto   (ed   espressa)
dell'obbligato che ben puo' scegliere, per una qualunque ragione,  di
soggiacere ad una sanzione sproporzionata e di prestarvi adesione. 
    Peraltro, il principio  di  necessario  equilibrio  del  rapporto
contrattuale,  o  meglio  di   non   eccessiva   sproporzione   delle
prestazioni legate da un vincolo sinallagmatico, sposato con riguardo
alla clausola penale, e' stato trasposto anche in materia di  caparra
confirmatoria. 
    Infatti, con un'ordinanza (ord. 2 aprile 2014, n. 77), il giudice
delle  leggi  si  e'  pronunciato,  nuovamente,  sulla  questione  di
legittimita' costituzionale del  secondo  comma  dell'art.  1385  del
codice civile «nella parte in cui non dispone che - nelle ipotesi  in
cui la parte che ha dato la caparra  e'  inadempiente,  l'altra  puo'
recedere dal contratto, ritenendo la caparra e nella ipotesi in  cui,
se inadempiente e' invece la parte che l'ha  ricevuta,  l'altra  puo'
recedere dal contratto ed  esigere  il  doppio  della  caparra  -  il
giudice possa equamente ridurre la somma da ritenere o il  doppio  da
restituire, in ipotesi di manifesta  sproporzione  o  ove  sussistano
giustificati motivi». 
    La  questione  e'  stata  dichiarata  inammissibile  dalla  Corte
costituzionale, la quale ha evidenziato come ai sensi dell´art.  1385
del codice civile non operi alcun automatismo di  attribuzione  della
caparra in favore del contraente, rimasto adempiente. E  cio',  anche
laddove ricorra una manifesta sproporzione,  in  quanto  gli  effetti
contrattuali sono, sempre, eterointegrati dalle norme di  legge,  con
carattere  imperativo  e  imponentisi  all'autonomia  negoziale,  con
conseguente interferenza sull'assetto di interessi, programmato dalle
parti. 
    In particolare, a venire in rilievo, in chiave integrativa, e' la
buona fede contrattuale di cui all'art. 1375 del codice  civile  che,
come  noto,  rinviene  il  proprio  fondamento   costituzionale   nel
principio solidaristico di cui all'art. 2 Cost. 
    Dunque, in ipotesi di evidente sproporzione, continua  la  Corte,
il Giudice e' legittimato a rilevare ex officio la nullita'  ex  art.
1418 del codice civile della clausola contrattuale, introduttiva, nel
regolamento contrattuale, della caparra confirmatoria, derivando tale
radicale sanzione dal contrasto della regola negoziale con  l´art.  2
Cost.  (che   pone   l'adempimento   del   dovere   inderogabile   di
solidarieta'), che entra direttamente  nel  contratto,  in  combinato
contesto  con  il  canone  della  buona  fede,  cui  attribuisce  vis
normativa, «"funzionalizzando cosi'  il  rapporto  obbligatorio  alla
tutela anche dell'interesse del partner negoziale nella misura in cui
non  collida  con  l'interesse  proprio  dell'obbligato"  (Corte   di
cassazione n. 10511 del  1999;  ma  gia'  n.  3775  del  1994  e,  in
prosieguo, a Sezioni unite, n. 18128 del 2005 e n. 20106 del 2009)». 
    Tale  pronuncia  mutua  le  conclusioni  cui  era  pervenuta  una
precedente ordinanza del Giudice delle leggi (ord. n. 248/2013) sulla
medesima questione, pervenendo a generalizzare il principio  per  cui
il regolamento contrattuale deve essere ispirato ad un equilibrio che
non risulti, gravemente, alterato in favore di una delle parti  e  in
danno dell'altra. 
    Da notare, pero', come l'estensione del principio  di  necessario
equilibrio del rapporto contrattuale,  ad  opera  del  Giudice  delle
leggi, alla caparra confirmatoria sia avvenuto, ricorrendo al diverso
rimedio della sanzione della nullita' parziale. 
    Cio', peraltro, nel contesto di un'operazione  esegetica  che  ha
attribuito alla buona fede oggettiva, una funzione,  eccezionalmente,
invalidatoria, a fronte di un suo consueto utilizzo in chiave di mera
eterointegrazione del rapporto contrattuale. 
    4.3. Il fondamento equitativo del potere del G.e. di  fissare  ex
post un limite massimo all'astreinte,  determinata  dal  giudice  del
merito; cosi' come dello stesso potere del giudice  della  cognizione
di provvedere alla sua riduzione (ove non gia' coperta da giudicato) 
    In ogni caso, deve ritenersi che la riduzione rinvenga il proprio
fondamento  nel  principio  equitativo,  quale  ratio   decidendi   -
ricorribile solo in difetto di una previsione di legge, gia' idonea a
regolare la fattispecie concreta - che, secondo un  illustre  autore,
«assicura il saggio bilanciamento degli interessi in  gioco  dando  a
ciascun uomo il suo senza sottrarre quanto spetta agli altri».  Essa,
infatti,   «significa    ricerca    d'equilibrio    tra    situazioni
antagonistiche». 
    Il richiamo della stessa assume ancora piu' rilievo in virtu' del
ruolo, attualmente, rivestito dalla equita' nell'ambito  delle  fonti
del diritto, quale principio,  al  pari  di  molti  altri,  non  piu'
relegato ad una funzione di mero supporto dell'esegesi, ma dotato  di
una funzione,  per  cosi'  dire,  «normopoietica»,  ovvero  di  fonte
regolativa di tutte le fattispecie non espressamente disciplinate. 
    E cio' al di la' della circostanza che la  stessa  possa  operare
secondo  lo  schema  dell'equita'   secundum   legem,   sia,   cioe',
espressamente richiamata dal titolo contrattuale o dalla legge. 
    Invero, l'equita',  nell'attuale  assetto  ordinamentale,  sembra
aver assunto una  triplice  configurazione:  1.  quella  di  criterio
interpretativo del regolamento contrattuale o anche  solo  negoziale;
2. quella di fonte eterointegrativa del contratto o  del  negozio  in
virtu' della clausola  generale  di  cui  all'art.  1374  del  codice
civile; 3.  quella  di  strumento  di  disciplina  della  fattispecie
concreta, seppur in una chiave di residualita' rispetto alla norma di
legge ordinaria (o costituzionale, ove direttamente precettiva). 
    In particolare, tal ultima funzione troverebbe la propria  ragion
di essere nella preesistenza dell'equita' e, dunque, del c.d. diritto
naturale -  quale  insieme  di  regole  necessariamente  generali  e,
tendenzialmente, onnicomprensive perche' innate ai rapporti  umani  -
rispetto al diritto positivo; diritto positivo  che  dovrebbe  sempre
ambire a recepire la prima, quale condizione per la sua stessa valida
formazione e cogenza. 
    La legge formale deve (o meglio, dovrebbe), sempre, «rispettare i
diritti naturali (ossia i diritti innati e non «posti»)  dell'uomo  e
deve nello stesso tempo piegarsi di fronte  agli  ideali  di  equita'
allo scopo di evitare che il summum ius degradi in summa iniura». 
    D'altronde, come sottolineato dalla gia' menzionata dottrina,  e'
indubbio che l'equita' non possa non «compenetr(are) il  diritto;  il
diritto senza equita' e' come un corpo  che  non  si  lascia  vibrare
dall'anima; il valore sostanziale del diritto e'  ravvisabile  quando
realizzi un ordine sociale giusto». 
    Cio', anche perche' "il diritto non e' un «ordine cieco»,  ma  e'
«ordine  cosciente»,  ossia  un  ordine  ancorato  ai  valori   della
umanita', tolleranza, coerenza e giustizia". 
    Invero,  nel  codice  civile,  le  norme   che   fanno   espresso
riferimento all'equita' sono scarse, o, comunque, poche. 
    Esse  sembrano  fondarsi  su  due  principi  comuni,  che   sono,
probabilmente, in parte, suscettibili di una revisione critica: 1. il
giudizio secondo equita' e' diverso da quello secondo stretto diritto
e consente di temperarne il rigore applicativo, ovvero di coniare una
regola decisoria che tenga conto di tutte le circostanze del caso  di
specie; 2. il ricorso all'equita' e'  possibile  solo  se  la  stessa
norma di diritto  positivo  lo  consenta,  con  previsione  espressa,
dovendosi  altrimenti  fare  applicazione  della  regola  di  stretto
diritto. 
    In taluni casi, come rilevato da acuta dottrina il  ricorso  allo
strumento equitativo puo' discendere, in via implicita, dal  richiamo
alla categoria di uno strumento rimediale,  intrinsecamente,  fondato
sullo stesso quale deve intendersi quello indennitario  di  cui  agli
articoli 1381 e 2047 del codice civile. 
    Infatti, «l'indennizzo, a differenza del risarcimento  del  danno
da inadempimento contrattuale,  costituisce  un  minus  negli  stessi
termini in cui l'indennita' dovuta dall'amministrazione  espropriante
al proprietario rappresenta una prestazione monetaria che  non  copre
il valore di mercato  del  bene.  Sotto  il  profilo  della  concreta
commisurazione,  "l'indennizzo,  tenuto   conto   delle   circostanze
concrete, non deve necessariamente  eguagliare  l'intero  pregiudizio
sofferto dalla vittima" e  "la  quantificazione  della  somma  dovuta
dall'obbligato  giustifica  l'uso  di  criteri  equitativi,  i  quali
sciolgono il diritto vivente dalla morsa dell'art.  1223  del  codice
civile». 
    Da cio' la dottrina tradizionale trae il corollario  per  cui  il
ricorso all'equita', anche in  sede  interpretativa,  dovrebbe  avere
natura eccezionale. Paradigmatica di questa logica  di  funzionamento
delle norme in materia di  equita'  e'  l'articolo  1374  del  codice
civile, che  disciplina  le  fonti  di  integrazione  del  contratto,
menzionando l'equita' unitamente alla  legge  e  agli  usi  normativi
quali possibili fonti del regolamento contrattuale. Cio', secondo  un
ordine non casuale ma, secondo la interpretazione  piu'  accreditata,
preordinato a individuare una vera  e  propria  gerarchia  in  virtu'
della quale l'(eventuale) operare della prima  esclude  quello  della
seconda. 
    Riferimenti  all'equita'   sono   contenuti   anche   in   ambito
processuale,   ma   anche   nella   disciplina    delle    trattative
precontrattuali cosi' come dell'esecuzione del  contratto,  assumendo
la stessa in ogni sede una peculiare vocazione funzionale. 
    L'art.  1371  del  codice  civile  prevede  che,   in   caso   di
impossibilita'  di  determinare  il   significato   del   regolamento
contrattuale, sarebbe possibile far ricorso all'equo  contemperamento
degli interessi delle parti. 
    Anche in tal caso il ricorso all'equita'  e'  residuale,  perche'
subordinato  all'inadeguatezza  delle  altre  regole  interpretative,
dettate dal Codice, e deve  mirare  all'obiettivo  di  conservare  un
ragionevole equilibrio  fra  le  reciproche  prestazioni  dedotte  in
contratto. 
    Accanto  all'equita'  in   funzione   interpretativa,   si   puo'
richiamare l'equita' c.d. correttiva che implica la  possibilita'  di
rimodulare la penale ex art.  1384  del  codice  civile).  Previsioni
analoghe sono contenute anche da altri articoli in  tema  di  mandato
(articoli 1733, 1736 del codice civile), agenzia (ex  articoli  1749,
1751 del codice civile), mediazione (ex art. 1755 del codice civile). 
    La progressiva emersione del generale principio equitativo  trova
conferma anche nelle seguenti ipotesi normative. L'art. 7,  comma  1,
decreto legislativo n. 231/2002, in materia di ritardi del  pagamento
nelle transazioni commerciali, prevede  la  nullita'  delle  clausole
inique nei casi ivi  enumerati  (sebbene  in  tale  ambito  la  parte
protetta sia il creditore, considerato come  partie  faible  rispetto
all'imprenditore suo debitore (siamo nel campo  dei  c.dd.  contratti
d'impresa); 
        a) l'intera  disciplina  dettata  all'art.  1526  del  codice
civile ha una inequivocabile matrice equitativa.  Prova  ne  sia  che
l'antecedente normativo di tale regola e' dato dalla Abzahlungsgesetz
(AbzG)  del  18  maggio  1894.  Essa  innalzo'   un   argine,   tanto
rivoluzionario quanto pioneristico - estraneo alla logica  formale  e
avalutativa   della   pandettistica   tedesca   della   prima   meta'
dell'Ottocento -, alla diffusione di condizioni generali di contratto
fissanti, in caso di inadempimento del  compratore-particulier,  pene
contrattuali «strangolatorie» o patti  di  incameramento  delle  rate
gia' pagate e destinate a rappresentare un'anticipazione  del  valore
di scambio della cosa  compravenduta,  allorche'  l'attuazione  della
causa concreta traslativa  fosse  stata  frustrata  dal  sopravvenuto
scioglimento del contratto di vendita per inadempimento del debitore; 
        b) tutta la disciplina in tema di garanzie  e'  informata  al
principio    di    proporzionalita',     il     quale     costituisce
un'estrinsecazione  dell'aequitas.  Tant'e'  che  gli  articoli  1851
(pegno irregolare), 2893 (pegno  di  credito),  2872  ss.  (riduzione
delle ipoteche) e  1941  (in  tema  di  limite  della  fideiussione),
attestano l'emersione de iure  condito  del  predetto  principio,  in
guisa da evitare che la forza imperativa del diritto  positivo  venga
ad  assumere  le  improprie  fattezze  di  mezzo  di   vessazione   o
jugulatorio a scapito del debitore principale; 
        c) lo scopo di finanziamento, assicurato  dalla  vendita  con
patto  di  riscatto  (privo  di  causa  commissoria)  ha  indotto  il
legislatore ad applicare il su evocato principio di  proporzionalita'
onde scoraggiare le condotte prevaricatrici a detrimento di chi vende
spinto dal bisogno di monetizzare il bene di sua proprieta'. In detta
direzione depone l'art. 1500, comma 2, del codice civile, a mente del
quale il «patto di restituire un prezzo superiore a quello  stipulato
per la vendita e' nullo per l'eccedenza». 
    In ultimo, puo' richiamarsi l'equita'  nella  commisurazione  del
quantum del danno da risarcire, prevista dagli articoli 1226  e  2056
del codice civile. 
    A tal riguardo, non puo' non menzionarsi  come  alla  Tabella  di
Milano la suprema Corte  abbia  riconosciuto  valenza  essenzialmente
paranormativo, non in quanto espressione della  volonta'  legislativa
in senso proprio e stretto, ma proprio in applicazione del  principio
di valutazione equitativa del danno, richiamato  dell'art.  1226  del
codice civile. In particolare, come affermato  dalla  suprema  Corte,
con la sentenza del  2011,  n.  12408,  alle  tabelle  milanesi  deve
riconoscersi «una sorta di vocazione nazionale», anche  perche',  coi
valori da esse tabellati, esprimono il valore da ritenersi «equo»,  e
cioe' quello in grado di garantire la parita'  di  trattamento  e  da
applicare in tutti i casi in cui la fattispecie concreta non presenti
circostanze idonee ad aumentarne o ridurne l'entita'. 
    Cio', al punto che l'applicazione delle suddette tabelle sarebbe,
come  gia'  evidenziato,  oggetto  di   un   vero   e   proprio   uso
«paranormativo». 
    Le potenzialita' applicative del principio equitativo sono state,
pero',  colte  da  quegli  interpreti  che  riconoscono  rilievo   al
principio equitativo, anche al di  fuori  delle  ipotesi  in  cui  la
stessa sia oggetto di espresso richiamo  da  parte  della  previsione
normativa. 
    E cio' per la sua,  gia'  menzionata,  immanenza  alle  relazioni
umane cosi' come per la sua anteriorita' rispetto alla disciplina  di
diritto positivo. 
    Sotto il profilo metodologico, la  generalizzazione  del  ricorso
all'equita' si avvale, spesso, della mediazione  di  quelle  clausole
generali che  rendono  doverosa  per  l'interprete  una  valutazione,
secondo prudenza di tutte le circostanze del caso di specie,  come  i
principi di buona fede e correttezza o il concetto di giusta causa  o
giusti motivi, o ancora la locuzione normativa, frequente  specie  in
materia di obbligazioni, di «natura dell'affare». 
    Invero, deve, pero', ritenersi che l'equita' possa operare  anche
senza la  necessita'  della  mediazione  delle  suddette  clausole  o
principi, il ricorso (surrettizio) alle quali denota il timore, anche
solo implicito, di sfruttare,  in  maniera  piena,  le  potenzialita'
applicative dell'istituto. 
    Depongono, in tal senso, una serie di indizi  normativi,  spesso,
rinvenienti   dalla   disciplina   comunitaria   o   di   derivazione
comunitaria. 
    Si pensi al diritto del  consumatore,  qualificato  espressamente
come fondamentale, «alla correttezza, alla trasparenza ed all'equita'
nei  rapporti  contrattuali  concernenti  beni  e  servizi»,  di  cui
all'art. 1, comma 2, della legge 30 luglio 1998, n. 281,  recante  la
disciplina dei diritti dei consumatori. 
    La norma e' stata inserita nel codice del  consumo  nell'art.  2,
comma 2, lettera e), con l'eliminazione della locuzione  «concernenti
beni e servizi», cio' «al fine  di  ampliare  la  originaria  portata
della normativa e conferirle un valore generale». 
    Noto  e'  il  dibattitto  sulla  portata  effettiva  o  meramente
declamatoria e simbolica della norma(14) , cosi' come quello relativo
al contenuto  del  suddetto  diritto  all'equita'  contrattuale,  se,
cioe', ristretto all'equilibrio giuridico ovvero dei  diritti  e  dei
doveri derivanti dal contratto o se esteso ai  profili  economici  e,
dunque, alla proporzionalita' del valore delle prestazioni(15). 
    Peraltro, si  e'  pure  sostenuto  che  "il  diritto  all'equita'
contrattuale  segnerebbe  il   «superamento»   dell'alternativa   tra
equilibrio  normativo  ed  equilibrio  economico,   con   conseguente
riduzione della stessa ad  una  superfetazione  normativa  o  ad  una
categoria concettuale priva di utilita'. 
    Orbene, la suddetta norma,  nella  logica  di  un'interpretazione
sistematica e evolutiva, deve considerarsi previsione non  settoriale
ma espressione di un  principio  generale,  quello  equitativo,  gia'
immanente al sistema, o, comunque, in via di formazione(16). 
    Altra norma, espressione del generale principio della necessita',
per l'interprete - in difetto  di  una  regolamentazione  legislativa
espressa - di  perseguire  la  giustizia  del  caso  concreto,  nella
composizione degli interessi ad esso sotteso, e' l'art. 9 della legge
n. 192 del 1998 di cui, da taluni,  viene  postulata  un'applicazione
generalizzata,  talvolta,  in  via  diretta,  ma,   piu'   spesso   e
condivisibilmente, in via analogica(17). 
    Analogia anch'essa «non facile»,  in  considerazione  della  poca
frequenza statistica di  uno  stato  di  vera  e  propria  necessita'
economica in capo dal consumatore, e, peraltro, solo quando a  venire
in rilievo sia il conseguimento di servizi pubblici essenziali. 
    Sono forse maturi i tempi per una rivisitazione dei  tradizionali
limiti al principio  equitativo,  quali  narrati  dalla  manualistica
classica. 
    (In difetto di una disciplina  di  diritto  positivo),  l'equita'
puo' essere, cioe', invocata dall'interprete non  solo  secundum,  ma
anche praeter legem, quale clausola che consente  all'ordinamento  di
smussare le sue asperita' per piegarsi alle esigenze  specifiche  del
caso concreto e, talvolta, assumendo la portata  di  fonte  oggettiva
del diritto(18). 
    Nondimeno,  anche  accettando  tale  ricostruzione   dei   limiti
operativi  della  equita'  in  termini  piu'   elastici,   non   puo'
sovvertirsi il principio per cui la stessa non puo'  contrastare  con
la regola di stretto diritto. 
    Per quanto concerne le modalita', metodologiche,  di  svolgimento
del giudizio equitativo, mediante il rinvenimento della regola  della
fattispecie, come evidenziato da  Autorevole  dottrina,  «il  diritto
equo va inteso con senso pragmatico: esso, infatti, non si  adegua  a
specifici indirizzi filosofici  o  ad  un  ethos  trascendentale  ma,
sull'abbrivio  della   ragione   ponderante,   assicura   il   saggio
bilanciamento degli interessi in gioco dando a ciascun  uomo  il  suo
senza sottrarre quanto spetta agli altri». 
    Dunque, equita' «significa ricerca  d'equilibrio  tra  situazioni
antagonistiche» e cio' ne denota  l'intima  relazione  con  un  altro
principio generale che e' quello di ragionevolezza. 
    Ed essendo la ragionevolezza della composizione  degli  interessi
in gioco la sostanza e il fine ultimo  del  giudizio  equitativo,  lo
stesso incontra dei limiti - operativi e contenutistici - precisi. 
    Infatti, «deve essere  ben  chiaro  che  la  ricerca  dei  valori
attorno ai quali e' edificato lo Stato di diritto... non puo'  essere
compromessa dalla c.d. aequitas cerebrina di chi antepone la  propria
nozione di giusto al Wesengehalt qualificante la legislazione». 
    Cio', perche'  «equita'  non  equivale  ad  arbitrio  assoluto  o
all'assenza di  qualsivoglia  vincolo  legalitario».  L'equita',  per
contro, per assumere a divenire parametro oggettivabile, deve  essere
ancorata ai principi ordinamentali quali quelli di  ragionevolezza  e
proporzionalita'. 
    Principi generali del diritto che "non costituiscono il risultato
di aride generalizzazioni o di formalistiche acrobazie teoretiche, ma
offrono  la  somma  dei  «criteri  di  valutazione   costituenti   il
fondamento dell'ordine  giuridico  e  aventi  una  funzione  genetica
rispetto alle singole norme". 
    Dunque, si puo' affermare che «la decisione di equita' e' un atto
sempre secondo diritto ma non necessariamente applicativo della legge
positiva», ovvero di norme puntuali, ma,  per  l'appunto,  di  quelle
clausole generali che sono i principi. 
    Delineate  le  suddette  premesse   ricostruttive,   per   taluna
dottrina, dovrebbe ritenersi che ben possa il giudice dell'esecuzione
intervenire   sulla   misura   coercitiva,   modulandola   in   senso
contenitivo, ogniqualvolta la sua applicazione  ingeneri  conseguenze
patrimoniali contrarie a equita'. 
    Cio', avendo riguardo a quel generale  principio  equitativo  che
impone la ricerca della giustizia del caso di specie,  valorizzandone
e ponderandone tutte le caratteristiche concrete. 
    4.4. Un argomento sistematico in favore del  potere  di  fissare,
anche ex officio, un tetto massimo ad una misura,  aliunde  irrogata:
la posizione della giurisprudenza amministrativa 
    La possibilita' per il G.e. di  fissare,  anche  ex  officio,  un
tetto  massimo  ad  una  misura,  aliunde  irrogata  (e  non   ancora
cristallizzata)   rinverrebbe.   peraltro,   conferma,   a    livello
sistematico,  in  quanto  affermato  da  parte  della  giurisprudenza
amministrativa in materia di riduzione dell'astreintes, irrogate  dal
giudice della cognizione. 
    L'Adunanza plenaria  e'  stata  chiamata  a  pronunciarsi  su  un
peculiare profilo dell'istituto della c.d. astreinte, declinata,  con
la  pronuncia  n.  15/2014,  quale  «misura  coercitiva  indiretta  a
carattere pecuniario, inquadrabile nell'ambito delle pene  private  o
delle sanzioni civili indirette, che mira a vincere la resistenza del
debitore, inducendolo ad adempiere  all'obbligazione  sancita  a  suo
carico  dall'ordine  del  giudice»  risolvendosi  in  un  «meccanismo
automatico  di  irrogazione  di   penalita'   pecuniarie   in   vista
dell'assicurazione dei  valori  dell'effettivita'  e  della  pienezza
della tutela giurisdizionale a fronte della mancata o  non  esatta  o
non tempestiva esecuzione delle sentenze emesse nei  confronti  della
