Reg. ord. n. 211 del 2025 pubbl. su G.U. del 05/11/2025 n. 45
Ordinanza del Tribunale di Brindisi del 29/07/2025
Tra: R.A. S. C/ P. L.
Oggetto:
Processo civile – Esecuzione forzata – Misure di coercizione indiretta – Esercizio, su istanza di parte o d’ufficio, da parte del giudice dell’opposizione a precetto (e, in generale, del giudice dell’esecuzione) del potere di determinare ex post un tetto quantitativo massimo (o di durata) all’applicazione delle misure di coercizione indiretta, in mancanza di predeterminazione da parte del giudice della cautela o del giudice del merito – Omessa previsione – Denunciata introduzione di un vincolo potenzialmente perpetuo – Violazione dei principi di ragionevolezza e di proporzionalità – Contrasto con il principio della libertà negoziale e con la tutela del diritto di proprietà – Violazione dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali con riferimento al diritto al rispetto dei beni, espresso dal Protocollo addizionale alla CEDU – Violazione del principio di effettività della tutela giurisdizionale e del diritto a un equo processo, tutelati anche a livello convenzionale e sovranazionale – Violazione del principio di eguaglianza, in relazione a fattispecie nelle quali è stata riconosciuta la possibilità di intervento ex officio a tutela dell’equilibrio contrattuale.
Norme impugnate:
codice di procedura civile del Num. Art. 614
decreto legislativo del 10/10/2022 Num. 149 Art. 3 Co. 44
Parametri costituzionali:
Costituzione Art. 3 Co.
Costituzione Art. 24 Co.
Costituzione Art. 41 Co. 2
Costituzione Art. 42 Co. 4
Costituzione Art. 47 Co.
Costituzione Art. 111 Co.
Costituzione Art. 113 Co.
Costituzione Art. 117 Co. 1
Convenzione per la salvaguardia diritti dell'uomo e libertà fondamentali Art. 6 Co.
Convenzione per la salvaguardia diritti dell'uomo e libertà fondamentali Art. 13 Co.
Protocollo n. 1 a Convenzione europea diritti dell'uomo Art. 1 Co.
Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea Art. 47 Co.
Testo dell'ordinanza
N. 211 ORDINANZA (Atto di promovimento) 29 luglio 2025
Ordinanza del 29 luglio 2025 del Tribunale di Brindisi nel
procedimento civile promosso da R.A. S. contro P. L., I. M. e M. L..
Processo civile - Esecuzione forzata - Misure di coercizione
indiretta - Esercizio, su istanza di parte o d'ufficio, da parte
del giudice dell'opposizione a precetto (e, in generale, del
giudice dell'esecuzione) del potere di determinare ex post un tetto
quantitativo massimo (o di durata) all'applicazione delle misure di
coercizione indiretta, in mancanza di predeterminazione da parte
del giudice della cautela o del giudice del merito - Omessa
previsione.
- Codice di procedura civile, art. 614-bis, nella formulazione
anteriore a quella sostituita dall'art. 3, comma 44, del decreto
legislativo 10 ottobre 2022, n. 149 (Attuazione della legge 26
novembre 2021, n. 206, recante delega al Governo per l'efficienza
del processo civile e per la revisione della disciplina degli
strumenti di risoluzione alternativa delle controversie e misure
urgenti di razionalizzazione dei procedimenti in materia di diritti
delle persone e delle famiglie nonche' in materia di esecuzione
forzata).
(GU n. 45 del 05-11-2025)
TRIBUNALE DI BRINDISI
Sezione civile - Settore procedure concorsuali
Il GI, letti gli atti ed i documenti di causa;
viste le deduzioni delle parti e sciolta la riserva formulata
all'udienza del 10 luglio 2025;
Osserva
Per comodita' espositiva si fa precedere al testo dell'ordinanza
l'indice seguito nella stesura della stessa:
Indice
1. La fattispecie concreta
2. La questione d'incostituzionalita': la contrarieta' ai
principi di uguaglianza, ragionevolezza, di proporzionalita'
dell'art. 614-bis del codice di procedura civile, nella formulazione
previgente alla riforma Cartabia, nella parte in cui non prevede la
possibilita', da parte del Giudice dell'opposizione a precetto, di
determinare ex post un tetto quantitativo massimo (o anche