pubblica amministrazione e, piu' in generale, della  parte  risultata
soccombente all'esito del giudizio di cognizione». 
    Con la  sentenza  9  maggio  2019,  n.  7,  il  supremo  consesso
amministrativo ha affrontato la questione che agitava gli  interpreti
relativa alla modificabilita' o meno del criterio di  quantificazione
statuito dal giudice di merito;  e  cio'  in  forza  di  una  vistosa
iniquita' a cui l'applicazione di esso avrebbe condotto. 
    Il  giudice  amministrativo   -   tratteggiando   le   differenze
intercorrenti tra l'atteggiarsi dell'istituto  in  sede  di  giudizio
civile   e    il    giudizio    amministrativo    e    individuandole
nell'applicabilita' delle  stesse,  in  questo  secondo,  anche  alle
condanne aventi ad oggetto  obbligazioni  pecuniarie  -  ha  ritenuto
modificabile il criterio statuito in sentenza, ogniqualvolta vi siano
sopravvenienze fattuali o giuridiche. 
    In particolare,  l'Adunanza  plenaria  ha  enucleato  i  seguenti
principi: 
        1.  e'  possibile,  in  sede   di   c.d.   «ottemperanza   di
chiarimenti», modificare la statuizione, relativa alla  penalita'  di
mora contenuta in una precedente sentenza d'ottemperanza,  ove  siano
comprovate sopravvenienze fattuali o giuridiche  che  dimostrino,  in
concreto, la manifesta iniquita'  in  tutto  o  in  parte  della  sua
applicazione; 
        2. salvo il caso delle sopravvenienze, non e' in via generale
possibile la revisione ex tunc dei criteri  di  determinazione  della
astreinte dettati in una precedente sentenza d'ottemperanza,  si'  da
incidere sui crediti a titolo di penalita' gia' maturati dalla  parte
beneficiata. Tuttavia, ove il  giudice  dell'ottemperanza  non  abbia
esplicitamente fissato, a causa dell'indeterminata progressivita' del
criterio dettato, il tetto massimo  della  penalita',  e  la  vicenda
successiva alla determinazione abbia fatto emergere, a causa  proprio
della mancanza del tetto, la manifesta iniquita',  quest'ultimo  puo'
essere  individuato  in   sede   di   chiarimenti,   con   principale
riferimento, fra i parametri indicati nell'art. 614-bis del codice di
procedura civile, al danno da ritardo nell'esecuzione del giudicato. 
    E' proprio tale seconda ipotesi che  potrebbe  sovvenire  per  il
caso di specie. 
    In applicazione analogica del principio  enucleato  dall'adunanza
plenaria, e' stato ritenuto che  il  giudice  dell'esecuzione  civile
possa fissare  un  tetto  massimo  all'importo  dovuto  a  titolo  di
astreintes, quando a cio'  non  abbia  provveduto  il  giudice  della
cognizione e, dunque, neppure esista un giudicato sul punto. 
    Tale ordine  di  considerazioni  parrebbe,  peraltro,  avvalorato
dalla nuova formulazione della  norma  codicistica.  Infatti,  se  al
giudice dell'esecuzione compete la fissazione ex  novo  delle  misure
coercitive, non sembra «trascendentale» la scelta di riconoscere allo
stesso il potere di determinare l'importo massimo di una misura  gia'
previamente irrogata dal Giudice della cognizione. 
    4.5. Argomento sistematico-evolutivo 
    Nel senso di un potere di integrazione e  specificazione  (e  non
anche di modifica)  della  misura  ex  art.  614-bis  del  codice  di
procedura civile, da parte del  giudice  dell'esecuzione,  deporrebbe
anche la metamorfosi conosciuta dal processo esecutivo, da  strumento
di mera attuazione del comando alla nuova veste cognitoria: 
    Gli approdi recenti della giurisprudenza di legittimita' denotano
una vera e propria metamorfosi del processo esecutivo. 
    In particolare, deve ritenersi che  si  vadano  attenuando  anche
alcuni principi che hanno contraddistinto il processo  esecutivo  fin
dal  suo  ingresso  nell'ordinamento  giuridico,  quando   aveva   la
connotazione  di  strumento  di  attuazione  del   comando,   rimasto
inadempiuto, sia esso di fonte stragiudiziale, sia  esso  di  matrice
giudiziaria. 
    Il riferimento e' ai caratteri dell'autonomia, dell'astrattezza e
dell'autosufficienza, propri del titolo esecutivo. 
    Appare, decisamente, in crisi anche la tradizionale distinzione -
avente, invero, una sua intrinseca ragionevolezza - tra attivita'  di
tipo   cognitorio   e   attivita'   esecutiva,   che   implicava   il
riconoscimento  agli  organi  esecutivi  di  una  funzione  di   mera
traduzione  nella  realta'  della  regola   «scolpita»   dal   titolo
esecutivo. 
    L'ultimo    dei    suddetti    connotati    distintivi     ovvero
l'autosufficienza, nella logica  della  separazione  fra  il  momento
dell'accertamento  e  quello  dell'esecuzione,  veniva  intesa   come
l'idoneita'  del  titolo  esecutivo  a  consentire,   legittimandola,
l'azione esecutiva. Cio', attribuendo al possessore dello stesso,  il
diritto,  in  un  certo  qual  modo,  incondizionato,   di   ottenere
l'attivazione dell'ufficio esecutivo, su  cui,  dal  suo  canto  suo,
sarebbe gravato il dovere di tutelare la pretesa giuridica soggettiva
(normalmente, coincidente con il diritto) incorporata nel titolo. 
    Cio', in un contesto in cui il G.E., di norma, non avrebbe potuto
accertare l'effettiva esistenza della  stessa,  fatta  eccezione  per
l'ipotesi in cui non fosse a cio' legittimato dalla  proposizione  di
rituale opposizione all'esecuzione  (peraltro,  fino  ad  un  recente
passato, esperibile sine die). 
    Nella vigenza della suddetta disciplina, le opposizioni esecutive
costituivano gli unici momenti cognitivi  di  un'attivita'  esecutiva
congeniata non «per conoscere, ma per attuare un  pensiero  giuridico
gia' definito». 
    Nell'ambito dell'economia complessiva dell'attivita' giudiziaria,
l'attivita'  accertativa  veniva  ad  assumere  un  ruolo  del  tutto
marginale e, comunque, servente alla definizione delle  controversie,
veicolate a mezzo delle c.d. opposizioni esecutive. 
    Altro carattere  che  si  riteneva  consustanziale  alla  vicenda
esecutiva  era  quello  relativo  all'astrattezza  del   titolo,   da
intendersi quale inidoneita' dello  stesso  ad  essere  condizionato,
nella sua funzione e vitalita', dal rapporto sottostante. 
    Gia' le pronunce a  Sezioni  Unite  del  2012(19),  in  punto  di
integrazione giudiziale del  titolo  esecutivo  da  parte  del  G.e.,
avevano  iniziato   a   erodere   progressivamente   tali   principi,
alimentando un ancora non sopito dibattito interpretativo. 
    In particolare, la sentenza n. 11067 del 2.07.2012 attribuiva  al
giudice dell'esecuzione, nell'ipotesi di (obiettive e non superabili)
incertezze interpretative nella ricostruzione dell'obbligo  posto  da
una sentenza, il potere di integrare con  elementi  extratestuali  il
precetto giudiziale. Cio', pero', subordinatamente  al  fatto  che  i
dati di  riferimento,  con  cui  effettuare  l'eterointegrazione  del
titolo giudiziale, potessero  essere  tratti  da  documenti,  a  loro
volta, ritualmente acquisiti al  processo  che  aveva  condotto  alla
formazione del titolo giudiziale. 
    D'altronde, e' innegabile che le suddette pronunce, nel garantire
l'eseguibilita' di comandi sia sostanziali sia giudiziali, affetti da
una  genetica  genericita',  abbiano  assicurato   l'osservanza   del
principio di effettivita' della  tutela,  il  cui  fondamento  e'  da
ricercarsi sia a livello  costituzionale  negli  articoli  24  e  113
Cost., sia sovranazionale negli artt. 6 e 13 CEDU e 47 Cost. 
    Si attua, dunque, il passaggio da un ruolo  monolitico  del  G.e.
quale mero esecutore di un comando gia' formato ad una veste duplice,
non solo esecutiva, bensi' di giudice della cognizione, se non  altro
per tutte le questioni veicolabili  dalle  c.d.  eccezioni  in  senso
lato. E cio' con  poteri  di  cognizione,  di  norma,  solo  sommari;
talvolta, di cognizione piena, quando lo  stesso  sia  investito  del
merito di un'opposizione esecutiva, o quando  lo  stesso  proceda  al
rilievo  d'ufficio  di  una  causa  estintiva  o  del  difetto  delle
condizioni stesse per procedere ad esecuzione. 
    Anche di recente, in virtu' dell'obbligo  generale  di  recezione
del diritto unionale  -  che,  come  noto  direttamente  applicabile,
unitamente  alle  sentenze  della  Corte   di   giustizia,   che   ne
eterointegrano  il  contenuto  precettivo  -  si  e'   assistito   ad
un'ulteriore erosione della  distinzione  concettuale  tra  attivita'
cognitiva e esecutiva. 
    Distinzione, secondo la dogmatica tradizionale, afferente al c.d.
ordine pubblico processuale e come tale inderogabile. 
    Di  essa  rappresentava  logico  corollario  l'impossibilita'   -
assoluta  e  incondizionata  -  per  il  giudice  dell'esecuzione  di
sindacare  la  legittimita'  del  titolo  esecutivo,  specie  se   di
formazione   giudiziale,   facendo   valere   fatti   anteriori    al
conseguimento  della  sua  definitivita'.   Fatti   che   risultavano
azionabili esclusivamente davanti al giudice della cognizione. 
    Del suddetto principio si e' imposto, pero',  il  superamento  al
fine di tutelare quella liberta' negoziale del consumatore che, nella
logica dell'ordinamento comunitario, non rileva, di per se', ma quale
bene  strumentale  o  intermedio,  la  cui  garanzia  si  impone  per
assicurare l'assetto concorrenziale  del  mercato,  in  quanto  unico
modello  di  organizzazione   che   possa   assicurarne   un'adeguata
competitivita'. 
    Si discute,  peraltro,  se  tale  eccezione  valga  per  la  sola
disciplina consumieristica oppure sia estendibile ad ogni ipotesi  in
cui venga in rilievo una violazione della disciplina comunitaria. 
    Si e' affermato, in dottrina, che la nuova formulazione dell'art.
614-bis del codice di procedura civile, nella parte  in  cui  prevede
che il G.e. dell'esecuzione possa irrogare l'astreinte,  non  avrebbe
fatto che positivizzare una tendenza, gia' insita  nel  sistema,  nel
senso dell'attribuzione al Giudice dell'esecuzione di sempre maggiori
poteri cognitivi, meramente sommari o anche a  cognizione  piena,  ma
pur sempre strumentali alle finalita' dell'esecuzione. 
    D'altronde,  e'   indubbio,   che   il   G.e.   adito   ai   fini
dell'emanazione di  una  misura  coercitiva,  e'  tenuto  a  svolgere
un'attivita' istruttoria, volta all'accertamento della ricorrenza dei
presupposti di cui all'art. 614-bis del codice di  procedura  civile.
Dunque, lo stesso,  come  sottolineato  da  Autorevole  dottrina,  e'
gravato di «una vera e propria attivita' cognitiva (seppure informale
e semplificata) che sfocera' nell'adozione  di  un  provvedimento  di
condanna». 
    4.6. La qualificabilita'  dell'eccessiva  esosita'  della  penale
quale fatto sopravvenuto 
    Secondo una certa angolazione ricostruttiva, la  mancanza  di  un
tetto massimo implica il pericolo che la penale possa diventare,  con
il passare del tempo,  eccessivamente  onerosa,  se  non  addirittura
esosa, e tale circostanza e' qualificabile quale fatto sopravvenuto. 
    Come noto, per principio interpretativo consolidato, in  sede  di
opposizione sia esecutiva sia pre-esecutiva  (per  l'ipotesi  in  cui
l'actio esecutiva non sia ancora iniziata), promossa sulla base di un
titolo esecutivo di formazione giudiziale, e', in generale,  preclusa
la spendita di eccezioni in senso stretto, fondate su fatti di natura
impeditiva,  modificativa  o  estintiva  anteriori  cronologicamente,
quanto alla loro venuta ad esistenza, alla definitivita' del  decreto
ingiuntivo o del diverso provvedimento giurisdizionale opposto. 
    Pertanto, eventuali fatti estintivi o  modificativi  del  diritto
azionato  con  un  titolo  di  formazione  giudiziale  che  si  siano
verificati anteriormente alla  formazione  del  titolo  stesso  -  e,
dunque, come tali  dedotti  o  anche,  semplicemente,  giuridicamente
deducibili  -  non  possono  essere  fatti  valere  con   opposizione
all'esecuzione, dovendo essere oggetto di  specifiche  eccezioni  nel
giudizio di merito che ha portato all'emissione del titolo esecutivo. 
    Si pensi, in particolare, all'eccezione di compensazione  legale,
i cui presupposti di liquidita',  esigibilita'  e  coesistenza  siano
venuti ad esistenza dopo la scadenza dei termini per l'opposizione  a
decreto  ingiuntivo  oppure  dopo  il  maturare   delle   preclusioni
processuali nel giudizio di  opposizione  (v.  ex  multis,  Cass.  17
febbraio 2011, n.  3850,  secondo  cui  «[...]  il  titolo  esecutivo
giudiziale non puo' essere rimesso in discussione dinanzi al  giudice
dell'esecuzione ed a quello dell'opposizione per fatti anteriori alla
sua  definitivita',  in  virtu'  dell'intrinseca  riserva   di   ogni
questione di merito  al  giudice  naturale  della  causa  in  cui  la
controversia tra le parti ha avuto o sta avendo pieno sviluppo ed  e'
stata od e' tuttora in via di esame ex professo  o  comunque  in  via
principale»). 
    In tal senso, depongono non solo ragioni di carattere logico e di
economia processuale, ma anche la necessita' di conservare una cesura
netta fra le vicende giuridiche inerenti al  giudizio  presupposto  e
l'esecuzione del provvedimento, conclusivo  dello  stesso.  Cio',  in
virtu' di un principio di «competenza» intesa in senso lato, per  cui
della valida formazione del provvedimento portato a esecuzione e'  (o
puo' essere) investito unicamente  il  giudice  cui  e'  devoluto  il
gravame o l'impugnativa promossa avverso lo stesso. 
    Principio di «competenza» che, peraltro, si interseca  anche  con
il  diverso  principio,  pure  ispirato  ad  esigenze   di   economia
processuale, del deducibile (valevole) come dedotto. 
    Esigenze, tali ultime, meritevoli di tutela secondo la logica e i
valori ispiratori dell'ordinamento giuridico multilivello quale  deve
considerarsi quello italiano in conseguenza dell'eterointegrazione da
parte del livello di tutela comunitario, nonche' delle sollecitazioni
provenienti dalla CEDU. 
    E' indubbio che l'attuazione, in via coattiva, del decisum  e  la
tempestivita' della tutela siano due corollari  logici  indefettibili
di quel diritto all'effettivita'  della  tutela  giurisdizionale  che
rinviene il proprio fondamento oltre che nell'art.  24  Cost.,  anche
negli articoli 6 e 13 CEDU e 47 CDFUE. 
    Peraltro,   considerato    l'attuale    stadio    dell'evoluzione
interpretativa  interna,  trovando   applicazione   la   regola   del
deducibile come  dedotto,  deve  ritenersi  che  l'impossibilita'  di
azionare vizi del titolo di formazione giudiziale valga non solo  per
quelli concretamente dedotti nel giudizio c.d. presupposto, ma  anche
per quelli che lo erano sulla  base  di  un  criterio  di  normalita'
statistica e di diligenza (di fatto, rimasto inosservato); 
    Nondimeno, in sede esecutiva, possono essere dedotti nuovi  fatti
giuridici, non esistenti prima della  scadenza  del  termine  per  la
proposizione  dell'opposizione  (o  del  gravame)  e  in   grado   di
estinguere o modificare (in tutto o anche solo in parte) il  rapporto
in contestazione. 
    D'altronde, venendo alla fattispecie concreta, e'  evidente  come
la fissazione di un tetto massimo  costituisca  naturale  prerogativa
del G.e., in quanto giudice  delle  c.d.  sopravvenienze  fattuali  e
giuridiche.  Infatti,  solo  il  G.e.  puo'  apprezzare   l'eventuale
esorbitanza  dell'importo  raggiunto  dalla  misura   rispetto   agli
interessi che la stessa e'  preordinata  a  tutelare,  provvedendo  a
comparare gli stessi con quello antagonista a che la sfera  giuridica
dell'obbligato non sia esposta a un sacrificio sproporzionato. 
    Gli  effetti  patrimoniali  della   misura   sono   destinati   a
proiettarsi  naturalmente  nel  futuro  e  le  parti,  in   sede   di
cognizione, sono, spesso, sprovviste di idonei elementi valutativi da
sottoporre all'attenzione del Giudice, investito della  richiesta  di
astreinte. 
    Cosi' il giudice investito della controversia non e',  di  norma,
nelle condizioni di predeterminare l'entita'  massima,  raggiungibile
dalla misura. Si pensi, a titolo esemplificativo, all'ipotesi in  cui
il giudice della cognizione, al fine di determinare la  misura  della
stessa, voglia - compiendo  un'operazione  esegetica  contrastata  da
chi, condivisibilmente, sostiene che l'astreinte non  possa  svolgere
un ruolo di surrogazione dello strumento risarcitorio tradizionale  e
azionato nelle debite forme - commisurare la pretesa risarcitoria  al
danno cagionato o cagionabile dall'inadempiente.  Non  essendovi,  al
momento  dell'irrogazione  dell'astreinte,  alcun  accertamento   del
danno,   diverrebbe   impossibile   ricorrere   a    tale    criterio
commisurativo. 
    Cosi', in  generale,  se  il  giudice  della  cognizione  volesse
ancorare la massima soglia raggiungibile dalla misura  coercitiva  in
base  alle  specifiche  modalita'  della   condotta   dell'obbligato,
dovrebbe, tendenzialmente,  fare  riferimento  -  sulla  base  di  un
giudizio, necessariamente, predittivo e prognostico -  a  circostanze
future, non agevolmente governabili, con conseguente  incertezza  dei
prescelti parametri del riferimento. 
    Vi e', peraltro, dottrina che assume, piu' radicalmente,  che  la
misura   coercitiva   sarebbe   una   misura   tipica   del   giudice
dell'attuazione del comando (stragiudiziale o giudiziale) come denota
anche la  previsione  di  similare  competenza  in  capo  al  giudice
dell'ottemperanza, in sede amministrativa. 
    Peraltro, nel senso che la stessa debba avere necessariamente  (e
indefettibilmente) un termine massimo di durata  depone  il  generale
principio  di  temporaneita'  di  ogni   vincolo   obbligatorio   che
costituisce corollario della tradizionale avversione dell'ordinamento
per i vincoli perpetui. 
    4.7. Opponibilita' dell'exceptio  doli  generalis  (al  di  fuori
dell'ambito contrattuale) 
        a. Rapporti fra abuso del diritto, da un lato, e buona fede e
correttezza, dall'altra 
    Orbene,  in  disparte  le  superiori   considerazioni,   potrebbe
ritenersi che, nella condotta del  beneficiario  dell'astreintes  che
decida di avvalersi di una clausola che sia  divenuta  manifestamente
iniqua, siano ravvisabili  gli  estremi  dell'abuso  del  diritto  e,
quindi,  della  condotta  contraria  a   buona   fede   oggettiva   e
correttezza.  Principi  che  conformano   e   innervano   il   nostro
ordinamento,  cosi'  come  affermato   dalla   suprema   Corte,   con
orientamento oramai costante. 
    Peraltro,  buona  fede  e  correttezza  avrebbero,   secondo   la
prevalente  e  preferibile  ricostruzione  teorica,   un   fondamento
costituzionale. 
    Precisamente,  il  principio  de  quo  -  il  quale,  secondo  la
Relazione ministeriale al codice civile, «richiama  nella  sfera  del
creditore la considerazione dell'interesse del debitore e nella sfera
del debitore il giusto riguardo all'interesse del creditore» -  opera
come un criterio di reciprocita' e, una volta collocato nel quadro di
valori introdotto dalla Carta Costituzionale, deve essere inteso come
una  specificazione  degli  «inderogabili  doveri   di   solidarieta'
sociale» dettati dall'art. 2 Cost. 
    La sua rilevanza si esplica nell'imporre, a ciascuna delle  parti
del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo  da  preservare
gli interessi dell'altra, a prescindere dall'esistenza  di  specifici
obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da  singole
norme di legge (Sez. L, sentenza n. 4057 del 16 febbraio  2021;  Sez.
3, ordinanza n. 24691 del 5 novembre 2020; Cass. n. 12310/1999). 
    Essa si sostanzia in un  generale  obbligo  di  solidarieta'  che
impone a ciascuna delle parti di agire  in  modo  da  preservare  gli
interessi dell'altra,  a  prescindere  tanto  da  specifici  obblighi
contrattuali,  quanto  dal  generale  dovere  extracontrattuale   del
«neminem  laedere»,  ma  trova,  tuttavia,  un  suo  limite  precipuo
nell'impossibilita'  che  il  comportamento   preteso   dalle   parti
contrattuali (o, in genere, dai consociati,  ove  non  legati  da  un
rapporto negoziale) possa comportare  un  apprezzabile  sacrificio  a
carico delle stesse (o degli stessi). 
    In altri termini, la buona fede oggettiva ha assunto  valenza  di
fonte di  obblighi  ulteriori  rispetto  all'obbligo  di  prestazione
riveniente dal contratto,  che  si  pongono  in  posizione  ancillare
rispetto a quest'ultimo, assicurando la realizzazione dell'assetto di
interessi prospettato dalle parti. 
    E cio' in virtu' del combinato disposto  degli  articoli  1375  e
1175 del codice civile. che,  dettati  in  materia  contrattuale,  si
considerano espressione di un principio generale volto  a  conformare
la condotta dei consociati anche al di fuori della sede contrattuale,
tanto da considerare  lo  stesso  quale  una  declinazione  del  piu'
generale dovere del neminem laedere. 
    Sotto il profilo operativo, dunque, la buona  fede  -  anche  se,
testualmente, riferita al momento esecutivo del contratto  -  integra
gli obblighi  derivanti  dal  contratto  e,  quindi,  arricchisce  il
rapporto o, in alternativa, il divieto del neminem  laedere,  venendo
ad  assumere  la  funzione  di  regola  obiettiva  che   concorre   a
individuare il  comportamento  dovuto,  imponendo  una  condotta  non
prestabilita e cio'  in  dipendenza  delle  circostanze  concrete  di
attuazione del rapporto o di quelle che connotano la singola  vicenda
in cui si consuma l'illecito aquiliano. 
    Dunque, la  clausola  generale  di  buona  fede  ha  assunto  nel
dibattito   giurisprudenziale   un'importanza    sempre    crescente,
evolvendosi da mero criterio per la valutazione delle condotte a vero
e proprio strumento  di  integrazione  degli  obblighi  nascenti  dal
contratto  in  capo  alle  parti,  attraverso   l'individuazione   di
ulteriori condotte a tenersi, ad opera delle stesse. 
    Peraltro,  in  relazione  a  tale  principio,  e'  frequente   il
riferimento all'istituto della Verwirkung (Cass. Sez. 3, sentenza  n.
10549 del 3 giugno 2020; Cass. Sez. 3, sentenza n. 10182 del 4 maggio
2009; Cass. Sez. 3, sentenza n. 5240 del 15 marzo 2004). 
    Come noto, la Corte di cassazione ritiene, infatti,  che  l'abuso
del diritto rappresenti uno dei criteri rivelatori  della  violazione
del principio di buona fede oggettiva. 
    Intervenendo sul rapporto tra abuso del diritto e buona fede,  ha
affermato la configurabilita' della figura dell'abuso del diritto  in
tutte le ipotesi in cui siano tenute condotte contrarie al  principio
di buona fede oggettiva e di correttezza. 
    Tale orientamento e' stato sostenuto per la prima  volta  in  una
sentenza  della  suprema  Corte  degli  anni  Sessanta  in   cui   la
disposizione concernente la buona fede e' stata considerata idonea  a
reprimere l'abuso del diritto soggettivo (Cass., 15 novembre 1960, n.
3040). 
    Le  pronunce  piu'  recenti  si  muovono  nello   stesso   solco:
recentemente la Corte ha confermato che  i  principi  di  buona  fede
oggettiva e di divieto dell'abuso del diritto si integrano a vicenda:
la  buona  fede  rappresenta  un  canone  generale  cui  riferire   i
comportamenti delle parti, anche di un rapporto  privatistico  (Cass.
Civ., Sez. VI, 21 luglio 2020, n. 15436). 
    A dimostrazione della vitalita' e delle  potenzialita'  operative
del principio de quo, la suprema Corte e'  giunta  a  valorizzare  il
principio di buona fede fino all'esplicita affermazione  secondo  cui
anche il decorso di un «termine» legale (nella vicenda  esaminata  si
trattava  di  quello  del  precetto)  non  determina  necessariamente
l'effetto sfavorevole previsto dalla legge, allorche' «in  concreto»,
accertate le «circostanze rilevanti nella singola fattispecie» vi sia
un comportamento adempiente («pagamento in un  termine  ragionevole»)
della parte obbligata. 
    Da ultimo, ad essa viene riconosciuta una funzione disapplicativa
della regola negoziale o, comunque, di paralisi della singola pretesa
azionata da una delle parti del rapporto. 
    La conseguenza che, di norma, l'ordinamento riconnette  alla  sua
violazione  e'  quella  dell'insorgere  di  un  obbligo  a  contenuto
risarcitorio, con le precisazioni che si vanno a svolgere. 
        b. Fondamento normativo del principio dell'abuso del diritto 
    Quanto al  fondamento  normativo  del  principio  dell'abuso  del
diritto, come noto, nel  nostro  Codice  non  esiste  una  norma  che
sanzioni, in via generale, l'abuso del diritto. Cio', per  quanto  si
ancori lo stesso, in materia proprietaria e di rapporti di  vicinato,
al divieto di atti emulativi ex art. 833  del  codice  civile,  quale
ipotesi paradigmatica di deviazione dell'esercizio di un diritto  dal
suo  scopo  tipico,  ovvero  da  quello  cristallizzato  dalla  norma
attributiva dello stesso. 
    Nondimeno,  in  via  interpretativa,   come   gia'   evidenziato,
costituisce  oramai  dato  acquisito  quello  per  cui   l'abuso   e'
configurabile «quando il titolare di un diritto  soggettivo,  pur  in
assenza di divieti formali, lo eserciti con modalita' non  necessarie
ed irrispettose del dovere di correttezza e buona fede, causando  uno
sproporzionato  ed  ingiustificato   sacrificio   della   controparte
contrattuale, ed al fine di conseguire risultati diversi ed ulteriori
rispetto  a  quelli  per  i  quali  quei  poteri  o  facolta'  furono
attribuiti» (Cass. III Civile, 18 settembre 2009, n. 20106). 
    Invero, il principio de quo ha conosciuto una positivizzazione, a
livello sovranazionale ed, in particolare, comunitario,  nella  Carta
dei diritti fondamentali dell'Unione europea, all'art.  54  («Divieto
dell'abuso del diritto»). 
    Peraltro, dopo l'entrata in vigore (nel  2009)  del  Trattato  di
Lisbona, esso ha il medesimo valore giuridico dei trattati comunitari
e  delle  norme   comunitarie   direttamente   applicabili,   perche'
sufficientemente determinate nel loro contenuto  precettivo,  godendo
della c.d. primazia sulle norme interne. 
    Cio' premesso, elementi costitutivi dell'abuso del diritto sono i
seguenti: 1) la titolarita' di un diritto soggettivo in  capo  ad  un
soggetto; 2) la  possibilita'  che  il  concreto  esercizio  di  quel
diritto possa essere effettuato secondo una pluralita'  di  modalita'
non rigidamente predeterminate; 3) la circostanza che tale  esercizio
concreto, anche se formalmente rispettoso della  cornice  attributiva
di quel diritto, sia svolto secondo modalita' censurabili rispetto ad
un criterio  di  valutazione,  giuridico  od  extragiuridico;  4)  la
circostanza che, a causa di  una  tale  modalita'  di  esercizio,  si
verifichi  una  sproporzione  ingiustificata  tra  il  beneficio  del
titolare del diritto ed il sacrifico cui e' soggetta  la  controparte
(v. expressim, Cass. n. 20106, 2009, cit.). 
    Per contro, come  noto,  la  verifica  giudiziale  del  carattere
abusivo o meno della condotta prescinde dal dolo  e  dalla  specifica
intenzione di nuocere alla propria  controparte  contrattuale  o,  in
genere, ad un terzo: elementi questi tipici degli atti emulativi,  ma
non delle fattispecie di abuso di potere contrattuale o di dipendenza
economica. 
    Ricorrendo tali presupposti,  ricorrendo  una  certa  traiettoria
argomentativa, sarebbe consentito al giudice di  merito  sindacare  e
dichiarare inefficaci gli atti compiuti in violazione del divieto  di
abuso del diritto (v., expressim, Cass. n. 20106, 2009, cit.). 
    La tutela riconosciuta al contraente che ha  subito  l'abuso  del
diritto e', infatti, l'exceptio doli generalis,  che  attribuisce  al
titolare la possibilita' di opporsi ad un'altrui pretesa o eccezione,
astrattamente fondata ma che, in realta', costituisce espressione  di
uno scorretto esercizio di un diritto, volto  al  soddisfacimento  di
interessi non meritevoli di tutela per l'ordinamento giuridico. 
    Tale rimedio e' fruibile in caso di condotte sleali anche se  non
fraudolente e rappresenta, pertanto, un rimedio di natura  oggettiva,
a tal fine essendo sufficiente la prova della mera conoscenza o della
conoscibilita' della contrarieta' alla correttezza del  comportamento
posto in essere. 
    Orbene, declinando tali categorie  con  riferimento  al  caso  di
specie, considerando come abusiva la richiesta di una  penale,  anche
dopo che la stessa,  per  il  suo  ammontare  complessivo  e  perche'
comminata  sine  die,  diventi  contraria  a  buona  fede  oggettiva,
potrebbe  ritenersi  prefigurabile  il  ricorso   all'exceptio   doli
generalis, con conseguente paralisi degli effetti (di  preordinazione
all'esecuzione) del precetto intimato. 
    In  tal  senso  deporrebbe  anche  l'attuale  e  gia'  menzionata
tendenza interpretativa ad estendere l'ambito operativo  della  buona
fede (oggettiva) al di fuori del suo alveo fisiologico, che e' quello
dei rapporti di natura negoziale, facendone, al contempo, un criterio
integratore del piu' generale dovere del neminem laedere. 
    Ad essa viene riconosciuta, infatti, anche la vocazione  a  porsi
quale parametro cui commisurare la liceita' del comportamento  di  un
soggetto nei confronti di un altro, al quale il primo non sia  legato
da un precedente vincolo negoziale. 
5. Le criticita' mosse alla soluzione favorevole  e  la  non  agevole
sperimentazione di un'interpretazione costituzionalmente orientata. 
    Invero, questo Giudice remittente non ritiene che  gli  argomenti
invocati,   possano   indurre,   con   sufficiente   solidita',    ad
un'interpretazione   costituzionalmente   orientata   della    norma,
sottoposta al vaglio dell'ecc. ma Corte. E  cio',  in  considerazione
delle seguenti considerazioni: 
        1. l'univoco dato testuale dell'art. 614-bis  del  codice  di
procedura civile, illo tempore applicabile alla fattispecie concreta,
che prevedeva il potere d'irrogazione dell'astreinte solo in capo  al
giudice della  cognizione  e  non  anche  a  quello  dell'esecuzione.
Dunque,  il  legislatore  del  2009,  con  il  modulare  l'originaria
formulazione della norma, sembrava ribadire la netta cesura fra  fase
cognitoria e fase esecutiva, in parte ribadita  anche  dalla  riforma
Cartabia. Ne', alla stregua delle suddette coordinate  normative,  il
potere del  G.e.  di  intervenire  sulla  misura  «eterodata»  poteva
ritenersi  insito  nel  sistema  perche'  sarebbe  stata   necessaria
un'espressa previsione a cio' legittimante. 
    Invero, per quanto estraneo  al  presente  thema  decidendum,  la
questione non pare essere stata risolta alla stregua del novello dato
testuale della norma che sembra precludere un intervento del  Giudice
dell'esecuzione in materia di 614-bis del codice di procedura civile,
al di fuori dell'ipotesi in cui il  Giudice  della  cognizione  nulla
abbia stabilito al riguardo e, dunque, secondo una logica di evidente
sussidiarieta' o, comunque, di rigorosa alternativita'. 
    Infatti, come gia' evidenziato, la nuova  formulazione  dell'art.
614-bis del codice di procedura civile, come novellata dalla  riforma
Cartabia, consente di avanzare la domanda di misure coercitive  anche
nel giudizio di esecuzione  solo  se  non  richiesta  nel  precedente
processo di cognizione. 
    Cio', vuol dire che, in virtu' del dato testuale della norma,  la
competenza del G.e. all'assunzione del provvedimento  e'  subordinata
non alla mancata concessione da parte del giudice  della  cognizione,
ma alla sua mancata richiesta, al primo, da parte dell'interessato. 
    Dunque, anche a voler ritenere, come  gia'  prospettato,  che  la
nuova formulazione dell'art. 614-bis si limiti a evocare poteri  gia'
insiti nel sistema, cosi' come  evolventisi,  la  stessa  esprime  la
volonta' di tenere separate le competenze in materia dei due  giudici
della cognizione e della esecuzione; 
        2. la  non  invocabilita'  della  soluzione  prescelta  dalla
giurisprudenza amministrativa in  virtu'  dei  penetranti  poteri  di
cognizione  che  sono  riconosciuti  al   Giudice   dell'ottemperanza
amministrativa, nella logica di  un  sindacato  che  e'  destinato  a
estrinsecarsi in relazione ad una realta' giuridica, non statica,  ma
dinamica, qual e' l'esercizio del potere amministrativo, esercitabile
negli spazi non  coperti  dal  giudicato  amministrativo.  Sindacato,
peraltro, naturalmente, destinato  a  confrontarsi  con  il  fenomeno
delle sopravvenienze in fatto  e  in  diritto.  Inoltre,  al  Giudice
dell'ottemperanza, in virtu' dell'oramai categoria  del  giudicato  a
formazione  progressiva,  e'  riconosciuto  il  potere  non  solo  di
attuare,  ma   anche   di   integrare   e   precisare   il   precetto
giurisdizionale da portare a esecuzione proprio al fine di consentire
l'adattamento della regola giudiziale  alle  suddette  sopravvenienze
(rilevanti solo se non successive alla notifica della  sentenza  alla
parte interessata); 
        3. la tendenziale assolutezza del  principio  di  separazione
fra  il   momento   dell'accertamento   e   quello   dell'esecuzione,
rispondente  ad  un  principio  di   ordine   pubblico   processuale,
derogabile solo per effetto di una specifica previsione  normativa  o
per effetto  della  prevalenza  del  diritto  comunitario  su  quello
nazionale, come in materia di clausole abusive; 
        4. l'inidoneita' del rimedio  della  revoca  o  modifica  del
provvedimento cautelare di cui  all'art.  669-decies  del  codice  di
procedura civile a far fronte al problema in esame. E cio' in  quanto
la  sopravvenuta  esorbitanza  della  penale  non   potrebbe   essere
configurabile, per la sua configurazione ontologica,  quale  modifica
delle circostanze iniziali. 
    Trattasi, infatti, a bene vedere, non di un mutamento del  quadro
fattuale che ha presieduto all'emanazione del  provvedimento  e  che,
dunque, ha costituto parte integrante della base cognitoria,  assunta
a fondamento del provvedimento, ma di una aspetto diverso, ovvero  di
una sopravvenienza di natura fattuale per  cosi'  dire  «estrinseca»,
perche' non inerente al fatto  storico  che  ha  mosso  alla  propria
determinazione il giudice  cautelare,  bensi'  alle  conseguenze  che
l'ordinamento, per il tramite della statuizione giudiziale, ricollega
al fatto ed, in  particolare,  alla  modulazione  quantitativa  della
misura irrogata, in conseguenza dell'accertamento fattuale compiuto. 
    Sotto altro aspetto,  trattasi  di  un  profilo  -  quella  della
entita' massima richiedibile e  irrogabile  -  che  si  correla  alla
durata  temporale  della  misura;  aspetto   tal   ultimo   che   era
suscettibile di  essere  ponderato  gia'  nel  momento  genetico,  di
emissione del provvedimento e che,  dunque,  esula  dal  concetto  di
modifica del quadro fattuale. 
    In tal senso, e' richiamabile anche Tribunale  Verona,  4  agosto
2001, secondo cui «il semplice decorso del tempo, in quanto  elemento
gia' valutabile da parte del giudice che ha emesso  il  provvedimento
cautelare o eventualmente del giudice del reclamo,  i  quali  possono
limitare nel tempo la durata di un'inibitoria, non costituisce di per
se mutamento nelle circostanze che legittimi il ricorso per revoca  o
modifica ex art. 669-decies del codice di procedura civile»; 
        5. la difficolta' di applicare il  principio  di  buona  fede
oggettiva al di fuori dell'esecuzione di un contratto o di un negozio
e, quindi, dell'ambio negoziale. D'altronde, l'art. 1374  del  codice
civile  che  disciplina  le  fonti  di  integrazione  del  contratto,
menzionando la legge, gli usi normativi e l'equita', quali  possibili
fonti del regolamento contrattuale, e' una norma  che  inerisce  alla
materia del contratto. 
    Cosi' gli articoli 1375 del  codice  civile  e  1175  del  codice
civile  concorrono   alla   disciplina   dello   «statuto   normativo
contrattuale» e non sarebbero applicabili al di fuori del  suo  alveo
genetico. 
    Inoltre,  l'effetto  tipico  dell'exceptio  doli  e'  quello   di
paralisi  della  pretesa  azionata   che   viene   per   cosi'   dire
«sterilizzata» e, anche ad ipotizzare che  la  buona  fede  oggettiva
possa rilevare quale fonte di responsabilita' aquiliana, appare arduo
riconoscere alla stessa un ruolo diverso da quello risarcitorio e, in
particolare, di carattere invalidatorio. 
    Nel caso di specie, a venire in rilievo e', invece, la  richiesta
di dare attuazione ad un  provvedimento  giurisdizionale  di  cui  la
parte istante e' beneficiaria; 
        6. la  non  qualificabilita'  dell'eccessiva  esosita'  della
penale quale fatto sopravvenuto che  sarebbe  idoneo  a  superare  la
tradizionale preclusione alla cognizione del Giudice  dell'esecuzione
di circostanze dedotte  (o,  semplicemente,  deducibili)  davanti  al
Giudice della cognizione. 
    A  ben  vedere,  si   obietta,   lo   squilibrio   dell'ammontare
complessivo della penale maturata rispetto all'interesse debitorio da
tutelare,  non  costituirebbe  una  circostanza  fattuale  idonea   a
stravolgere il quadro fattuale posto a fondamento del  provvedimento.
Cio', anche per  la  sua  intrinseca  componente  valutativa  che  ne
impedirebbe l'ascrizione al novero dei fatti in senso stretto; 
        5. la non estendibilita' del principio equitativo al  di  la'
delle ipotesi in cui  lo  stesso  e'  espressamente  richiamato,  non
potendosi,  peraltro,  prescindere  dall'esistenza   di   un'espressa
previsione di legge che ne legittimi il ricorso. 
    Dunque,  ritiene  sommessamente  questo  Giudice  che   non   sia
agevolmente  sperimentabile  la  possibilita'  di  un'interpretazione
costituzionalmente orientata. 
    Da  cio'  la  non  manifesta  infondatezza  della  questione   di
legittimita' costituzionale nei termini che si vanno a precisare. 
6.  Non  manifesta  infondatezza  della  questione  di   legittimita'
costituzionale  per  violazione  dei  principi  di  ragionevolezza  e
proporzionalita' ex art. 3 Cost. 
    6.1. Il  divieto  di  vincoli  perpetui  quale  declinazione  dei
principi de quibus 
    Invero,   la   mancata   previsione   dell'apponibilita',   anche
d'ufficio, di un tetto massimo, appare in contrasto con il  principio
di  ragionevolezza  -  declinazione  del   correlato   principio   di
eguaglianza ex art. 3  Cost.  -,  cosi'  come  con  il  principio  di
proporzionalita' delle sanzioni, quali - secondo  una  certa  opzione
ricostruttiva -  dovrebbero  ritenersi  anche  le  misure  coercitive
indirette. 
    D'altronde,  deve  ritenersi   irragionevole   e   sproporzionato
qualunque vincolo - quale parrebbe essere  quello  di  specie  -  con
caratteristiche di perpetuita'. 
    Una tale tipologia di vincolo - per  le  ragioni  che  si  va  ad
esplicitare  e  che  si  differenziano  a  seconda  dei   valori   di
riferimento - parrebbe porsi in contrasto anche con il  principio  di
liberta' negoziale di cui e', unanimemente, riconosciuto l'ancoraggio
costituzionale all'art. 42, comma 2, Cost.; nonche' con la tutela che
l'ordinamento, a vari livelli, riconosce al  diritto  dominicale.  E'
evidente, infatti, come una penale eccessiva vada  potenzialmente  ad
incidere anche sulla sfera patrimoniale  dell'obbligato,  venendo  lo
stesso esposto al pericolo di un'esecuzione mobiliare o immobiliare. 
    L'inammissibilita' dei vincoli perpetui - in  particolare  quelli
che limitano il diritto di proprieta' ma anche la sfera  patrimoniale
o negoziale delle  parti  -  risponde  ad  un  principio  consolidato
nell'ordinamento  italiano,  basato  sulla  necessita'   di   evitare
restrizioni  eccessive  e  indefinite  nel  tempo  alle  facolta'  di
godimento e disposizione dei beni, cosi' come della  sfera  personale
dei soggetti dell'ordinamento. 
    Piu' in generale, questo principio emerge  da  diverse  norme  ma
anche dal panorama interpretativo, essendo molteplici le pronunce che
pervengono a dichiarare l'invalidita' di clausole negoziali che siano
preordinate a creare vincoli di durata  illimitata,  specialmente  se
inerenti a beni immobili. 
    Ne e' evidente la motivazione giuridica. 
    Il diritto di proprieta', sancito, come  noto,  dall'articolo  42
della Costituzione - quale valore di  rango  anche  sovranazionale  -
implica la conservazione della possibilita' per  il  proprietario  di
disporre liberamente del bene, godendone e  alienandolo.  Vincoli  di
carattere perpetuo tendono a limitare eccessivamente questa liberta',
svuotando il diritto  del  suo  contenuto  effettivo  e  venendosi  a
configurare, in alcuni casi, come una sorta di «espropriazione  senza
indennizzo». 
    Inoltre, da un punto vista sociale, vincoli perpetui  impediscono
l'adattamento a nuove situazioni, generando rigidita'  e  ostacolando
il progresso economico e sociale. 
    Dunque, il nostro  ordinamento  giuridico,  pur  riconoscendo  la
possibilita' di costituire vincoli, li subordina alla  temporaneita',
evitando cosi' situazioni di stallo e di  perpetua  compressione  dei
diritti individuali. 
    Costituiscono esempi paradigmatici di tale principio: 
        a) le servitu' irregolari. Sebbene sia  possibile  costituire
servitu' a favore di persone (servitu' irregolari),  il  vincolo  non
puo' essere perpetuo, ma deve essere temporaneo o legato alla  durata
della vita del beneficiario; 
        b) i vincoli urbanistici. Anche  in  materia  urbanistica,  i
vincoli imposti su immobili, sebbene necessari per la  pianificazione
del territorio, devono avere una durata  limitata  nel  tempo  e  non
possono essere perpetui. 
        c) convenzioni e contratti: 
    Le  clausole  che  prevedono  vincoli  perpetui  in  contratti  o
convenzioni,  come  ad  esempio  accordi  di  cessione  di   immobili
connotati dall'impressione agli stessi di  vincoli  di  destinazione,
sono considerate nulle. Anche in via interpretativa, sono frequenti i
riferimenti al principio in esame (Cfr. Corte appello Milano, n. 366,
del 1° febbraio 2012). 
    Come  evidenziato  dalla  difesa  dell'opponente,  lo  stesso  ha
origini autorevoli e datate anche a livello interpretativo. 
    Chiamata  a  pronunciarsi  sulla  questione  relativa   all'onere
testamentario di consentire in perpetuo l'utilizzo di un immobile  da
parte della  locale  parrocchia,  la  S.C.(20)  (estensore  Torrente)
stabili'  che  la  disposizione  controversa,  «se  configurata  come
un'obbligazione personale a  carattere  perpetuo»,  doveva  ritenersi
«nulla, anche se si parli di  obbligazione  reale  (...),  in  quanto
disintegra in perpetuo il diritto di  proprieta'  dal  suo  contenuto
economico». Essa fu invece «salvata» mediante  la  qualificazione  di
essa, non gia' come una obligatio propter rem, che non si sottrae, in
quanto rapporto  obbligatorio  vero  e  proprio,  alla  regola  della
temporaneita',  bensi',  accogliendo  la  soluzione  prospettata   da
autorevole  dottrine  (F.  Salvi,  Perpetuita'  di  un   diritto   di
godimento? , in Riv. trim.  dir.  proc.  civ.  ,  1949,  192  ss.  in
particolare p. 201  ss.)  come  «attributiva  di  un  diritto  d'uso,
naturalmente limitato al tempo massimo stabilito dalla legge». 
    In  materia  d'inammissibilita'  di   un   vincolo   obbligatorio
perpetuo, e' ritornata la Corte di cassazione affermando: «Nel nostro
sistema positivo e' inammissibile un vincolo obbligatorio,  destinato
a durare all'infinito, senza che sia possibile al debitore o ai  suoi
successori la possibilita' di liberarsene» (Cass. Sez. II, 30  luglio
1984, n. 4530. Sulla stessa scia si e' posta sempre la giurisprudenza
di legittimita' allorche' piu' di recente (Cass., 20 settembre  1995,
n. 9975) ha affermato la nullita' dei contratti atipici istitutivi di
obbligazioni destinate a durare indefinitamente nel tempo, in  quanto
non meritevoli di tutela ai sensi dell'ordinamento giuridico. 
    Peraltro, nel  caso  di  specie,  il  sequestro  giudiziario  con
finalita' probatorie aveva esaurito il suo  compito,  in  quanto  nel
giudizio  di  merito  si   era   gia'   proceduto   al   conferimento
dell'incarico peritale  sulla  base  della  documentazione  per  come
rinvenuta e consegnata. 
    Detto principio e' stato di recente  ribadito  da  Corte  appello
Bari Sez. I,  7  luglio  2022,  n.  1148  secondo  cui:  «Nel  nostro
ordinamento, vige il principio della generale inammissibilita'  delle
obbligazioni  perpetue,  il  quale  non  consente  ai   soggetti   la
possibilita' di vincolarsi ad vitam, giustificandosi,  per  converso,
la perpetuita' del diritto soltanto dove non si ponga un problema  di
soggetti vincolati a tempo indeterminato, come nella fattispecie  del
diritto di proprieta'». 
    In  sintesi,  l'inammissibilita'  dei  vincoli  perpetui  e'   un
principio fondamentale del nostro ordinamento giuridico  che  mira  a
garantire la liberta' e la flessibilita'  nella  gestione  dei  beni,
evitando restrizioni eccessive e dannose per  il  singolo  e  per  la
societa' nel suo complesso. 
    E'  evidente  come  lo  stesso  rinvenga  il  proprio  fondamento
costituzionale nel principio di ragionevolezza, ma, al contempo,  nei
principi di tutela della proprieta'  e  di  liberta'  dell'iniziativa
economica ex art. 41 Cost., comma 2, di  cui  la  liberta'  negoziale
costituisce logico corollario. 
    Nel caso dell'astreintes, a venire in rilievo sembrerebbe essere,
in  particolare,  tale  primo  profilo.  Cio',  specie  per  la  gia'
evidenziata potenziale attitudine della stessa a incidere sulla sfera
dominicale del debitore  inadempiente,  nella  prospettiva  tanto  di
un'esecuzione mobiliare, quanto di un'esecuzione immobiliare. 
    6.2. Ricostruzione dei principi alla  luce  della  giurisprudenza
costituzionale 
    6.2.1. Il principio di ragionevolezza 
    Tornando ai principi di cui all'art. 3 Cost. cui sopra, sotto  il
profilo  del  rispetto  del  primo  di  essi,  proprio  di   recente,
autorevole  dottrina  ha  affermato  che  «l'attuale   controllo   di
costituzionalita'   e'   totalmente   pervaso   dal   metodo    della
ragionevolezza: e' un controllo di ragionevolezza»(21). 
    D'altronde,  a  fronte  dell'indubbio  dinamismo   interpretativo
indotto dal principio de quo, e'  innegabile  l'indispensabilita'  di
tale categoria e la sua correlazione con quello di  proporzionalita':
ragionevole e' qualunque opzione esegetica sia idonea a realizzare un
equo  contemperamento  degli  interessi  in  gioco,  imponendone   un
sacrificio non sproporzionato. E, nel  caso  di  specie,  gli  stessi
coincidono, da un lato, con l'esigenza del  debitore  di  non  subire
esecuzioni  sproporzionate  rispetto  alla  consistenza  quantitativa
della pretesa creditoria azionata; dall'altro,  con  l'interesse  del
creditore  a  conservare  lo  strumento  processuale,   astrattamente
preordinato alla sua attuazione coattiva(22). 
    In cio' e' evidente la stretta connessione tra  ragionevolezza  e
equita' cui,  senza  dubbio,  nell'attuale  assetto  ordinamentale  e
interpretativo, devono riconoscersi spazi operativi ben piu' ampi  di
quelli consegnati dalla tradizione  giuridica  che  vedeva  l'equita'
confinata alle  ipotesi  in  cui  il  legislatore  avesse  consentito
espressamente il ricorso ad essa (c.d. equita' secundum legem). 
    Ragionevolezza e equita' sono clausole  generali  che  consentono
all'ordinamento   -   unitamente   ai   principi   personalistico   e
solidaristico ex art. 2 Cost. - di  adattarsi  alla  molteplicita'  e
novita' delle istanze di tutela, provenienti dal corpo sociale  cosi'
come dal tessuto costituzionale,  smussando  il  rigore  del  diritto
positivo e  assicurandone  la  tenuta  costituzionale.  Oppure,  piu'
semplicemente, possono risultare idonei ad assicurare un  equilibrato
bilanciamento fra valori  confliggenti,  individuando,  di  volta  in
volta, modalita' di composizione adeguate alla fattispecie di cui  si
imponga la definizione giudiziale. 
    Invero, la ricerca  di  un  contemperamento  -  equo  e,  dunque,
ragionevole   -   degli   interessi   in   gioco,   con   conseguente
valorizzazione  delle  caratteristiche  delle   singole   fattispecie
(astratte)  poste  all'attenzione  del  Giudice  delle  leggi,  e'  a
fondamento di molteplici recenti sentenze delle Corte adita. 
    Cosi', in Corte cost. n. 88 del 2023, in cui veniva in rilievo un
reato  di  lieve  entita'  commesso  da  un  immigrato  che   avrebbe
comportato l'esclusione del rinnovo del  permesso  di  soggiorno  per
lavoro,  la  Corte  ha  valorizzato  l'argomento  fondato  sulla  non
opportunita' di sradicare lo straniero dal luogo in cui ha  costruito
significativi rapporti sociali, lavorativi e familiari. 
    L'applicazione,   secondo   criteri   di   automaticita',   della
previsione  normativa,  sindacata  in  punto  di   costituzionalita',
avrebbe originato un esito, oggettivamente, iniquo. 
    Da cio' la necessita' di considerare  gli  elementi,  connotativi
della specifica situazione di fatto, tra i quali il  tempo  trascorso
dalla commissione del reato, il percorso rieducativo compiuto dal suo
autore, il suo radicamento nel tessuto sociale. 
    Ispirata a evidenti esigenze equitative  e'  anche  la  soluzione
fatta propria da Corte cost. n. 177 del 2023, in cui  l'ill.ma  Corte
adita e' pervenuta ad escludere che sia ammissibile  la  consegna  in
esecuzione di un mandato di arresto europeo di  una  persona,  quando
questa versi in gravi condizioni di salute. Seguendo una  concorrente
traiettoria   argomentativa   e   richiamando    la    giurisprudenza
sovranazionale,   ha   evidenziato   come    l'esecuzione    suddetta
originerebbe in un  trattamento  disumano  e  degradante,  come  tale
vietato dall'art. 4 della Carta dei diritti dell'Unione. 
    Dello stesso tenore e' anche la n.  178  del  2023,  secondo  cui
l'art. 18-bis, comma I,  lettera  c),  legge  n.  69  del  2005  deve
considerarsi illegittimo «nella parte in cui non prevede che la corte
d'appello possa  rifiutare  la  consegna  di  una  persona  ricercata
cittadina di uno Stato terzo, che  legittimamente  ed  effettivamente
abbia  residenza   o   dimora   nel   territorio   italiano   e   sia
sufficientemente  integrata  in  Italia,  nei  sensi   precisati   in
motivazione, sempre che la Corte d'appello disponga che la pena o  la
misura di sicurezza sia eseguita in Italia». 
    E' richiamabile anche Corte cost. n. 86 del 2024, in  materia  di
rapina  impropria,   aggravata   dalla   pluralita'   degli   autori,
concernente  beni  di   esiguo   valore   economico,   ha   giudicato
irragionevole il minimo edittale di «notevole asprezza» previsto  per
la fattispecie de qua. 
    E cio' non perche' lo stesso sia considerato in se'  e  per  se',
bensi' in relazione al frutto del reato suddetto. 
    Il  Giudice  delle  leggi  invoca  il  concetto  di  «valvola  di
sicurezza»,  che  sarebbe  costituzionalmente  imposta  al  fine   di
consentire al giudice a quo, che se ne  duole,  di  poter  far  luogo
all'applicazione di un trattamento punitivo congruo e, dunque,  equo,
in rapporto alla specificita' del caso di specie.  Cio',  specie,  in
virtu' dei principi di «individualizzazione»  e,  quindi,  necessaria
personalizzazione  della  pena  e  della  finalita'  rieducativa   di
quest'ultima. 
    Al giudice de quo deve essere  consentito  di  poter  riconoscere
giuridico rilievo a circostanze di  fatto  aventi  natura  oggettiva,
come le modalita' di commissione del reato, l'eta'  e  le  condizioni
psico-fisiche  della  vittima,   la   reiterazione   della   condotta
criminosa, l'entita' del danno, e via dicendo. 
    Medesima ratio ispirativa  parrebbe  essere  quella  della  Corte
cost. n. 91 del 2024, intervenuta in  relazione  alla  produzione  di
materiale pedopornografico, laddove parimenti la censura investiva la
mancata previsione dell'attenuante per i  fatti  criminosi  di  lieve
entita'. 
    Con la sentenza n. 122 del 2014,  poi,  la  Corte  ha  dichiarato
l'illegittimita'  costituzionale  del  disposto   di   cui   all'art.
2-quinquies, comma 1, lettera a), decreto-legge n. 151 del 2008,  che
negava i benefici ai  superstiti  delle  vittime  della  criminalita'
organizzata, se parenti o affini entro il quarto  grado  di  soggetti
nei cui riguardi sia in  corso  un  procedimento  per  l'applicazione
ovvero sia applicata una misura di prevenzione, di cui alla legge  n.
575 del 1965 e successive  modifiche,  ovvero  di  soggetti  nei  cui
confronti sia in corso un procedimento penale per uno dei delitti  di
cui  all'art.  51,  comma  3-bis,  c.p.p.  La  Corte  ha   dichiarato
l'irragionevolezza   della   norma    de    qua,    che    penalizza,
irragionevolmente, proprio le persone  maggiormente  meritevoli  che,
pur  legate  da  vincoli  di  parentela  o   affinita'   a   soggetti
appartenenti alla  criminalita'  organizzata,  ne  abbiano  preso  le
distanze. 
    Nondimeno, chi richieda  elargizioni  o  assegni  vitalizi,  deve
fornire la  prova  della  estraneita'  all'organizzazione  criminale,
cosi' come di tenere «una condotta di vita antitetica  al  codice  di
comportamento delle organizzazioni malavitose». 
    Dunque,  evocando,  ancora  una  volta,  la  necessita'   di   un
accertamento case by case, il giudice e' chiamato ad «una  penetrante
verifica» della sussistenza delle condizioni previste dalla  legge  e
dell'adempimento  del   «rigoroso   onere   probatorio   imposto   al
beneficiario». 
    Anche al di  fuori  della  materia  penale,  peraltro,  risultano
essere non  poche  le  ipotesi  nelle  quali  la  Corte  ha  posto  a
fondamento l'equita', come esigenza di un ragionevole contemperamento
degli interessi in gioco e, dunque, indirettamente, il  principio  di
ragionevolezza. A titolo esemplificativo, si v. la sent. n.  183  del
2023, in materia di regime applicabile ai minori dati in  adozione  e
ai loro rapporti con la famiglia di origine. 
    L'ill.ma Corte adita ha voluto distinguere fra legami, di  natura
legale  formale,  con  la  famiglia  suddetta,  recisi  per   effetto
dell'adozione, e i legami affettivi che,  invece,  possono  e  devono
essere preservati ogniqualvolta cio' sia consigliato  dal  preminente
interesse del minore. Da cio', l'enucleazione del diritto secondo cui
l'identita'  del  minore  non  risulta   «compatibile   con   modelli
rigidamente  astratti  e  con   presunzioni   assolute,   del   tutto
insensibili alla complessita' delle situazioni personali». 
    6.2.2. Il principio di proporzionalita' 
    Cosi' non  puo'  sottacersi  come,  nel  contesto  decisorio  del
giudice delle leggi, abbia assunto un'importanza  primaria  anche  il
principio di proporzionalita'. 
    Concepito  in  origine  nell'alveo  del  diritto   amministrativo
prussiano, successivamente  estesosi  in  altri  ambiti  del  diritto
tedesco, ha fatto ingresso, da ultimo, nel giudizio  di  legittimita'
costituzionale in materia di diritti  fondamentali,  ponendosi  quale
strumento fondamentale del giudizio di bilanciamento. 
    Per esigenze di  economia  espositiva,  deve  precisarsi  che  il
giudizio di proporzionalita', in sede di sindacato  di  legittimita',
si articola in quattro diversi momenti: 
        quello di «legittimita'», volto ad  accertare  che  la  norma
sindacata sia conforme all'impianto costituzionale; 
        il secondo traducentisi in una  valutazione  sub  specie  del
profilo  dell'efficienza,  ovvero  della  relazione  (quantitativa  e
qualitativa) tra  mezzi-fini,  cosi'  da  verificare  che  sia  stata
garantita una «connessione razionale» tra i mezzi cui sia ricorso  il
legislatore e gli obiettivi perseguiti; 
        l'accertamento della «necessita'» della  scelta  legislativa,
ovvero   della   sua   imprescindibilita'   e   (eventualmente)   non
differibilita'; 
        la quarta fase e' quella  della  «proporzionalita'  in  senso
stretto» preordinato a verificare che l'obiettivo avuto di  mira  sia
stato perseguito, recando il  minor  sacrificio  possibile  di  altri
diritti o interessi costituzionalmente protetti; 
    Come acutamente sottolineato, tal ultima momento e'  quello  piu'
complesso, esigendo che «il giudice spalanchi lo  sguardo  delle  sue
valutazioni,  fino  a  proiettarsi   sull'impatto   effettivo   della
legislazione sottoposta al suo esame: cio'  richiede  una  conoscenza
del dato di esperienza reale che la legge disciplina, che  supera  di
gran lunga il dato giuridico positivo, strettamente inteso».  E'  «in
questa dimensione esperienziale» che il giudice e' chiamato a cio' in
cui si sostanzia ogni operazione  esegetica  ovvero  una  valutazione
comparativa degli interessi in gioco, spesso, di  segno  contrastante
e, dunque, conflittuali. 
    Questa nozione di proporzionalita' di origine tedesca, in cui  e'
evidente  la  genesi  del  pensiero  di  Robert  Alexy,  risulta   di
particolare diffusione sulla scena internazionale. 
    Orbene, il principio di proporzionalita' e'  spesso  evocato  dal
Giudice delle  leggi,  insieme  al  principio  di  ragionevolezza  o,
qualche volta, quale concetto sovrapponibile a  questo  secondo;  non
essendo  infrequente  l'affermazione  per   cui   il   principio   di
proporzionalita' «rappresenta una diretta  espressione  del  generale
canone di ragionevolezza»11 . 
    Come acutamente  evidenziato  dalla  dottrina  costituzionalista,
accade spesso che la Corte «effettui una valutazione di congruenza  e
adeguatezza del mezzo rispetto al fine12 ; cosi'  come  da  tempo  e'
entrato nei giudizi della Corte costituzionale il  bilanciamento  dei
valori, che molto si avvicina alla fase  della  "proporzionalita'  in
senso  stretto",  specie  nei   casi   che   riguardano   i   diritti
fondamentali13 ». 
    Una delle ipotesi che appare  maggiormente  idonea  a  richiamare
quella complessita' diacronica che il test di proporzionalita' assume
al di fuori del contesto italiano, e' rappresentata dalla sentenza in
materia mandato di arresto europeo, in cui  il  Giudice  delle  leggi
Corte ha affermato che: «Il divieto  di  discriminazione  sulla  base
della nazionalita' consente si' di differenziare  la  situazione  del
cittadino di uno Stato  membro  dell'Unione  rispetto  a  quella  del
cittadino di un altro Stato membro, ma la differenza  di  trattamento
deve avere una giustificazione legittima e ragionevole, sottoposta ad
un  rigoroso  test   di   proporzionalita'   rispetto   all'obiettivo
perseguito [...]»14 . 
    Il  principio  di  proporzionalita',  al  pari   di   quello   di
ragionevolezza ed equita', costituiscono oramai ratio  decidendi  del
giudice  ordinario  di  merito  e  di   legittimita',   conformandone
costantemente    l'attivita'     esegetica.     Cio',     ovviamente,
nell'amministrazione di quegli spazi di discrezionalita' che gli sono
lasciati dal dettato normativo. 
    Cosi' costituisce parametro  frequente  ai  fini  del  vaglio  di
costituzionalita' delle leggi ordinarie, rimesse  all'attenzione  del
Giudice delle leggi. 
    6.2.3. La peculiarita' della disciplina del caso di specie 
    Orbene,  venendo  al  caso   di   specie,   con   riguardo   alla
ragionevolezza della disciplina de qua, la dottrina ha  stigmatizzato
la   mancata   regolamentazione   di    un    momento    processuale,
specificatamente, deputato alla liquidazione della penalita'. 
    In cio', non esiste contiguita'  con  il  modello  francese  che,
invece, si fonda sul riconoscimento della facolta' per  le  parti  di
rivolgersi al giudice dell'esecuzione. 
    Ne consegue che la sua liquidazione,  seppur  indirettamente,  e'
stata, irragionevolmente,  affidata  allo  stesso  creditore  su  cui
incombe  l'onere  di  specificare  l'importo  maturato  nell'atto  di
precetto, con conseguente alimentazione del contenzioso  in  sede  di
opposizione all'esecuzione. 
    Invero, in  via  interpretativa,  vi  e'  anche  chi  ritiene  di
sovvenire a tale carenza  dell'apparato  rimediale,  prefigurato  dal
legislatore, riconoscendo al creditore la facolta'  e,  al  contempo,
l'onere di  adire  il  giudice  del  c.d.  giudizio  presupposto  per
conseguire  una  liquidazione  ex  post  dell'ammontare  dovuto,  con
conseguente  aggravamento  dell'iter   procedurale   necessario   per
conseguire l'agognata tutela. 
    Cio', nel (discutibile)  presupposto  teorico  che  difetti  quel
requisito  di  necessaria  liquidita',  prescritto  ai   fini   della
validita' di ogni titolo provvisto di efficacia esecutiva;  efficacia
che, pero' -  come  evidenziato  da  autorevole  dottrina  -,  l'art.
614-bis del codice di procedura civile riconosce, espressamente, alla
misura de qua fin dal suo momento genetico. 
    Per contro, al giudice dell'esecuzione non e' stato  riconosciuto
un ruolo «piu' consono alla sua natura, ovvero  quello  di  liquidare
l'importo della somma dovuta quando l'inottemperanza al provvedimento
di condanna si e' gia' manifestato, si' da tarare la  penalita'  alla
luce del concreto evolversi dei rapporti». 
    Dunque, attualmente,  l'art.  614-bis  del  codice  di  procedura
civile non prefigura una fase liquidatoria del  provvedimento  emesso
dal giudice della cognizione insieme alla condanna. 
    Evidenzia, invece, la difesa  dell'opponente  come  «il  giudizio
d'efficacia dell'astreinte deve essere un giudizio razionale da parte
del giudice, dovendo verificare se sussiste in concreto un nesso  tra
l'impiego   della   misura   e   il    raggiungimento    del    fine,
contestualizzando  nella  realta'  patrimoniale  del  debitore,   che
ovviamente muta caso per caso, la  misura  coercitiva  da  adottarsi,
verificando il nesso fra mezzo e  scopo,  rendendola  cosi'  un  mero
giudizio  di  efficacia».  Nondimeno,  non   consentendo   la   norma
l'apposizione di un  limite  temporale  o  quantitativo  massimo,  la
misura  risulta  «applicabile  sine  die»,  dando   luogo   ad   «una
obbligazione  a  carattere  sanzionatorio   sproporzionata   rispetto
all'originaria obbligazione inadempiuta». 
    Inoltre,  se  e'  vero  che  le  Sezioni  Unite  della  Corte  di
cassazione (Cassazione civile sez. un. , 5 luglio 2017, n.  16601(23)
hanno riconosciuto la polifunzionalita' della responsabilita' civile,
alla quale sono interne anche finalita' sanzionatorie  e  deterrenti;
nondimeno,  la   pronuncia   ha   indicato,   quali   condizioni   di
delibabilita' delle pronunce di condanna ai punitive  damages,  oltre
alla necessita' che esse siano emesse «sulla scorta di basi normative
adeguate, che rispondano ai principi di tipicita'  e  prevedibilita'»
(Cass. Sez. Un. civ., 5 luglio 2017, n. 16601) anche il rispetto  del
principio di proporzionalita' (espresso dall'art. 49 della Carta  dei
diritti   fondamentali   dell'Unione   europea).   Ora,   se    nella
ricostruzione della Corte la proporzionalita' e' riferita al rapporto
«tra risarcimento riparatorio-compensativo e risarcimento punitivo  e
tra quest'ultimo e la condotta censurata» (Sez. Un.  civ.,  5  luglio
2017, n. 16601),  il  principio  in esame  sembra  piu'  in  generale
esprimere l'esigenza  che  non  si  attribuisca  al  danneggiato  «un
rimedio risarcitorio che non gli compete perche' del tutto  privo  di
connessioni significative con la sua sfera giuridica sia  sostanziale
che processuale». 
    6.2.4.  I  profili  evidenziati  dalla   difesa   dell'opponente,
rappresentata dal prof. V. Farina 
    Secondo la difesa dell'opponente, alla luce delle considerazioni,
che precedono, e avuto riguardo all'attuale stato della normativa che
riconosce al G.E. solo la possibilita', ove non sia «stata  richiesta
nel processo di cognizione, ovvero il titolo esecutivo» sia  «diverso
da  un  provvedimento  di  condanna»  «la  somma  di  denaro   dovuta
dall'obbligato  per  ogni  violazione  o   inosservanza   o   ritardo
nell'esecuzione  del  provvedimento»  sia  «determinata  dal  giudice
dell'esecuzione,   su   ricorso   dell'avente   diritto,   dopo    la
notificazione del precetto», sembrerebbe ricorrere la violazione  sia
del  principio  di  proporzionalita'  che  di  ragionevolezza.  Come,
condivisibilmente,  evidenziato  dalla  difesa  dell'opponente,   «la
proporzionalita'   evoca,   sul   versante   dello    scrutinio    di
costituzionalita', una correlazione del mezzo rispetto al  fine,  nel
senso che, tra strumento normativo regolatore,  e  realizzazione  del
fine che con esso si intende perseguire, l'opera  di  "bilanciamento"
deve condurre ad un "equilibrato" componimento dei sacrifici». 
    La  Corte  «ha  affermato  che  l'automatismo   della   sanzione,
ricorrente nel caso di specie  nella  sua  staticita'  e  perduranza,
"offende quel  principio  di  proporzione  che  e'  alla  base  della
razionalita' che domina il principio di  eguaglianza  e  che  postula
l'adeguatezza della sanzione al caso concreto (sentenza  n.  297/1993
(Granata)». 
    Dunque,  evidenzia  parte  opponente,  come  «il   principio   di
proporzionalita' sembr(i)  idoneo,  di  concerto  con  il  canone  di
ragionevolezza ricavabile dall'art. 3 Cost., a limitare  la  facolta'
del  legislatore  ordinario  di  prevedere  spostamenti  patrimoniali
ingiustificati o, comunque, sproporzionati». 
    Sotto questo aspetto, un risarcimento punitivo o una sanzione - a
seconda della ricostruzione che se ne  voglia  accogliere  -  che  si
protraggano  «sine  die  per  come  confezionat(i)  dal  legislatore,
(paiono) non rispettos(i) di tali parametri e, quindi,  non  alien(i)
ad una censura di incostituzionalita'». 
    D'altronde, adottando una prospettiva risarcitoria, «la  Consulta
... ha a piu' riprese dichiarato l'incostituzionalita' di norme  che,
ponendo un massimale alla responsabilita'  di  determinati  soggetti,
ammettevano la possibilita' di un ristoro inferiore al danno e dunque
sottocompensativo. Ad opinione della Corte, infatti, tale limitazione
non assicurava ne' l'equo contemperamento degli  interessi  in  gioco
ne' il razionale perseguimento degli obiettivi pur  insindacabilmente
prefissati dal legislatore,  ponendosi  cosi'  in  contrasto  con  il
principio di  ragionevolezza  ricavabile  dall'art.  3  Cost.  (Corte
cost., 6 maggio 1985, n. 132, in  Foro  it.,  1985,  I,  1585;  Corte
cost., 22 novembre 1991, n. 420, ivi, 1992, I, 642)». 
    Di recente, in tal senso, e' richiamabile  Corte  costituzionale,
che con la sentenza n. 118/2025, ha  dichiarato  incostituzionale  il
limite massimo di sei mensilita' previsto dal decreto legislativo  n.
23 del 2015 per i lavoratori dipendenti delle piccole  imprese,  c.d.
sotto soglia, ossia quelle che occupano fino a 15 dipendenti per ogni
sede o unita'  produttiva  o  Comune,  e  comunque  non  piu'  di  60
dipendenti in totale. 
    Secondo la  Corte,  tale  limite  fisso  e  invalicabile  di  sei
mensilita' di retribuzione che  il  datore  di  lavoro  e'  tenuto  a
corrispondere al dipendente ove  il  licenziamento  sia  riconosciuto
illegittimo e' incostituzionale perche': 
        preclude al giudice di commisurare  il  rimedio  risarcitorio
alla gravita' del caso concreto; 
        ha l'effetto di rendere l'indennita' risarcitoria  inadeguata
e non congrua in rapporto al danno che il  lavoratore  potrebbe  aver
realmente subito; 
        dato l'importo  basso,  neutralizza  la  funzione  deterrente
della sanzione nei confronti del datore di lavoro. 
    Sottolinea, sempre, l'opponente come, «almeno in  linea  teorica,
quindi, ben potrebbe la Corte estendere il proprio vaglio anche  alle
norme    che,    specularmente,    prevedono     dei     risarcimenti
ultracompensativi.   I   parametri   applicabili    in    punto    di
proporzionalita' (e  ragionevolezza),  infatti,  sono  esattamente  i
medesimi». 
    Inoltre,  sotto  il  profilo  del  rispetto  del   principio   di
proporzionalita', «il ricorso a risarcimenti ultracompensativi per il
perseguimento  di  finalita'  regolatorie   generali   determina   il
riconoscimento, a beneficio del danneggiato, di un rimedio totalmente
privo di relazione con le modalita' con cui la sua sfera giuridica e'
stata intaccata». 
    Tale evenienza si e' concretizzata nel caso di  specie,  «ove  il
danneggiato  della  mancata  estensione  della   prova   rischia   di
conseguire  con  l'astreinte,  di   piu'   di   quello   che   potra'
(eventualmente)  conseguire  ove  la  domanda  risarcitoria   venisse
accolta». 
    Cio', «non sembra ammissibile nel nostro ordinamento,  nel  quale
la   responsabilita'   civile,   anche   alla   luce   dei   principi
costituzionali,  appare  improntata,  piu'   che   al   perseguimento
dell'efficienza di sistema, alla tutela dei diritti  secondo  logiche
di giustizia». Sottolinea ancora la difesa  dell'opponente,  come  «i
risarcimenti  sanzionatori  siffatti  assegnano  ai  danneggiati  che
agiscono in giudizio un  premio  per  essersi  fatti  carico  di  una
esigenza sociale di dissuasione, delegando una funzione pubblica a un
soggetto privato, che diviene una sorta di cacciatore di taglie, come
puntualmente rilevato dalla dottrina. 
    Tale aspetto «non e' sfuggito  alla  Corte  di  cassazione  della
Francia (luogo  di  nascita  dell'istituto).  Una  recente  pronuncia
[Cass.   2°   civ.,   20   janv.    2022,    n.    19-    23721    in
https://www.legifrance.gouv.fr/juri/id.]  ha   invocato   sul   punto
l'applicazione in materia della CEDU e del suo protocollo  n.  1,  in
quanto l'astreinte impone, nella fase  della  sua  liquidazione,  una
condanna pecuniaria al  debitore  dell'obbligazione,  che  e'  dunque
suscettibile di incidere su un interesse sostanziale di quest'ultimo,
nonostante non esista alcuna normativa  che  pregiudichi  il  diritto
degli  Stati  di  emanare  le  leggi  che  ritengano  necessarie  per
assicurare il pagamento di imposte, contributi o sanzioni.  Pertanto,
il Giudice di legittimita' Francese, con la pronuncia  del  2022,  ha
affermato che, se e' pur vero che l'astreinte non costituisce di  per
se' una misura contraria ai requisiti del protocollo n. 1 della  CEDU
in quanto prevista dalla legge e tende, nell'obiettivo di  una  buona
amministrazione della giustizia, a garantire  l'effettiva  esecuzione
delle decisioni giudiziarie entro un tempo ragionevole, si impone  al
giudice chiamato a liquidare la  misura,  in  caso  di  inadempimento
totale  o  parziale  dell'obbligazione,   di   tenere   conto   delle
difficolta' incontrate dal  debitore  nell'adempimento  e  della  sua
volonta' di rispettare l'ingiunzione. In definitiva, il  giudice  che
decide  sulla  liquidazione  di   un'astreinte   deve   valutare   la
proporzionalita'  della  violazione  dei  diritti  patrimoniali   del
debitore alla luce dello scopo legittimo che il creditore persegue». 
    Tornando al vaglio alla stregua del principio di  ragionevolezza,
evidenzia  ancora  la  difesa  dell'opponente,  come  «nota   e'   la
riconduzione del principio di ragionevolezza nell'ambito di quello di
eguaglianza sostanziale di cui  all'art.  3  della  Costituzione.  Ha
affermato La Corte costituzionale (sentenza n. 89  del  1996  ):  "Il
giudizio  di  eguaglianza,  ......,  e'  in  se'   un   giudizio   di
ragionevolezza, vale a dire un apprezzamento di  conformita'  tra  la
regola introdotta e la "causa" normativa che la deve  assistere:  ove
la disciplina positiva si discosti dalla funzione che  la  stessa  e'
chiamata a svolgere nel sistema  e  ometta,  quindi,  di  operare  il
doveroso  bilanciamento  dei  valori  che   in   concreto   risultano
coinvolti, sara' la  stessa  "ragione"  della  norma  a  venir  meno,
introducendo  una  selezione  di  regime  giuridico  priva  di  causa
giustificativa  e,  dunque,  fondata   su   scelte   arbitrarie   che
ineluttabilmente perturbano  il  canone  dell'eguaglianza>>enti,  che
possono avere  indotto  il  legislatore  a  formulare  una  specifica
opzione: se dall'analisi di tale motivazione scaturira'  la  verifica
di una carenza di "causa" o "ragione"  della  disciplina  introdotta,
allora  e  soltanto  allora  potra'  dirsi  realizzato  un  vizio  di
legittimita' costituzionale  della  norma,  proprio  perche'  fondato
sulla  "irragionevole"  e  per  cio'  stesso  arbitraria  scelta   di
introdurre un regime che necessariamente finisce  per  omologare  fra
loro  situazioni  diverse  o,  al  contrario,  per  differenziare  il
trattamento di situazioni analoghe». 
    Il sindacato de quo sembra riflettersi anche sul piano funzionale
della norma, chiamando l'interprete ad una operazione  di  «ermeneusi
teleologica»  non  facile,  soprattutto   in   presenza   di   prassi
legislative   nelle   quali   abbondano   «norme   intruse»,    norme
sintatticamente  ambigue,  norme  pletoriche  o,  addirittura,  norme
contraddittorie.   Cio'   premesso,   «l'attribuzione   patrimoniale,
infatti, appare giustificata  quando  la  sanzione  e'  funzionale  a
garantire l'interesse del soggetto a cui  spetta  il  provento  della
stessa. E l'esistenza di questo rapporto tra interesse e rimedio  che
assicura  la  proporzionalita'  (e,  dunque,  la  ragionevolezza)  di
quest'ultimo, non diversamente da quanto accade  in  tema  di  penale
(cfr. art. 1384 del codice civile)». 
    Cio'  premesso,  a  giudizio  di  questo   remittente,   non   e'
manifestamente infondata la questione  di  incostituzionalita'  della
norma, sotto il profilo del rispetto dei principi  di  ragionevolezza
Cost. e di proporzionalita' ex art. 3 Cost., specie, se si  consideri
che il debitore si puo' trovare  esposto  in  sede  esecutiva  ad  un
sacrificio, di gran lunga superiore rispetto al danno cagionato,  con
effetti sostanzialmente espropriativi della propria sfera giuridica. 
    Dunque,  l'assenza  di  un  limite   massimo   all'astreinte   (e
l'impossibilita' di chiedere la fissazione dello  stesso  al  Giudice
dell'esecuzione) possono comportare a un'eccessiva penalizzazione del
debitore, soprattutto se  l'obbligo  non  viene  adempiuto  in  tempi
ragionevoli. E l'irragionevolezza della norma deriva, peraltro, anche
dall'impossibilita',   o,   meglio,   dall'oggettiva   e    rilevante
difficolta',  per  il  debitore  inadempiente   di   richiedere   una
predeterminazione del massimo della misura, concretamente  esigibile,
al giudice della cognizione che, peraltro, non puo' valutare ex  ante
un  eventuale  profilo  di  esorbitanza  che  puo'   manifestarsi   e
apprezzarsi solo in sede esecutiva. 
    Dunque, imporre al destinatario della misura di richiedere che la
stessa sia tarata nei massimi fin  da  subito  appare  sproporzionato
rispetto ai suoi doveri di diligenza processuale. 
7.  Non  manifesta  infondatezza  della  questione  di   legittimita'
costituzionale per violazione dell'art. 42, comma 4,  Cost.,  nonche'
dell'articolo 117 Cost.,  come  integrato,  quale  norma  interposta,
dell'art. 1 del Protocollo 1 della Convenzione  europea  dei  diritti
dell'uomo (CEDU) 
    Il diritto di proprieta', sancito, come  noto,  dall'articolo  42
della Costituzione - quale valore di  rango  anche  sovranazionale  -
implica la conservazione della possibilita' per  il  proprietario  di
disporre liberamente del bene, godendone e  alienandolo.  Vincoli  di
carattere perpetuo tendono a limitare eccessivamente questa liberta',
svuotando il diritto  del  suo  contenuto  effettivo  e  venendosi  a
configurare, in alcuni casi, come una sorta di «espropriazione  senza
indennizzo».  Una  tale  tipologia  di  vincolo  parrebbe  porsi   in
contrasto anche con la tutela  che  l'ordinamento,  a  vari  livelli,
riconosce al diritto  dominicale.  E'  evidente,  infatti,  come  una
penale eccessiva vada potenzialmente ad incidere  anche  sulla  sfera
patrimoniale dell'obbligato, venendo lo stesso esposto al pericolo di
un'esecuzione mobiliare o immobiliare. 
    Vulnus che, data  la  natura  polistrutturata  della  tutela  del
dominium, nel contesto  di  un  ordinamento  multilivello,  quale  il
nostro, viene a tangere una pluralita' di disposizioni. 
    In particolare, l'art. 1 Protocollo 1 della  Convenzione  europea
prevede che: 
        «1. Ogni persona fisica o giuridica ha  diritto  al  rispetto
dei suoi beni. Nessuno puo' essere privato della  sua  proprieta'  se
non per causa di pubblica utilita' e nelle condizioni previste  dalla
legge e dai principi generali del diritto internazionale. 
        2. Le disposizioni  precedenti  non  portano  pregiudizio  al
diritto degli Stati di porre in vigore  le  leggi  da  essi  ritenute
necessarie  per  disciplinare  l'uso  dei  beni  in   modo   conforme
all'interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte  o
di altri contributi o delle ammende.» 
    La prima previsione ha portata generale e prescrive la tutela dei
beni della persona, la  seconda  si  riferisce  alle  condizioni  che
possono legittimare la privazione della liberta' e la terza,  invece,
concerne il  riconoscimento  allo  Stato  il  potere  di  normare  le
facolta'  di  godimento  dei  beni,  conformando  lo  stesso  secondo
l'interesse generale. 
    In particolare, la terza  ipotesi  contempla  provvedimenti  meno
incisivi di quello privativo della  proprieta'  e  ad  assicurare  il
pagamento di tasse ed imposte. 
    Invero, la Convenzione adotta un concetto di «bene»  peculiare  e
proprio solo del sistema convenzionale,  funzionale  all'applicazione
della procedura, concetto autonomo dalla legislazione nazionale. 
    La  nozione  convenzionale,  infatti,  comprende  sia   i   «beni
esistenti» sia i diritti patrimoniali, categoria che include anche  i
crediti in relazione ai quali il ricorrente puo' sostenere  di  avere
una situazione giuridica qualificabile come  «aspettativa  legittima»
(e, quindi, sia i diritti «in rem» che quelli «in personam»), nonche'
beni immobili e mobili (si pensi alla proprieta' intellettuale,  alle
licenze commerciali, alle clientele professionali ecc.). 
    Cio' posto, la circostanza che  la  legislazione  di  un  singolo
Stato non riconosca che un  particolare  interesse  sia  un  «diritto
patrimoniale» non preclude una diversa e opposta qualificazione  alla
stregua dell'articolo 1 del Protocollo n. 1. 
    Orbene,  al  fine  di  superare  il  vaglio   di   compatibilita'
convenzionale  -  l'ingerenza  dello  Stato  deve  soddisfare  alcuni
requisiti: e' necessaria la presenza di una  base  legale  che  abbia
giustificato l'interferenza stessa; tale base legale - se esistente -
deve avere uno scopo legittimo; in ultimo, qualora venisse  accertato
anche lo scopo legittimo della norma giustificatrice, si valutera' se
l'autorita' nazionale  competente  lo  abbia  perseguito  in  maniera
necessaria e proporzionale. 
    In sintesi, dunque, il  giudice  deve  verificare  se,  nel  caso
concreto, siano stati osservati i principii di legalita',  necessita'
e di proporzionalita', gia' menzionati. 
    Oltre ai  suddetti  requisiti  summenzionati,  ogni  limitazione,
apposta al diritto di proprieta' - in qualunque forma si attui che se
di  perdita,  restrizione  o  altre  interferenze   -   deve   essere
giustificata dall'interesse pubblico o dall'interesse generale. 
    Le due espressioni sono contemplate dal  primo  e  secondo  comma
dell'art. 1 Protocollo n. 1 e  sono  equipollenti  sotto  il  profilo
semantico. 
    Invero, la Convenzione non definisce i due concetti,  perche'  la
Corte riconosce in proposito agli stati un margine di apprezzamento. 
    In base al sistema di  protezione  stabilito  dalla  Convenzione,
difatti,  spetta  alle  autorita'   nazionali   compiere   l'iniziale
valutazione dell'esistenza di un problema di interesse  pubblico  che
giustifichi misure di privazione della proprieta' o di ingerenza  nel
pacifico godimento di «beni». 
    In particolare, nel caso della protezione della proprieta',  tale
margine e' legato alla considerazione di interessi politici, sociali,
economici o di altro genere (si pensi alla protezione  dell'ambiente,
all'equilibrio del bilancio generale  dello  stato,  alla  fissazione
delle priorita' nell'impegno delle risorse pubbliche disponibili). 
    Cio' posto, si  comprende  come  detta  discrezionalita'  statale
diventa ampia quando  si  tratta  di  interventi  di  grande  portata
legislativa, quali quelli per la realizzazione di politiche sociali o
per la regolamentazione delle conseguenze dovute al cambiamento di un
regime politico o, ancora,  nell'adozione  di  misure  finalizzate  a
tutelare  le  risorse  finanziarie  pubbliche  o  di  una  differente
assegnazione  di  fondi  o  nel  contesto  di  misure  di  austerita'
sollecitate da un'importante crisi economica. 
    Si badi bene, tuttavia, che cio' non vuol dire che  tutto  quello
che viene ricondotto - nei vari periodi  storici  -  dalle  autorita'
nazionali nel concetto di «pubblica utilita'» non sia in  alcun  modo
sindacabile e,  quindi,  valutabile  convenzionalmente  solo  perche'
rientrante nel margine di apprezzamento  statale  riconosciuto  dalla
Convenzione.  Anche  in  tali  casi,  difatti,  sussiste  il   limite
rappresentato dalla manifesta irragionevolezza dell'intervento  dello
Stato(24). 
    Cio' premesso, la mancata  previsione  dell'apponibilita',  anche
d'ufficio, di un tetto massimo, appare in  contrasto  oltre  che  con
l'art. 42, comma 4, Cost.,  in  materia  di  diritto  di  proprieta',
nonche'  con  l'articolo  117  Cost.,  come  integrato,  quale  norma
interposta, dall'art. 1 del Protocollo 1della Convenzione Europea dei
Diritti dell'Uomo (CEDU), nonche' dell'articolo 6 che  garantisce  il
diritto a un processo equo. 
    Per   principio   interpretativo   consolidato,    le    sanzioni
sproporzionate possono configurare una violazione  della  Convenzione
europea dei diritti dell'uomo (CEDU), in particolare, dell'articolo 1
del Protocollo 1, che tutela il diritto di proprieta'. 
    La Corte europea dei diritti  dell'uomo  (Corte  EDU)  valuta  la
proporzionalita'  delle  sanzioni,  considerando  la  gravita'  della
violazione, le conseguenze  per  l'individuo  e  la  finalita'  della
sanzione. 
    Sotto il profilo della violazione dell'articolo 1 del  Protocollo
1 CEDU, rubricato come Protezione della proprieta',  le  sanzioni  di
natura pecuniaria, in particolare, possono interferire sul diritto di
proprieta',  ogniqualvolta  impediscano,   illegittimamente   perche'
sproporzionate, l'utilizzo della  proprieta'  per  le  sue  finalita'
tipiche oppure la sanzione sia  cosi'  elevata  da  compromettere  il
patrimonio del sanzionato. 
8.  Non  manifesta  infondatezza  della  questione  di   legittimita'
costituzionale per violazione del  principio  di  effettivita'  della
tutela giurisdizionale ex articoli 24, 111 Cost. e 47 CDFUE,  nonche'
dell'117  Cost.,  come  integrato,  quali  norme  interposte,   dagli
articoli 6 e 13 Cedu 
    La disciplina nazionale, nella misura in cui non consentirebbe di
liberarsi  da  un  vincolo  proiettato  indirettamente   nel   tempo,
sembrerebbe porsi in contrasto anche con il principio di effettivita'
della   tutela   giurisdizionale   che   ha   fondamento    normativo
costituzionale ex articoli  24,  111  Cost.,  nonche'  comunitario  e
convenzionale ex articoli 6, 13 Cedu e 47 CDFUE. 
    Il tradizionale diritto di azione, quale situazione giuridica cui
riconoscere diretta  e  immediata  precettivita'  -  e  non  piu'  da
ricostruirsi in chiave meramente programmatica - implica non solo  la
garanzia dell'accesso  alla  tutela  giurisdizionale,  ma  che  siano
apprestate idonee forme di garanzia processuale. 
    Tale diritto si e' dotato di altre basi giuridiche in conseguenza
dell'evoluzione ordinamentale e dello stratificarsi di altri  livelli
di tutela  a  livello  sovranazionale  che  ne  hanno,  al  contempo,
arricchito la portata contenutistica e le potenzialita' operative. 
    Alcune di esse, come noto, non rilevano, direttamente, nel nostro
ordinamento, quali parametri di commisurazione della validita'  delle
norme interne, svolgendo, pero', il ruolo di norme interposte ai fini
del vaglio  di  costituzionalita';  altre  godono,  invece,  di  tale
peculiare condizione giuridica, riassumibile nel concetto di  diretta
applicabilita' e di primazia rispetto al diritto nazionale. 
    Al novero delle prime sono riconducibili le norme della Cedu, che
anche  dopo  l'approvazione  del  Trattato   di   Lisbona,   che   ha
comunitarizzato la Carta  di  Nizza,  sono  improduttive  di  effetti
diretti  nei  singoli   sistemi   nazionali,   rilevando,   comunque,
indirettamente, quale contenuto precettivo  idoneo  a  sostanziare  i
c.d. principi generali del diritto comunitario. 
    Alle seconde sono, invece, ascrivibili  le  norme  dettate  dalla
Cdfue. 
    In particolare, sotto il primo versante, e'  richiamabile  l'art.
13 della CEDU sancisce il diritto ad un ricorso effettivo a favore di
ogni persona i  cui  diritti  e  liberta'  fondamentali  siano  stati
violati. 
    Di recente, lo stesso, a livello di  legislazione  ordinaria,  e'
stato codificato dall'art. 1 c.p.a.,  secondo  cui  lo  stesso  «deve
assicurare una tutela piena ed effettiva  secondo  i  principi  della
Costituzione e del diritto europeo». 
    Il principio de  quo  assume  un  rilievo  primario  nel  sistema
processuale sia nazionale sia sovranazionale, rappresentando non solo
un vincolo destinato a orientare e, a volte, anche  a  conformare  le
scelte del legislatore,  nel  modulare  gli  strumenti  di  tutela  a
presidio  della  sfera  giuridica  dei  singoli,  ma  anche  uno  dei
parametri cui deve attenersi il Giudice,  nella  ricostruzione  della
portata precettiva delle norme, al fine di consentire la massimazione
del risultato di tutela, conseguibile da chi lo  abbia  investito  di
una determinata controversia. 
    Nel caso di specie, e',  altresi',  configurabile  la  violazione
dell'articolo 6 Cedu che garantisce il diritto a un processo equo, da
intendersi  quale  meccanismo  processuale  idoneo  a  consentire  al
ricorrente o all'attore il conseguimento dell'anelata tutela,  se  ne
ricorrano i  presupposti;  cosi'  come  al  convenuto  di  difendersi
adeguatamente. 
    Invero,  il  principio  del  giusto   processo   ha   conosciuto,
inizialmente, a livello interpretativo, una declinazione  in  termini
di mera adeguatezza delle regole processuali in  termini  di  parita'
delle armi e  di  ragionevole  durata,  cosi'  come  di  terzieta'  e
imparzialita' del giudice, investito della controversia. 
    Si e' affermato, condivisibilmente,  che  «il  suo  potenziamento
pertanto, all'interno del processo unionale, richiede da un  lato  la
garanzia  di  un  accesso   ragionevolmente   agevole   alla   tutela
giurisdizionale, da realizzarsi attraverso la previsione di titoli di
giurisdizione uniformi e dall'altro, la garanzia di un'efficacia  non
meramente domestica dell'accertamento compiuto dal giudice, cioe'  la
possibilita' di far valere ovunque in Europa le posizioni  giuridiche
oggetto di tale accertamento». 
    Solo, successivamente, anche  grazie  alla  virtuosa  sinergia  -
sotto il profilo interno allo stesso sistema Cedu, con  l'art.  13  e
sotto quello esterno con le pronunce della  Cge  -  il  principio  ha
iniziato ad abbracciare l'idea della stessa idoneita'  della  singola
vicenda processuale a consentire l'effettiva soddisfazione  del  bene
della vita anelito. 
    Costituisce, seppur indirettamente, indizio sintomatico  di  tale
modifica del profilo funzionale della norma, la  stessa  formulazione
dell'art. 111 Cost. introdotto dalla legge costituzionale  n.  1  del
1999 proprio  per  dare  attuazione,  a  livello  costituzionale,  al
principio convenzionale del giusto processo. 
    Dispone, infatti, l'art.  111  che  «la  giurisdizione  si  attua
mediante il giusto processo regolato dalla legge.  Ogni  processo  si
svolge nel contraddittorio tra le parti, in  condizioni  di  parita',
davanti a giudice  terzo  e  imparziale.  La  legge  ne  assicura  la
ragionevole durata». 
    D'altronde, lo stesso art. 6 Cedu ha, fin  dall'inizio,  adottato
una formulazione ispirata ad una concezione, prettamente formale, del
giusto processo cui era estranea la (diversa) prospettiva finalistica
e sostanziale. 
    Come  gia'  evidenziato  proprio  il  dialogo  con  la  Corte  di
giustizia ha consentito l'assunzione di una  diversa  prospettiva  di
tutela che esulasse dal dato meramente formale processuale. 
    A tal riguardo, giova richiamare la sentenza  CEDU  del  6  marzo
2025, secondo cui «in materia di diritto a un  processo  equo.  Viola
l'art. 6, comma 1, CEDU, sotto il profilo del  diritto  di  adire  un
tribunale, la mancata esecuzione - entro un tempo  ragionevole  -  di
sentenze di varie autorita' giurisdizionali interne emanate in favore
del ricorrente.». 
    Orbene, il principio di effettivita', con riferimento  alla  CEDU
(Convenzione europea dei diritti dell'uomo), implica che le norme e i
mezzi  di  ricorso  nazionali  non  devono  rendere   impossibile   o
eccessivamente  difficile  l'esercizio  dei  diritti  sanciti   dalla
Convenzione, inclusi quelli relativi a un equo processo. 
    Dalla  disamina   della   giurisprudenza   della   CEDU   emerge,
incontestabilmente, che il  diritto  a  un  equo  processo  non  puo'
considerarsi osservato in presenza di una disciplina  fatta  solo  di
garanzie  formali,  ma  richiede  anche  che  tali   garanzie   siano
effettivamente utilizzabili e che i rimedi offerti siano in grado  di
riparare le violazioni che abbiano a consumarsi. 
    Cio' premesso, e' evidente come non sia  equa,  ne'  ragionevole,
una disciplina processuale che non consenta al  G.e.  di  apporre  un
limite massimo all'astreinte irrogata in sede di cognizione. 
    Sotto il profilo delle norme  sovranazionali  dotate  del  crisma
della diretta applicabilita'  e  della  primaute',  il  principio  di
effettivita' rinviene il proprio  fondamento  espresso  nell'art.  47
della Carta dei  diritti  fondamentali  dell'UE,  secondo  cui  «ogni
persona i cui  diritti  e  le  cui  liberta'  garantiti  dal  diritto
dell'Unione siano stati violati ha diritto  a  un  ricorso  effettivo
dinanzi a un giudice, nel  rispetto  delle  condizioni  previste  nel
presente articolo». 
    Come,  condivisibilmente,  evidenziato,  «dal  punto   di   vista
oggettivo, tale norma e' funzionale  a  garantire  il  raggiungimento
degli scopi perseguiti dall'Unione europea  nel  singolo  settore  di
intervento ed e' sancito nell'art. 19, paragrafo  1,  secondo  comma,
TUE, dove  si  prevede:  "gli  Stati  membri  stabiliscono  i  rimedi
giurisdizionali necessari per assicurare una  tutela  giurisdizionale
effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell'Unione"». 
    Sotto il distinto piano soggettivo, «il principio di effettivita'
rafforza i diritti riconosciuti dalle direttive ai singoli  cittadini
dell'Unione  sul  piano  sostanziale,  ma  ha  anche  una  dimensione
processuale, oggi ancor piu' accentuata, a seguito  dell'approvazione
della Carta di Nizza e della sua equiparazione ai trattati. L'art. 47
della  Carta  ha  fatto   assurgere   il   diritto   a   una   tutela
giurisdizionale effettiva al rango di diritto fondamentale». 
 
__________ 
 
  (1) In tale ipotesi, pur essendo precluso l'intervento del  giudice
dell'esecuzione, l'omessa pronuncia  sara'  censurabile  in  sede  di
gravame, ove il grado di giudizio sia definito, oppure  nello  stesso
giudizio, per il tramite  degli  strumenti  a  cio'  previsti.  Sara'
possibile conseguire la misura dal giudice del reclamo  di  cui  agli
articoli 183-ter, 3°  comma,  oppure,  in  relazione  alle  ordinanze
pronunciate a norma degli articoli 186-bis, ter e quater, del  codice
di procedura civile, dallo stesso giudice che si  sia  incorso  nella
predetta omissione. 
 
  (2) L'ampia formulazione della norma, unitamente alla necessita' di
un'esegesi improntata al  principio  di  effettivita'  della  tutela,
inducono a ritenere che la misura sia richiedibile anche in  sede  di
attuazione di un provvedimento cautelare,  rimasto  inadempiuto.  Ne'
costituisce  circostanza   ostativa   il   fatto   che   il   giudice
dell'attuazione venga a  coincidere  con  quello  che  ha  emesso  il
provvedimento  di  natura  cautelare.  D'altronde,   «la   necessita'
costituzionale della ragionevole durata del processo  impone  (per  i
procedimenti  cautelari)  interpretazioni  in  grado  di  evitare  il
ricorso al processo a cognizione piena al solo scopo di ritardare  il
momento  della  realizzazione  dell'obbligo  da   parte   dell'avente
diritto». 
 
  (3)  E'  evidente,   come   correttamente   sottolineato   in   via
interpretativa,  come  il  giudizio  di  cognizione  nel   quale   e'
richiedibile la misura coercitiva indiretta e' anche quello arbitrale
di cui agli articoli 816 ss.  del  codice  di  procedura  civile,  in
materia di arbitrato rituale. D'altronde, non si  tratta  che  di  un
corollario logico della natura giurisdizionale di tale procedimento. 
 
  (4) Secondo la predetta sentenza: «Nel  vigente  ordinamento,  alla
responsabilita' civile non e' assegnato solo il compito di restaurare
la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione,  poiche'
sono  interne  al  sistema  la  funzione  di  deterrenza   e   quella
sanzionatoria   del   responsabile   civile».   Dunque,    non    «e'
ontologicamente incompatibile con l'ordinamento  italiano  l'istituto
di origine statunitense dei risarcimenti punitivi. Il  riconoscimento
di una sentenza straniera che contenga una pronuncia  di  tal  genere
deve pero' corrispondere alla condizione  che  essa  sia  stata  resa
nell'ordinamento straniero su  basi  normative  che  garantiscano  la
tipicita' delle ipotesi di condanna, la prevedibilita'  della  stessa
ed i limiti  quantitativi,  dovendosi  avere  riguardo,  in  sede  di
delibazione, unicamente agli effetti dell'atto straniero e alla  loro
compatibilita' con l'ordine  pubblico».  In  relazione  alle  ipotesi
tipiche di danno punitivo, giovi la seguente  esemplificazione,  come
evocata dalle Sezioni Unite del 2017: in tema di brevetto e  marchio,
il regio decreto 29 giugno 1127, n. 1939, art. 86, e regio decreto 21
giugno 1942, n. 929, art. 66, abrogati  dal  decreto  legislativo  10
febbraio 2005, n. 30, che ha dettato a tal fine le  misure  dell'art.
124, comma 2, e art. 131, comma 2; il decreto legislativo 6 settembre
2005, n. 206, art. 140, comma 7, c.d. codice  del  consumo,  dove  si
tiene conto  della  «gravita'  del  fatto»;  secondo  alcuni,  l'art.
709-ter del codice di procedura civile, n. 2 e n. 3, introdotto dalla
legge 8 febbraio 2006, n. 54, per le inadempienze  agli  obblighi  di
affidamento della prole;  l'art.  614-bis  del  codice  di  procedura
civile, introdotto dalla legge 18 giugno 2009, n.  69,  art.  49,  il
quale contempla il potere del giudice di fissare una somma pecuniaria
per  ogni  violazione  ulteriore  o   ritardo   nell'esecuzione   del
provvedimento, «tenuto conto del  valore  della  controversia,  della
natura della prestazione, del danno quantificato o prevedibile  e  di
ogni altra circostanza utile»; il decreto legislativo 2 luglio  2010,
n.  104,  art.  114,  redatto  sulla  falsariga  della  norma  appena
ricordata, che attribuisce analogo potere al  giudice  amministrativo
dell'ottemperanza». Ha considerato «le ipotesi in cui e' la legge che
direttamente commina una determinata pena per il trasgressore: come -
accanto alle disposizioni penali degli artt. 388 e 650 c.p. -  l'art.
18,  comma  14,  dello  statuto  dei  lavoratori,   ove,   a   fronte
dell'accertamento  dell'illegittimita'   di   un   licenziamento   di
particolare gravita', la mancata reintegrazione e' scoraggiata da una
sanzione aggiuntiva; la legge 27 luglio 1978, n. 392, art. 31,  comma
2, per il quale il locatore paghera' una somma in caso di recesso per
una ragione  poi  non  riscontrata;  l'art.  709-ter  del  codice  di
procedura civile, n. 4, che  attribuisce  al  giudice  il  potere  di
infliggere una  sanzione  pecuniaria  aggiuntiva  per  le  violazioni
sull'affidamento della prole; o ancora il decreto-legge 22  settembre
2006, n. 259, art. 4, convertito in legge 20 novembre 2006, n. 281  ,
in tema di pubblicazione di  intercettazioni  illegali».  L'ordinanza
9978/16 ha, invece, menzionato tra gli altri:  gli  legge  22  aprile
1941, n. 633,  art.  158,  e,  soprattutto,  decreto  legislativo  10
febbraio 2005, n. 30, art. 125, (proprieta' industriale), pur  con  i
limiti posti dal cons. 26 della direttiva  CE  (cd.  Enforcement)  29
aprile  2004,  n.  48  (sul  rispetto  dei  diritti   di   proprieta'
intellettuale), attuata dal decreto legislativo 16 marzo 2006, n. 140
(v. art. 158) e  la  venatura  non  punitiva  ma  solo  sanzionatoria
riconosciuta da Cass. n. 8730 del 2011; - il decreto  legislativo  24
febbraio 1998, n.  58,  art.  187-undecies,  comma  2,  (in  tema  di
intermediazione finanziaria); - «il decreto  legislativo  15  gennaio
2016, n. 7 (artt. 3 - 5), che ha abrogato varie fattispecie di  reato
previste a tutela della fede pubblica, dell'onore e del patrimonio e,
se i fatti sono dolosi, ha  affiancato  al  risarcimento  del  danno,
irrogato in favore della  parte  lesa,  lo  strumento  afflittivo  di
sanzioni  pecuniarie  civili,  con  finalita'  sia   preventiva   che
repressiva». Entrambe le pronunce  annettono  precipuo  rilievo  alla
legge 8 febbraio  1948,  n.  47,  art.  12,  che  prevede  una  somma
aggiuntiva a titolo riparatorio nella diffamazione a mezzo  stampa  e
al novellato art. 96, comma 3, del codice di  procedura  civile,  che
consente la condanna della parte  soccombente  al  pagamento  di  una
«somma  equitativamente  determinata»,  in   funzione   sanzionatoria
dell'abuso del processo (nel processo amministrativo l'art. 26, comma
2, del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104). Mette conto citare
anche  l'art.  28  del  decreto   legislativo   n.   150/2011   sulle
controversie in materia  di  discriminazione,  che  da'  facolta'  al
giudice di condannare il convenuto al risarcimento del danno  tenendo
conto  del  fatto  che  l'atto  o  il  comportamento  discriminatorio
costituiscono ritorsione ad una precedente azione  giudiziale  ovvero
ingiusta reazione ad una precedente attivita' del soggetto leso volta
ad ottenere il rispetto del principio della parita' di trattamento. E
ancora,  si  vedano  l'art.  18  comma  secondo  dello  Statuto   dei
lavoratori, che prevede che in ogni caso la misura  del  risarcimento
non potra' essere inferiore a cinque  mensilita'  della  retribuzione
globale di fatto; il decreto legislativo n. 81  del  2015,  art.  28,
comma 2,  in  materia  di  tutela  del  lavoratore  assunto  a  tempo
determinato e la anteriore norma di cui alla legge n. 183  del  2010,
art. 32, commi 5, 6 e 7, che prevede,  nei  casi  di  conversione  in
contratto a tempo indeterminato per  illegittimita'  dell'apposizione
del termine,  una  forfettizzazione  del  risarcimento.  L'elenco  di
«prestazioni sanzionatorie»,  dalla  materia  condominiale  (art.  70
disp. att. del codice  civile)  alla  disciplina  della  subfornitura
(legge n. 192 del 1998, art. 3, comma 3),  al  ritardo  di  pagamento
nelle transazioni commerciali (decreto legislativo n. 231  del  2002,
artt. 2 e 5) e' ancora lungo. Non e' qui  il  caso  di  esaminare  le
singole ipotesi per dirimere il contrasto tra chi le  vuol  sottrarre
ad ogni abbraccio con la responsabilita' civile e chi ne  trae,  come
le Sezioni Unite ritengono, il complessivo segno della  molteplicita'
di funzioni che contraddistinguono il problematico istituto. 
 
  (5) In relazione a tal ultimo aspetto, a venire in rilievo, secondo
la migliore dottrina internazionalistica, e' una causa di  estinzione
atipica o, comunque, rinveniente il proprio  fondamento  nel  diritto
internazionale consuetudinario, anche se trasposta  nel  Trattato  di
Vienna sui trattati del 1969. 
 
  (6) E' discusso se nel potere di revoca o di modifica debba  essere
annoverato quello  di  rinnovare  la  misura  al  suo  scadere  o  di
circoscriverne  l'efficacia  temporale.  Si  ritiene,   non   vietato
(percio' consentito) dall'art. 614-bis del codice di procedura civile
e coerente con la sua ratio, di rinnovare la misura allo spirare  del
termine di durata  previsto,  cosi'  come  quello  di  circoscriverne
l'efficacia nel tempo. 
 
  (7) Dispone espressamente che  «la  penale  puo'  essere  diminuita
equamente dal giudice (1),  se  l'obbligazione  principale  e'  stata
eseguita  in  parte   ovvero   se   l'ammontare   della   penale   e'
manifestamente eccessivo, avuto sempre riguardo all'interesse che  il
creditore aveva all'adempimento». 
 
  (8)  Questo   nuovo   orientamento   non   aveva   pero'   trovato,
inizialmente, seguito nella successiva  giurisprudenza  della  Corte,
che (fatta eccezione per Cass., sez. I, 23 maggio 2003 n. 8188) aveva
ribadito l'orientamento tradizionale, con le sentenze n. 5324/03,  n.
8813/03, n. 5691/02, n. 14172/00. 
 
  (9) Tale orientamento, invero, poteva essere  considerato  superato
dalle successive pronunce  (Cass.,  sez.  III,  27  ottobre  2000  n.
14172), che avevano aderito all'orientamento piu'  rigoroso,  secondo
cui la riduzione ad equita' la penale (per manifesta  eccessivita'  o
sopravvenuta  onerosita')   non   poteva   ritenersi   implicitamente
contenuta nella deduzione di non dovere  nulla  a  titolo  di  penale
(trattandosi di deduzione incompatibile con l'istanza di riduzione). 
 
  (10) Del resto il nostro ordinamento  conosce  altri  casi  in  cui
l'intervento equitativo del Giudice pur risolvendosi in favore di una
delle parti in contesa non e' tuttavia predisposto specificamente per
la tutela di un suo interesse. Si pensi all'ipotesi in cui una  delle
parti abbia chiesto il risarcimento del danno in forma specifica;  il
Giudice,  in  questo  caso,  anche  se  l'esecuzione  specifica   sia
possibile, ha tuttavia il potere  di  disporre  che  il  risarcimento
avvenga per equivalente «se  la  reintegrazione  in  forma  specifica
risulta eccessivamente onerosa per il debitore» (art. 2058 del codice
civile). E' un potere che il Giudice  puo'  esercitare  pacificamente
d'ufficio avuta presente l'obiettiva difficolta' che il debitore puo'
incontrare nell'eseguire la prestazione risarcitoria; la difficolta',
appunto perche' obiettiva, non riguarda pero' la situazione economica
del debitore, ma piuttosto l'esecuzione stessa della prestazione.  Si
pensi ancora al potere attribuito al Giudice di  liquidare  il  danno
con valutazione equitativa se lo stesso non puo' essere  provato  nel
suo preciso ammontare (art. 1226 del  codice  civile),  pacificamente
esercitatile indipendentemente dalla richiesta delle parti. 
 
  (11)  L'art.  2  del  decreto-legge  25  settembre  1987,  n.  393,
convertito nella legge 25 novembre 1987, n. 478, disponeva  l'esonero
dall'obbligo risarcitorio di cui all'art. 1591 del codice  civile  in
favore del conduttore  di  immobile  non  abitativo  nell'ipotesi  di
comprovata insussistenza della difficolta' di reperire altro immobile
idoneo. La Corte cost. (sentenza n. 22 del  1989)  aveva  qualificato
tale previsione come una figura di  temporanea  inesigibilita'  della
prestazione restitutoria, disposta dalla legge impugnata in  esito  a
un bilanciamento degli interessi in  gioco  commisurato  alla  "grave
difficolta' per il conduttore,  dipendente  da  circostanze  estranee
alla sua volonta', di trovare  un  altro  immobile  adatto  alle  sue
necessita'  di  lavoro"  11.  La  Corte  aveva  ritenuto   la   norma
costituzionalmente illegittima, nella parte in cui non consentiva  al
locatore di dare la  prova  dell'insussistenza  dei  presupposti  per
l'esonero dal risarcimento, consistente nella  dimostrazione  che  il
conduttore avrebbe potuto acquisire la  disponibilita'  di  un  altro
immobile con l'ordinaria  diligenza.  Anche  successivamente,  la  il
Giudice delle Leggi (sent. 3 febbraio 1994, n.  19)  ha  riconosciuto
l'esistenza di un principio di inesigibilita' come  limite  superiore
alle pretese creditorie (v. sent. n. 149 del 1992).  L'interesse  del
creditore all'adempimento degli obblighi dedotti in obbligazione deve
essere inquadrato, infatti, nell'ambito della  gerarchia  dei  valori
comportata dalle norme, di  rango  costituzionale  e  ordinario,  che
regolano la materia in considerazione. E quando, in  relazione  a  un
determinato adempimento, l'interesse del creditore entra in conflitto
con un interesse del debitore tutelato dall'ordinamento giuridico  o,
addirittura, dalla Costituzione come valore preminente  o,  comunque,
superiore  a  quello  sotteso   alla   pretesa   creditoria,   allora
l'inadempimento, nella misura e nei limiti in cui sia necessariamente
collegato all'interesse di valore preminente, risulta  giuridicamente
giustificato. 
 
  (12) La giurisprudenza ricordata dal giudice  a  quo  relativamente
all'art. 98, terzo comma, del testo unico  sull'edilizia  economia  e
popolare, ancorche' riguardante una materia diversa da quella qui  in
contestazione, e' certamente espressiva dello  stesso  principio  la'
dove,  pur  nel  silenzio  della  legge,  ammette  che  l'occupazione
iniziale dell'alloggio possa essere omessa «per giustificati  motivi»
senza comportare pregiudizio all'assegnazione dello stesso. Non  v'e'
dubbio che il caso di  una  persona,  che  non  puo'  assolvere  alla
condizione  posta  dalla  legge  per  continuare  a  beneficiare  del
contributo pubblico sul mutuo edilizio, consistente  nell'occupazione
effettiva, continuativa e stabile della propria abitazione,  a  causa
dell'esigenza  di  assistere  in  altra  citta'  il   proprio   padre
gravemente ammalato e incapace di una vita autonoma, rientri  fra  le
ipotesi di contemperamento con un superiore  dovere  di  solidarieta'
sociale, qualificato come «inderogabile» dagli articoli 2 e 29  della
Costituzione, in grado di costituire una ragionevole  giustificazione
dell'inadempimento del predetto onere. 
 
  (13) Coinvolgendo categorie e valori di rilevanza costituzionale  e
trattandosi  di  un  principio  generale   concernente   i   rapporti
obbligatori  come  tali,  esso  deve  avere  applicazione  universale
nell'ordinamento giuridico e  non  puo',  dunque,  essere  trascurato
neppure nell'interpretazione della legge regionale o (come  nel  caso
deciso dalla C. cost.) delle province autonome. 
 
  (15)  Cio',  nel  presupposto   delle   profonde   interconnessioni
esistenti  fra  i   due   piani,   quale   desumibile   anche   dalla
sindacabilita'   della   clausola   relativa   all'adeguatezza    del
corrispettivo, e,  quindi,  relativa  all'equilibrio  economico,  ove
«intrasparente». 
 
  (16)  Ne'  sono  accoglibili  quei   tentativi   di   ricostruzione
dell'istituto che muovono dall'accostamento della stessa - almeno per
quanto concerne il diritto contrattuale dei consumatori, al principio
di uguaglianza - la giustizia  del  caso  concreto  essendo  concetto
distinto da quello dell'eguale ripartizione dei sacrifici economici o
delle situazioni giuridiche attive o passive. E la giustizia del caso
concreto, in tale specifico ambito materiale,  deve  intendersi  come
«giustizia nella determinazione dell'equilibrio dello scambio» di cui
deve essere presidiata l'adeguatezza  economica  dello  scambi16.  Il
summenzionato art. 2, inoltre, consente di  ritenere  che  l'equita',
nell'ordinamento  vigente,  connotato   da   un   sistema   rimediale
multilivello per l'innestarsi di regole di protezione di  provenienza
comunitaria, possa operare non solo in presenza di una norma  a  cio'
abilitante, ma, ogniqualvolta, tale operare non sia precluso  da  una
norma, destinata a regolare diversamente la fattispecie. 
 
  (17) Ne', al fine  di  dilatare  l'ambito  operativo  della  norma,
sembra  sufficiente   -   nella   logica   di   una   interpretazione
costituzionalmente   orientata   -   richiamare   il   principio   di
uguaglianza,  assoggettando  il   non   imprenditore-consumatore   al
medesimo regime dell'imprenditore quando  il  primo  si  trovi  nelle
medesime condizioni di debolezza del secondo. 
 
  (19) sentenze n. 11066 e n. 11067 del 2012. 
 
  (20) Cosi' Cass., 20 aprile 1950, n. 1056, in Giur. it.,  1950,  I,
1, 642 ss., e in Foro it., 1950, I, 529 ss..:  L'inammissibilita'  di
tale rapporto e'  tradizionalmente  fatta  discendere  dall'esigenza,
immanente nell'ordinamento, di «impedire la dissociazione in perpetuo
della proprieta' dal suo contenuto  economico»  l'utilita'  economica
del diritto di proprieta', che la legge vuole  «pieno  ed  esclusivo»
(art. 832 cod. civ.), rappresenta la ragione stessa della sua  tutela
giuridica,  sicche'  l'ordinamento  non  potrebbe,  riconoscendo   un
vincolo perpetuo tale  da  comprimere  quella  utilita',  privare  di
oggetto la relativa tutela,  conservandola  a  uno  stadio  puramente
formale e avallando una dissociazione  strutturale  e  non  meramente
contingente tra il diritto e il relativo contenuto  economico  (cosi'
anche Cass., 30.7.1984, n. 4530, sez. III). Per usare  le  parole  di
Andrea  Torrente,  estensore  di  questa   notissima   sentenza   che
rappresenta il leading case nella materia  in  esame,  «[n]on  si  sa
perche' l'ordinamento giuridico dovrebbe riconoscere  questo  esangue
diritto costretto  ad  alimentarsi  nei  secoli  soltanto  della  sua
vacuita'» (Cass., 20 aprile 1950, n. 1056, cit.). 
 
  (21) Invero, vi e' stato chi,  stigmatizzando  il  ricorso  a  tale
parametro, ha affermato che «la giurisprudenza  sulla  ragionevolezza
appare ormai del tutto ingovernabile, in  quanto  si  e'  negli  anni
trasformata in una sorta di valutazione circa  la  ingiustizia  della
legge  o  che  trattasi  di  una  nozione  "inafferrabile   nel   suo
contenuto"». 
 
  (22)  Il  principio  di  ragionevolezza  e',  peraltro,  ispiratore
costante dell'attivita' esegetica come  in  materia  probatoria  come
dimostra l'approdo delle Sezioni Unite, n. 13533 del 2001, in materia
di prova dell'inadempimento, nella  responsabilita'  contrattuale,  e
che rinviene il proprio fulcro nel criterio, chiaramente ispirato  al
principio di ragionevolezza, della vicinanza alla fonte  della  prova
come criterio di distribuzione e selezione dell'onere della prova  in
relazione alle parti del rapporto contrattuale. 
 
  (23) «Nel vigente ordinamento, alla responsabilita' civile  non  e'
assegnato solo il compito di restaurare  la  sfera  patrimoniale  del
soggetto che ha subito la lesione, poiche' sono interne al sistema la
funzione  di  deterrenza  e  quella  sanzionatoria  del  responsabile
civile.» 
 
  (24) Ed ancora, per finire,  la  Convenzione  richiede  agli  stati
agenti un ulteriore responsabilita' in materia di proprieta'. Invero,
difatti, il dovere dello  Stato  di  astenersi  dall'interferire  nel
godimento dei beni non esaurisce il contenuto della norma in oggetto,
difatti,  per  come  interpretato  dalla  Corte  EDU,   dall'art.   1
protocollo 1 derivano, per le  autorita'  nazionali,  tanto  obblighi
negativi quanto positivi. Questo perche' solo con  la  previsione  di
misure  anche  positive  puo'  essere  realizzata  una  concreta   ed
effettiva, quindi piena, protezione della proprieta': alle  autorita'
nazionali non e' fatto solo divieto di interferenze illegittime e non
giustificate, ma dato anche l'obbligo di collaborare  attivamente  al
fine di assicurare l'effettivo esercizio del diritto garantito  dalla
Convenzione (si pensi, ad esempio, alle misure  di  protezione  della
proprieta' privata). Peraltro, tali obblighi permangono in capo  allo
Stato anche quando si tratta di rapporti tra privati o tra  societa',
in particolare quando sussiste un nesso diretto tra le misure che  un
ricorrente  puo'  legittimamente   attendersi   dalle   autorita'   e
l'effettivo pacifico godimento dei suoi «beni». Per tal  ragione,  si
parla di effetto orizzontale delle misure positive. 

9.  Non  manifesta  infondatezza  della  questione  di   legittimita'
costituzionale per violazione del principio di uguaglianza ex art.  3
Cost. 
    Si sono gia' evidenziati gli approdi interpretativi  del  Giudice
delle leggi e  della  Corte  di  cassazione,  in  materia  di  tutela
dell'equilibrio contrattuale e di poteri di rimodulazione ex  officio
(come per la clausola penale), cosi' come di operare  della  sanzione
della nullita' (parziale, come in materia di caparra confirmatoria). 
    Il disconoscere la possibilita' di una determinazione ex post del
massimo  esigibile,  a  titolo  di  penale,  rischierebbe  di  creare
un'evidente  disparita'  di  trattamento,  rispetto   alle   predette
ipotesi, con conseguente violazione dell'art. 3 Cost. 
    D'altronde,  e'  innegabile  l'assimilazione,  sotto  il  profilo
ontologico,  di  tali  tipologie  di  fattispecie.   Tutte   appaiono
preordinate a consentire al giudice,  investito  della  controversia,
ove ravvisi un evidente squilibrio dei  pesi  e  sacrifici  economici
gravanti sulle parti, un intervento riequilibratore  che  avviene  in
modo  piu'  pregnante  in  materia  di  clausola  penale  e   caparra
confirmatoria, incidendo sulla misura originariamente prevista  dalle
parti  o,  persino,   escludendo   la   debenza   della   prestazione
programmata; solo ab extrinseco, invece,  nell'ipotesi  della  misura
coercitiva  indiretta,  limitandosi  il  giudice  dell'opposizione  a
precetto. 
    Questo  Giudice  e'  consapevole  di  come  la  possibilita'   di
ricercare, in via officiosa, un equilibrio postumo delle  prestazioni
contrattuali  (come  nel  caso   di   clausola   penale   e   caparra
confirmatoria) o, in generale, dei pesi gravanti sulle  parti  di  un
rapporto, per effetto di  un  provvedimento  giudiziale  o  normativo
(come nel caso delle misure  coercitive  indirette),  rappresenti  un
profilo controverso. 
    Cio', specie quando avvenga ex officio. 
    Il raffronto fra le due tipologie di fattispecie,  nonostante  la
loro  diversita'  ontologica,  non   e'   priva   di   utili   spunti
ricostruttivi, se non altro, per la loro analogia funzionale. 
    Sotto  il  primo  profilo  ovvero  quello   dell'equilibrio   fra
prestazioni di natura  contrattuale,  l'ordinamento  sembrerebbe,  di
norma,  circoscrivere  l'intervento  giudiziale   alle   ipotesi   di
patologia del procedimento  formativo  della  volonta'  delle  parti,
cosi' come di espressa tipizzazione normativa come accade in  materia
di usura. 
    Invero, a tali ipotesi espresse  devono  essere  aggiunte  quelle
emerse in sede interpretativa la cui  portata  rispetto  ai  principi
tradizionali non e' ancora, perfettamente, definita. 
    Non  e',   cioe',   chiaro   se   il   rapporto   fra   principio
(inammissibilita'  di   un   controllo   d'ufficio,   con   finalita'
riequilibratorie) e deroga (ammissibilita' di siffatto sindacato)  si
sia invertito o si avvii, comunque, ad essere superato. 
    E' il problema, piu' generale, dell'equilibrio delle  prestazioni
e della loro congruita' e dell'eventuale  ricerca  di  un  equilibrio
oggettivo, ad opera del Giudice, che dovrebbe portare a sostituire ai
valori  contrattuali,  non  un  l'esito  di  un   proprio   personale
convincimento, bensi' i c.d. valori di mercato. 
    E', altresi', la questione del rapporto tra mercato e regolazioni
del  mercato  e  quindi,  tra  liberta'  negoziale,  solidarieta'  ed
equita', che pongono limiti  alla  liberta'  negoziale.  La  liberta'
negoziale  non  e'  un  valore  che  puo'  ritenersi  assoluto,   ma,
interagendo e dovendo essere contemperata con altri  valori,  ha  una
portata  relativa.  I  controlli   del   giudice,   cui   la   stessa
soggiacerebbe, secondo la dottrina piu' moderna,  sarebbero  due,  di
cui il primo oramai dato acquisto del bagagliaio giuridico e  l'altro
piu' controverso: 
        I) causale; 
        II) contenutistico. 
    In  entrambi  i  casi,  si  parla  di  controllo,   destinato   a
estrinsecarsi sull'assetto originario del contratto, ovvero esistente
al momento della stipulazione, al fine di verificare se lo stesso: 
        I) fosse sorretto da una causa originaria, idonea; 
        II) avesse un contenuto adeguato ed equilibrato(25). 
    Prendendo le mosse dalla causa,  il  nostro  ordinamento  ha  una
conformazione di tipo causale ed e'  percio'  diverso  da  esperienze
come  quello  tedesca,  cosi'  come  dai  sistemi  di   Common   Law,
dall'Unidroit, dal Codice europeo dei  contratti,  dai  principi  del
diritto uniforme dei contratti. 
    Gli stessi, infatti, non sono retti dal principio causalistico, e
si fondano sull'idea per cui e' sufficiente, per produrre un  effetto
vincolante, il nudo patto, il nudum pactum. 
    Se la volonta' e' stata espressa ed e' sorretta da  una  volonta'
non viziata, cio' e' sufficiente al fine  di  giustificare  l'effetto
obbligatorio, o traslativo. 
    Tali esperienze, volendo tutelare il principio  di  certezza  dei
rapporti giuridici, si fondano sulla considerazione che  le  indagini
causali  siano  caratterizzate  da  eccessiva  complessita',  abbiano
natura introspettiva e siano, per loro natura, opinabili  e,  dunque,
in  grado  di  destabilizzare  il   rapporto   giuridico   e   incide
sull'efficienza del mercato. 
    L'ordinamento  italiano,   modellandosi   su   quello   francese,
accoglie,  invece,  il  principio  di   necessaria   causalita'   del
contratto, espressamente enunciato nel codice civile, agli articoli: 
        a) 1325 n. 2, secondo cui la causa  rappresenta  un  elemento
costitutivo del contratto; b) l'art. 1343, secondo cui  il  contratto
e' affetto da nullita' se la causa e' illecita; c) l'art.  1344,  per
cui il contratto e' nullo se la causa e' fraudolenta, d) l'art. 1418,
secondo il contratto e' nullo se la  causa  manca  oltre  che  se  e'
illecita; e) l'art. 1411, in virtu' del quale il contratto  a  favore
di terzo e' nullo nella parte relativa al trasferimento al terzo  del
diritto, se la  causa  non  ha  una  giustificazione  adeguata  avuto
riguardo all'interesse dello stipulante; f) l'art. 1322,  in  materia
di contratti atipici, fissa la regola  della  nullita'  e  della  non
meritevolezza del  contratto  se  non  c'e'  un  interesse  giuridico
meritevole di considerazione: g) l'art.  2645-ter:  in  relazione  al
c.d.  negozio  di  destinazione,  positivizza  il   principio   della
causalita' rafforzata, che deve essere addirittura sovraindividuale o
socialmente utile, vista la rilevanza del vincolo. 
    Anche l'art. 1376 del codice civile, che parrebbe essere ispirato
ad una  logica  consensualistica  pura  (per  cui  la  proprieta'  si
trasferisce per effetto  del  consenso  legittimamente  manifestato),
deve essere letto unitamente all'art.  1325  del  codice  civile,  in
virtu' del quale il consenso dev'essere legittimo ed e' tale se e' un
contratto che abbia una causa idonea a giustificare il trasferimento. 
    L'ordinamento  italiano  del  '42  si  reggeva  su  un  approccio
paternalistico, ponendosi il problema delle  ragioni  che  muovono  i
contraenti a stipulare. 
    La  volonta'  libera,  che,  nei  sistemi  di  common   law,   e'
sufficiente ai fini del prodursi dell'effetto traslativo,  dev'essere
sorretta da una causa, osteggiandosi gli spostamenti patrimoniali che
risultino privi di giustificazione, com'e' evidente anche dalla norma
sull'arricchimento senza causa, articoli 2041 e 2042 c.c(26). 
    Cio' premesso, si  deve  tornare  a  affrontare  il  problema  se
l'equilibrio sia in se' e' valutabile dal giudice a  prescindere  dal
fatto che sia configurabile un problema di  liberta'  e,  quindi,  di
volonta' libera  e  di  causalita'  (ragionevole  causa  del  singolo
contratto negoziale). 
    Come evidenziato da autorevole dottrina, sono  individuabili  tre
fasi dell'evoluzione  giurisprudenziale.  In  un  primo  momento,  si
afferma  il   principio   per   cui   il   concetto   di   contratto,
necessariamente giusto, e' incompatibile con  il  nostro  ordinamento
giuridico perche' categoria sostanzialmente  eversiva  del  principio
dell'autonomia privata giusta il quale sono le parti a decidere se il
contratto e' giusto per i loro interessi. 
    Se le parti hanno deciso in modo libero, con volonta' non viziata
e sulla base di una causa  adeguata,  la  scelta  di  convenienza  e'
insindacabile e insostituibile dal giudice. 
    Questa impostazione della generale irrilevanza,  salvo  eccezioni
normative specifiche e di stretta interpretazione, si fonda su  varie
ragioni: 
        a. l'argomento di natura economica che richiama il  liberismo
economico che, a sua volta, si ricollega al principio di  liberta'  e
l'impossibilita' di un sindacato che la limiti; 
        b. l'argomento dogmatico: il contratto e'  espressione  della
signoria della volonta', quale volonta' sovrana, che non concilia con
nessuna forma di tutela; 
        c. l'argomento sistematico: alcune norme del  codice  civile,
al contrario, dimostrano che il problema della  giustizia  rimarrebbe
estraneo al codice, in quanto problema destinato a rilevare sul piano
etico e non giuridico. 
    Si pensi, in particolare, agli articoli 1447 del codice civile in
materia  di  rescissione  per  lesione  e  1815  del  codice   civile
sull'usura. Entrambe le norme, dando rilievo,  eccezionalmente,  allo
squilibrio,  confermano  la  generale   irrilevanza   dello   stesso.
Peraltro, l'art. 1447 del codice civile fa riferimento solo ad alcuni
contratti, quelli a  prestazioni  corrispettive,  ad  uno  squilibrio
ultra dimidium  qualificato  e  soprattutto  ad  uno  squilibrio  che
discende,  eziologicamente,   da   una   condizione   soggettiva   di
particolare vulnerabile. 
    Quindi, se ne deduce l'indiretta conferma dell'irrilevanza  dello
squilibrio inteso in senso oggettivo. Le stesse  considerazioni  sono
mutuabili per l'usura 1815 del codice civile. 
    Prima  della  riforma  del  2006,  l'usura  si  profilava   quale
fattispecie di soggettivo, sia a fini penali, sia ai fini civili e il
mutuo usurario, si configurava quando c'era un approfittamento  dello
stato di bisogno che era idoneo a cagionare un interesse usurario. 
    Le suddetta  considerazioni  (liberismo  economico,  la  signoria
della volonta', la previsione di norme confermative della irrilevanza
dello  squilibrio  oggettivo  e  in  generale),  hanno  indotto   gli
interpreti  a  ritenere  che,  salvi  casi  eccezionali  di   stretta
interpretazione, lo squilibrio  sia  quello  soggettivo,  che  quello
oggettivo,  sono  irrilevanti  e  non  valutabili  dal  giudice  come
criterio di controllo dell'autonomia negoziale. 
    Alla seconda fase hanno dato la stura, a livello  interpretativo,
la sentenza a SS.UU. del 13 settembre 2005 n.  18128  in  materia  di
clausola penale ex  art.  1384  del  codice  civile,  cosi'  come  la
normativa interna di recepimento della direttiva n.  93  in  tema  di
consumatore. 
    Come  gia'  evidenziato,  le  ragioni  che   hanno   indotto   al
superamento  della  tesi  tradizionale  dell'insindacabilita'   della
liberta' sotto il profilo  della  giustizia  economico-normativa  del
programma sono le seguenti: 
        a) il principio costituzionale di solidarieta'  che  consente
di affermare che un contratto  iniquo  possa  soggiacere  a  sanzione
anche in difetto di una norma espressa che ne preveda  il  divieto  o
stabilisca una sanzione. Il principio di solidarieta' e' un principio
generale  dell'ordinamento  costituzionale,   dotato   di   immediata
precettivita'  nei  rapporti  fra  privati  e  osta   a   regolamenti
contrattuali  che  producano  squilibri  ingiusti,  sproporzionati  e
inammissibili; 
        b)  la  buona  fede  civilistica,   che   e'   la   categoria
contrattuale attraverso cui opera la  solidarieta',  che  implica  il
divieto che un contratto assuma un  contenuto  contrario  alla  buona
fede oggettiva, e, dunque, ad una logica di correttezza e  di  tutela
degli interessi della controparte; 
        c)  il  superamento,  anche  alla  luce  delle   interferenze
comunitarie,  del  principio  interpretativo  secondo  cui  le  parti
sarebbero libere di tutelare,  da  se',  i  propri  interessi,  cioe'
avrebbero il potere di decidere liberamente  cio'  che  e'  giusto  e
conveniente per la  propria  sfera  giuridica.  Il  contratto  giusto
presuppone la piena liberta' del contraente. Se il  contraente  fosse
veramente libero, si potrebbe dire che cio' che e'  giusto  o  no  lo
decide il contraente e l'ordinamento,  in  un  sistema  liberale,  si
limita a prendere atto della  sua  conclusione.  Emerge,  quindi,  la
consapevolezza che, non solo nelle ipotesi previste  dalla  legge  di
vizi della volonta', di rescissione o di usura, si puo' assistere  ad
una compressione della liberta' che  rende  l'autonomia  contrattuale
non piena e non effettivamente libera, ma sono ravvisabili una  serie
di casi che ineriscono ai contratti asimmetrici in  senso  ampio,  in
cui l'asimmetria informativa,  economica  e  professionale  rende  il
soggetto potenzialmente  meno  idoneo  rispetto  alla  controparte  a
tutelare il suo interesse; 
          c1)  l'avvaloramento  di  tale  superamento  da  parte  dei
referenti normativi: 
1. la direttiva che tutela  il  consumatore  proprio  perche'  e'  un
contratto asimmetrico, qualificando nulle le clausole  inique  ovvero
destinate a produrre uno squilibrio significativo; 
2. la normativa nazionale di recepimento di questa direttiva: il cod.
cons. agli articoli 33 e ss.; 
3. la normativa di  altri  ordinamenti:  il  BGB  considera  nulli  o
inefficaci i contratti stipulati dalla parte con volonta' viziata  da
inesperienza o immaturita', dalla mancanza  di  discernimento,  dalla
debolezza della volonta', dall'inferiorita'  -  casi,  questi,  molto
piu' ampi rispetto a quelli tipizzati dal nostro legislatore; 
4.  la  soft  law  come  i  Principi   Unidroit   fanno   riferimento
all'evidente sproporzione nei contratti  asimmetrici  che  renderebbe
applicabile la sanzione della nullita'. 
    Questa fase esita nelle pronunce che superano il principio  della
insindacabilita',  salve  eccezioni  tassativamente  espresse   dello
squilibrio,  sia  economico,  di  valore  tra  le  prestazioni,   sia
normativo, di regole e precetti. 
    In questa fase si  pone  il  problema  dell'individuazione  delle
condizioni della rilevanza. 
    Una sentenza della Cass., in materia di  compravendita  a  prezzo
vile e irrisorio, del 2015  n.  22567,  conclude  con  una  soluzione
mediana: se non e' piu' vero che lo squilibrio e' sempre irrilevante,
non e' vero neanche che e' irrilevante di per se'. 
    E' rilevante solo quando a  venire  in  rilievo  siano  contratti
asimmetrici e solo quando, nel corso della procedura contrattuale, la
parte forte del rapporto ha abusato della propria posizione per porre
in essere un regolamento iniquo. 
    E' un  abuso  che  non  deve  essere,  necessariamente,  di  tipo
psicologico. Cio', in quanto non bisogna dimostrare il dolo, ma  puo'
operare oggettivamente. 
    La circostanza che, in presenza di una situazione asimmetrica fra
le parti, la parte forte abbia conseguito un vantaggio iniquo  denota
l'esistenza di un abuso oggettivo, funzionale, che non  necessita  di
indagini psicologiche troppo complesse, come dimostra il  cod.  cons.
che esclude la rilevanza della buona o  cattiva  fede  proprio  nella
disciplina degli artt. sui contratti del consumatore. 
    Quanto alle ragioni invocate a sostegno di questa  tesi  mediana,
possono richiamarsi: 
        1. il principio di liberta' negoziale: laddove si  pervenisse
ad affermasse che, nel contratto tra due soggetti, che  hanno  deciso
liberamente, il giudice possa valutare se  i  termini  dello  scambio
sono proporzionati oppure no, allora  l'autonomia  negoziale  sarebbe
destinata ad essere atrofizzata. 
    L'ammissione di un sindacato della giustizia contrattuale, teso a
vagliare   la   ragionevolezza   contrattuale   in    relazione    ai
controsimmetrici tra  parti  uguali  si  pone  in  evidente  antitesi
rispetto al contenuto stesso della liberta' contrattuale. 
    Inoltre, verrebbe in rilievo una soluzione  giudice-centrica  che
determinerebbe  una  sorta  di   «giuristocrazia»,   in   quanto   si
attribuirebbe al giudice un potere incontrollato in relazione ad ogni
contratto  e  cio'  sulla  base  di  giudizi  meramente   soggettivi,
opinabili e, quindi, potenzialmente arbitrari,  verrebbe  sacrificato
oltremodo il principio  di  certezza  dei  rapporti  e  dei  traffici
giuridici. 
    A tal riguardo, si evidenzia che  se  il  sindacato  deve  essere
sull'ingiustizia oggettiva e cioe' sull'ingiustizia in  quanto  tale,
al fine di valutare se il contratto e' adeguato e giusto o  meno,  vi
e' la necessita' di rivenire un parametro oggettivo che almeno per lo
squilibrio  economico,  sia  idoneo  ad  assicurare  dei  criteri  di
valutazione  per  distinguere  la  sproporzione  minima   tollerabile
rispetto a  quella  in  qualche  misura  intollerabile.  Per  contro,
l'ammissione  di  un  controllo  sulla  ingiustizia  oggettiva,   non
ancorato   ad   un   parametro   oggettivo   crea   una   sostanziale
impossibilita' di giudizi attendibili e controllabili ex post. 
    D'altronde, in tal senso, depone anche la disciplina  in  materia
di  usura:  nel  momento  in  cui  il   legislatore   speciale   l'ha
oggettivizzata,   espungendo   dalla    fattispecie    incriminatrice
l'approfittamento dello stato di bisogno,  ha  fissato  un  parametro
oggettivo  che  e'  il  superamento  del  tasso-soglia.   La   stessa
disciplina comparata, internazionale, i principi unidroit, i principi
europei dei contratti, non danno mai rilievo alla gross disparity  in
quanto tale, ma a quella derivante da una condizione di  debolezza  e
di vulnerabilita'. Condizioni  che  possono  essere  anche  atipiche,
perche' non riducentisi ai vizi di volonta' tipizzati e ricomprendono
gli status, come  la  minore  eta'  o  la  condizione  di  lavoratore
rispetto al direttore o al datore di lavoro; le relazioni  fiduciarie
in ambito familiare, scolastico,  medico;  i  vizi  incompleti  della
volonta'; la debolezza informativa. In ogni caso, si deve trattare di
giudizi    di    carattere    asimmetrico    riguardanti    contratti
asimmetrici(27). 
    La terza  fase  e'  quella  del  riconoscimento  della  rilevanza
generalizzata  dello  squilibrio  (che  diverrebbe  sindacabile   dal
giudice in relazione  a  tutti  i  contratti,  non  solo  per  quelli
asimmetrici, con un sindacato che riguarda l'ingiustizia in se' e non
solo l'ingiustizia come frutto di una procedura viziata di formazione
della volonta'. 
    A venire in rilievo sono, in particolare, le ordinanze n. 248 del
2013 e n. 13 del 2014 Corte cost., SS.UU. C. cass. n. 9140  del  2016
sulla claims made ulteriormente puntualizzata nel  2017  n.  10509  e
infine SS.UU. n. 4224 del 2017. 
    Queste pronunce,  pur  diverse  in  relazione  alla  materia  cui
afferiscono se in  campi  diversi,  introducono  un  concetto  nuovo:
l'equita' contrattuale sarebbe un valore generale che il giudice deve
tutelare a prescindere dall'asimmetria delle  parti  e  di  eventuali
processi perturbativi della volonta'. Cio' in quanto a rilevare, alla
luce dei precetti costituzionali di solidarieta',  sarebbe  anche  la
mera substantial injustice. 
    Le Sezioni Unite, in materia di claims made, del 2016 e del 2017,
hanno affermato che, se la clausola claims made di  carattere  spurio
(=che limita l'indennizzo agli infortuni che, non solo siano accorsi,
ma anche denunciati nel corso della vigenza contrattuale) non  e'  di
per se' nulla, in concreto puo' diventare tale  laddove  produca  uno
squilibrio significativo di carattere irragionevole,  perseguendo  un
interesse ingiusto e sproporzionato e  producendo  una  incontrollata
soggezione dell'assicurato nei confronti della  assicurazione,  cosi'
violando  i  principi  di   solidarieta'   e   parita'   e   di   non
prevaricazione. 
    Infine, SS.UU.  del  2017,  con  riferimento  alla  clausola  nel
contratto di concessione per la derivazione d'acqua che  imponeva  il
pagamento del canone anche durante il periodo di non utilizzabilita',
per  motivi  oggettivamente  impossibilitanti  all'uso  della   fonte
idrica,  hanno  ritenuto  che  si  tratti  di  una  clausola  iniqua,
sperequata che deroga la corrispettivita'  della  concessione  e  che
trasforma il contratto atipico commutativo, in un contratto aleatorio
che lede l'art. 41 Cost. 
    Quindi,  tutte  le  suddette  sentenze   danno   rilevanza   alla
ingiustizia  in  quanto  tale  e   utilizzano   come   parametri   di
valutazione, addirittura principi costituzionali  fondamentali,  come
la  solidarieta',  la  parita',  la  non  prevaricazione,  l'equita',
l'iniziativa economica. 
    Tale orientamento non ha mancato di destare plurime critiche: 
        il sovvertimento radicale del principio di autonomia privata.
A tal riguardo,  e'  stato  affermato  che  e'  difficile  immaginare
qualcosa di piu' contrastante con il principio di  autonomia  privata
rispetto al precetto dell'ingiustizia  contrattuale,  sindacabile  in
base a valori che, secondo  taluna  dottrina,  sarebbero  di  rilievo
costituzionale; 
        il venir meno delle  certezza  dei  rapporti  giuridici:  con
conseguente «deriva da Common Law», che  attribuisce  al  giudice  il
compito, sostanzialmente sovrano, tipico di  quei  sistemi.  Padolesi
afferma che l'art. 2 Cost. diventa in un qualche modo un  apriscatole
giuridico, che entra nel contratto e impone un contenuto  conforme  a
buona fede; 
        il superamento della distinzione tra norme di comportamento e
norme sull'atto: se la substantive justice implica una valutazione in
termini di giustizia sostanziale, allora sono prefigurabili norme sul
comportamento, la  cui  violazione  determina  un  divieto  dell'atto
ingiusto e, quindi, una causa di nullita'. 
    Invero, le ipotesi venute al vaglio del giudice di legittimita' e
di  quello  delle  leggi,  sembrano  connotarsi  per   il   carattere
qualificato della soglia di proporzione  che  legittima  l'intervento
giudiziale. Deve, infatti, ricorrere un'iniquita'  manifesta,  ovvero
eclatante e tale da esigere una ricomposizione. 
    Dunque, pur nella sua  generalizzazione  l'intervento  giudiziale
non puo' prescindere dalla verifica di tale soglia di gravita'  della
sproporzione. 
    Invero, secondo questo Giudice remittente,  non  esistono  valide
ragioni logiche per ritenere che tale ordine  di  considerazioni  sia
estendibile anche alle ipotesi in cui  la  proporzione  debba  essere
vagliata con riguardo non alle prestazioni convenute dalle parti,  ma
ai sacrifici imposti aliunde,  ad  esempio,  come  nella  fattispecie
concreta, per effetto di un provvedimento giudiziale o, in  generale,
di un factum principis (come nel caso di un'ipotetica  sopravvenienza
normativa). 
    Quanto alla possibilita' di poter prescindere  da  un'istanza  in
tal senso della parte interessata, affermata,  per  la  prima  volta,
dalle gia' menzionate Sezioni Unite del 2005 e ribadita  dalla  Corte
costituzionale nel 2014, con riguardo alle prestazioni  contrattuali,
si ritiene di non poter prescindere dai correttivi  che  si  vanno  a
enucleare. 
    In particolare, deve ritenersi  che  quando,  come  nel  caso  di
specie, le difese della parte interessata non siano incompatibili con
l'intervento  giudiziale,  tale  sindacato  officioso  debba   essere
assicurato. Cio', anche a prescindere dall'esistenza di  una  formale
istanza di parte. 
    Si pensi anche all'ipotesi in cui, a prescindere dalle  richieste
di  tutela  formulate,  sia  stata,  comunque,   compiuta   attivita'
assertiva e di prova ad opera delle parti che sia utile a  consentire
l'esercizio di  tale  potere  officioso.  Cio',  nella  premessa  che
proprio l'assolvimento di tale  onere  processuale,  ad  opera  delle
parti, costituisce  condizione  per  la  pronuncia  ex  officio,  non
potendo il Giudice, come noto, far uso della propria scienza privata. 
    In tal senso, e' richiamabile anche Tribunale Ancona sez. II,  19
agosto 2019, n. 1457, secondo cui «In tema  di  clausola  penale,  il
potere di riduzione ad equita', attribuito al giudice  ex  art.  1384
del codice civile, a tutela dell'interesse generale dell'ordinamento,
puo' essere esercitato d'ufficio, ma l'esercizio di  tale  potere  e'
subordinato all'assolvimento degli  oneri  di  allegazione  e  prova,
incombenti  sulla  parte,  circa  le  circostanze  rilevanti  per  la
valutazione dell'eccessivita' della penale,  che  deve  risultare  ex
actis ossia dal  materiale  probatorio  legittimamente  acquisito  al
processo, senza che il giudice possa ricercarlo d'ufficio». 
    Specularmente, l'autonoma iniziativa giudiziale,  in  materia  di
riequilibrio contrattuale, dovrebbe  ritenersi  preclusa  quando  sia
manifestata (espressamente o tacitamente) una volonta' contraria alla
stessa. 
    Orbene,  mutata  mutandis,  deve  ritenersi  che,   anche   nella
fattispecie  concreta  di   intervento   volto   ad   assicurare   la
proporzionalita' non di una prestazione,  liberamente  convenuta,  ma
del sacrificio imposto, ope iudicis, lo stesso non  possa,  comunque,
attuarsi in contrasto con la volonta' della parte a cio' interessata. 
10. Sintesi della questione 
    Come evidenziato dalla  difesa  dell'opponente,  solo  a  seguito
della riforma del 2022, la nuova formulazione dell'art.  614-bis  del
codice di procedura  civile  -  inapplicabile  nel  caso  di  specie,
ratione temporis - ha previsto che,  nell'applicazione  della  misura
coercitiva indiretta, il giudice, che  ha  emesso  il  provvedimento,
«puo'», ma non deve, «fissare un  termine  di  durata  della  misura,
tenendo conto della finalita' della  stessa  e  di  ogni  circostanza
utile». 
    La vecchia formulazione della norma, applicabile, invece, ratione
temporis, nulla prevedeva al riguardo. 
    Nondimeno, ne' la norma previgente ne' la nuova - conservando una
rigida dicotomia fra fase della cognizione e fase  dell'esecuzione  -
consentono al G.e. di fissare un tetto massimo o un termine finale di
durata  della  misura  all'astreinte,  irrogata  dal  Giudice   della
cognizione. 
    Infatti, tale facolta' parrebbe concessa - e solo dalla novella -
in alternativa, al giudice della cognizione -  ovvero  a  quello  che
abbia emesso la misura in sede cautelare o che tale  misura  abbia  a
emettere ex novo o a confermare in sede di merito - oppure  a  quello
dell'esecuzione, senza  alcuna  possibilita'  che  il  secondo  possa
intervenire, seppure solo in chiave specificativa e integrativa e non
correttiva, sull'operato del secondo. 
    Nel caso  di  specie,  il  giudice  del  cautelare,  in  sede  di
emissione dell'ordinanza, assunta il 2 settembre 2022, non fissava un
limite temporale di operativita' della misura, superato il  quale  si
potesse   (e   dovesse)   prendere   atto   della   sua   esorbitanza
sopravvenuta(28). 
    Si e' creata, quindi, una situazione paradossale - peraltro,  non
eccezionale, ma suscettibile di riproporsi anche in altre fattispecie
-: l'astreinte - sia che la si riscostruisca in termini  risarcitori,
sia che la si consideri come finalizzata a sanzionare l'inadempimento
di  un'obbligazione  di  consegna  rientrante  nell'adempimento   del
contratto di prestazione d'opera  professionale  -  permetterebbe  al
creditore di conseguire, anzitempo, quanto richiesto  nel  successivo
giudizio di merito,  con  domanda  di  risarcimento  per  equivalente
derivante dalla violazione contrattuale o, persino, di conseguire una
misura economica sine die e, per sua stessa natura, sproporzionata. 
    Cio', peraltro, senza che  sia  in  qualche  modo  previsto  che,
nell'ipotesi in cui, come quella di cui al caso di specie,  venga  ad
essere  riconosciuta  al  creditore,  una  tutela  risarcitoria   per
equivalente, la sanzione irrogata sia destinata a cessare di  operare
per il futuro. 
    Peraltro,     la     possibilita'      di      un'interpretazione
costituzionalmente conforme non sembra agevolmente praticabile per le
ragioni gia' espresse. 
    Cio' sembra doversi escludere, nonostante il tentato richiamo  ai
principi generali di: 
        1. buona fede oggettiva che sembrerebbe ristretta  all'ambito
negoziale; 
        2.  equita',  secondo  molti,   richiedente,   per   la   sua
operativita', un'espressa previsione di legge; 
        3. della generale  rilevanza  delle  sopravvenienze  e  della
correlata clausola rebus sic stantibus. 
    Cio', in considerazione della  difficolta'  di  qualificare,  nei
suddetti termini, l'esorbitanza della somma maturata, sulla  base  di
una misura, periodica, fin dall'origine predefinita e conosciuta  dal
destinatario. Da cio', al contempo, la  non  invocabilita'  dell'art.
669-decies del codice di procedura civile, in materia di revoca delle
misure cautelari. 
    Tale assetto regolatorio parrebbe, ad una valutazione preliminare
e di non manifesta infondatezza,  quale  e'  tenuto  questo  Giudice,
porsi in contrasto: 
        1) coi richiamati principi costituzionali di ragionevolezza e
di  proporzionalita',  per  l'evidente  esorbitanza  del   sacrificio
economico inferto al destinatario della misura; 
        a1) nonche'  di  uguaglianza,  l'ordinamento  prevedendo,  in
altre sedi normative (come quella della caparra confirmatoria e della
penale) in presenza  di  un  sacrificio  patrimoniale  manifestamente
sproporzionato, forme di riequilibrio, variamente modulate, peraltro,
disponibili anche d'ufficio; 
        b) sotto il profilo della tutela del dominium, con l'art. 42,
comma  4,  Cost.  e  -  data  la  valenza   di   diritto   personale,
fondamentale, della persona cui lo stesso viene elevato  dal  sistema
convenzionale - con l'articolo 117 Cost., come integrato, quale norma
interposta, dell'art. 1 del Protocollo 1  della  Convenzione  europea
dei diritti dell'uomo (CEDU). Infatti, una  penale  sproporzionata  e
sine die espone la sfera patrimoniale del destinatario della stessa -
e, dunque, i beni di  tal  ultimo  -  al  pericolo  di  un'esecuzione
forzosa, sia mobiliare sia  immobiliare,  con  compressione  ingiusta
dell'oggetto del suo dominium; 
        c) con gli articoli 24, 113 Cost., 6, 13 CEDU e 47 Cost,  che
positivizzano, a vari livelli, il  principio  di  effettivita'  della
tutela.   Infatti,   lo   strumentario   processuale   attuale    non
consentirebbe al Giudice dell'esecuzione di porvi  rimedio  d'ufficio
al sacrificio sproporzionato cui e'  esposto  il  destinatario  della
misura, ponendo alla misura un tetto massimo  (ne'  quantitativo  ne'
temporale). 
11. Quesito posto al vaglio della Corte costituzionale 
    Sulla base di  quanto  sinora  esposto,  dunque,  ritiene  questo
Tribunale che siano configurabili le condizioni richieste ai fini del
rinvio al Giudice delle leggi. 
    Occorre, quindi, procedere al rinvio pregiudiziale degli  atti  -
per la risoluzione della questione di diritto sopra illustrata  -  al
Giudice delle leggi, al  quale  la  presente  ordinanza  deve  essere
immediatamente trasmessa (con comunicazione alle parti). 
    Dunque, il quesito che si vorrebbe sottoporre  al  Giudice  delle
leggi e' quello relativo all'eventuale contrarieta'  ai  principi  di
ragionevolezza e di proporzionalita'  della  previgente  formulazione
dell'art. 614-bis del codice di procedura civile, applicabile ratione
temporis, nella parte in cui non prevede la  possibilita',  da  parte
del  Giudice  dell'esecuzione,  di  determinare  ex  post  un   tetto
quantitativo massimo  (o  anche  solo  temporale)  all'operare  delle
misure ex 614-bis del codice di procedura civile su istanza di  parte
o, come nel caso di specie, anche d'ufficio. Cio', ogniqualvolta  una
fissazione ex ante non sia avvenuta ne' ad opera  del  giudice  della
cautela, ne' del giudice del merito  (e  sempre  che  non  esista  un
giudicato in relazione a tale  profilo).  Ove,  infatti,  esista  una
pronuncia passata in giudicato con riguardo all'entita' massima della
misura coercitiva esigibile,  qualunque  interferenza  da  parte  del
giudice dell'opposizione darebbe luogo ad una  violazione  della  res
iudicata. 
    Si chiede all'ill. ma Corte di valutare e dichiarare tale profilo
d'incostituzionalita', sempre, che l'ill.ma Corte adita  non  ritenga
ammissibile  -  come  pure  prospettato  dalla   suesposta   dottrina
minoritaria, non del tutto condivisa da questo Giudice  -  un'esegesi
della norma che consenta al Giudice  dell'opposizione  all'esecuzione
di determinare un tetto quantitativo massimo (o anche solo temporale)
all'operare delle misure ex art.  614-bis  del  codice  di  procedura
civile (su istanza di  parte  o,  come  nel  caso  di  specie,  anche
d'ufficio). 
    A  tale  remissione  consegue  la  necessita'  di  sospendere  il
procedimento (non configurandosi peraltro, almeno allo stato,  alcuna
necessita' di compiere atti urgenti, ne'  attivita'  istruttorie  non
dipendenti  dalla  soluzione  della  questione  oggetto  del   rinvio
pregiudiziale), sino alla determinazione da parte del  Giudice  delle
leggi ed alla successiva riassunzione. 
 
__________ 
 
  (25) Tale sindacato, inerendo al momento genetico, non  va  confuso
con quello che puo' essere svolto alla  luce  di  sopravvenienze  che
incidano sui presupposti  iniziali  della  stipulazione,  delle  c.d.
sopravvenienze  perturbatrici,  idonee  a  sconvolgere  il  programma
negoziale,  o  a  interferire  sullo  stesso,  alla  luce  di  eventi
imprevisti al momento della pattuizione. Si tratta di  sopravvenienze
tipiche, come la eccessiva onerosita', l'impossibilita' sopravvenuta,
ma anche quelle atipiche, come la presupposizione,  come  il  difetto
sopravvenuto della causa del negozio, come lo squilibrio sopravvenuto 
 
  (26) In relazione  al  principio  di  causalita',  deve  ricordarsi
quanto segue: i) lo stesso e' generale e vale  per  tutti  i  negozi,
anche se espresso in modo esplicito per il solo contratto.  Vale  per
tutti i contratti  -  tipici/atipici,  gratuiti/onerosi,  formali/non
formali - e anche per tutti i negozi diversi  dal  contratto,  com'e'
reso evidente dall'art. 1324 del codice  civile,  che  per  i  negozi
unilaterali rinvia alle norme compatibili sul contratto, tra cui c'e'
indubbiamente la norma sulla causalita'. In questo, per  esempio,  ci
differenziamo dal sistema anglosassone, che  collega  la  causa  alla
forma, per cui reputa necessaria la consideration,  solo  quando  non
c'e' una forma pubblica, mentre laddove  questa  c'e',  essendoci  il
controllo notarile, assorbe il problema causale.  Il  problema  della
forma non sostituisce, ma lascia  impregiudicato  il  problema  della
causa.  Il  principio  di  necessaria  causalita'  trova  una  deroga
parziale solo nei titoli di credito, negli articoli 1992  e  ss.  del
codice civile; ii) Il principio di causalita'  e'  inderogabile:  non
solo e' generale, ma e' anche imperativo, cioe'  le  pattuizioni  che
stabiliscano che l'effetto  giuridico  si  produrra',  nonostante  la
mancanza di causa, quindi negozi  che  svincolino  la  validita'  del
negozio dal  problema  causale  sono  chiaramente  illeciti,  perche'
contrari alla norma imperativa non derogabile che impone la causa. Si
puo'  non  stipulare  un  contratto  attraverso  l'intento  giuridico
negativo (=un accordo tra gentiluomini), ma se lo si stipula  non  si
puo' derogare alle norme imperative del contratto. Un contratto senza
causalita' non e' un contratto valido a  prescindere  dalla  volonta'
delle parti; iii) Non solo il principio di causalita' e'  generale  e
non  e'  derogabile  dalle  parti,  ma  non   e'   neppure   derogato
dall'ordinamento giuridico. Tranne in parte i titoli di credito,  che
pero' hanno una disciplina legata alla letteralita' e alle  modalita'
di circolazione che li rende non  comparabili  con  il  contratto  in
generale, non esiste  alcun  ipotesi  normativa  che  preveda  questo
precetto: questo contratto e'  valido  ed  efficace  definitivamente,
nonostante l'assenza di una causa. Non c'e' nessuna ipotesi in cui il
Legislatore  svincoli  la  validita'  e  l'efficacia  definitiva  del
contratto dal problema della causa. E' come se il legislatore  avesse
percepito il valore costituzionale del  principio  causale  e  quindi
l'impossibilita' di derogarlo in pieno, anche per gli atti di  legge.
Ci sono dei temperamenti  e  delle  deroghe  parziali  del  principio
causale, ma non delle deroghe di carattere assoluto, ne' eccezioni di
natura radicale. 
 
  (27) Questa seconda fase, si conclude con il porsi il  problema  di
quale sia la sanzione che l'ordinamento giuridico da' a un  contratto
ingiusto  frutto  di  un  procedimento   iniquo   in   un   contratto
asimmetrico. In disparte le fattispecie  tipiche,  per  le  quali  la
legge offre una soluzione espressa (v. l'art. 33 che  qualifica  come
nulli i contratti limitatamente alle  clausole  che  determinano  uno
squilibrio normativo ed eccezionalmente economico), la soluzione  che
viene prefigurata si fonda sul binomio responsabilità-inefficacia. Si
esclude, per contro, la nullita' perche' l'art.  1418,  comma  1  del
codice civile non e' estensibile alle  violazioni  procedimentali  e,
quindi, quando risulti violata una norma comportamentale. Si  ritiene
che l'art. 36 del cod. cons., che sancisce la nullita' delle clausole
di  cui  all'art.  33  cod.  cons.,  sia  una  norma  dalla   portata
eccezionale e, come tale, non suscettibile di applicazione analogica.
Invero, a tal riguardo, sono individuabili delle ipotesi  in  cui  la
disparita' da' luogo a mancanza di causa,  dunque  una  nullita'  sul
piano causale. Quindi, sotto il profilo dell'apparato  rimediale,  la
regola sarebbe: a) la responsabilita' precontrattuale,  per  i  danni
patiti dal contraente debole per aver  stipulato  un  contratto  meno
favorevole  di  quello  che  avrebbe  altrimenti  stipulato.  Dunque,
sarebbe  prefigurabile   una   responsabilita'   precontrattuale   da
contratto valido; b) laddove la tutela risarcitoria non sia efficace,
perche' il problema riguarda l'an piu' che il contenuto economico, lo
squilibrio normativo piu'  che  quello  valoristico,  o  vi  sia  una
difficolta' di prova  del  danno  risarcibile,  e'  prefigurabile  il
ricorso all'inefficacia ex bona fidem. La dottrina si e' espressa  in
termini di esecuzione in forma specifica dell'obbligo di  buona  fede
oggettiva che deve ritenersi violato dal contraente che abbia imposto
un regolamento iniquo.  Tale  forma  rimediale  si  sostanzia  in  un
diniego di tutela  rispetto  a  comportamenti  scorretti  e,  quindi,
nell'inesigibilita' della prestazione contrattuale,  nella  parte  in
cui prevede delle prestazioni  inique.  L'iniquita'  e',  dunque,  un
profilo che il giudice deve stigmatizzare, ma solo se  si  tratta  di
una ingiustizia procedurale, registrata in relazione a dei  contratti
asimmetrici. 
 
  (28) Va precisato pero' che alla data di  emissione  non  risultava
ancora in vigore la riforma di cui  all'art.  3,  comma  44,  decreto
legislativo 10 ottobre 2022, n. 149, con effetto a decorrere  dal  30
giugno  2023  e   con   applicazione   ai   procedimenti   instaurati
successivamente a tale data. 

 
                               P.Q.M. 
 
    Il Tribunale ordinario di Brindisi, pronunziando nel giudizio  in
epigrafe meglio indicato: 
        1. Visti gli articoli 134 della Costituzione, 1  della  legge
cost. 9 febbraio 1948, n. 1, e 23 della legge 11 marzo  1953,  n.  87
dichiara rilevante nel caso di specie e non manifestamente  infondata
la questione di legittimita'  costituzionale  dell'art.  614-bis  del
codice di procedura civile con riferimento: 
          a)  all'art.  3   della   Costituzione,   con   particolare
riferimento   ai   principi   di   uguaglianza,   ragionevolezza    e
proporzionalita'; 
          b) all'art. 42, comma 4, Cost.  e  -  data  la  valenza  di
diritto personale, fondamentale, della persona cui  lo  stesso  viene
elevato dal sistema convenzionale  -  all'articolo  117  Cost.,  come
integrato, quale norma interposta, dell'art. 1 del Protocollo 1 della
Convenzione europea dei diritti dell'uomo (CEDU); 
          c) agli articoli 24, 113 Cost., 6, 13 CEDU e 47 Cost.; 
        2. dispone l'immediata trasmissione  degli  atti  alla  Corte
costituzionale,  perche':  «voglia  dichiarare  l'incostituzionalita'
dell'art. 614-bis del codice di procedura civile - nella formulazione
applicabile, pro tempore, alla fattispecie concreta - nella parte  in
cui - legittimando un vincolo sine die  e,  quindi,  perpetuo  -  non
prevede,  da  parte  del   Giudice   dell'opposizione   a   precetto,
l'esercizio,  su  istanza  di  parte  o  d'ufficio,  del  potere   di
determinare un tetto quantitativo massimo (o  anche  solo  temporale)
all'operare delle misure ex art.  614-bis  del  codice  di  procedura
civile. Cio', nell'ipotesi  in  cui  tale  fissazione  non  sia  gia'
avvenuta, ex ante, da parte del  giudice  della  cautela,  oppure  da
parte dal giudice del merito (e sempre che non  esista  un  giudicato
sul punto)»; 
        3. sospende il procedimento sino alla restituzione degli atti
da parte della successivamente alla definizione della questione; 
        4.  ordina  che,  a  cura  della  cancelleria,  la   presente
ordinanza sia notificata alle parti in causa  ed  al  Presidente  del
Consiglio dei ministri e comunicata ai Presidenti  della  Camera  dei
deputati e del Senato della Repubblica. 
          Brindisi, 29 luglio 2025 
 
                            Il GI: Natali
                    
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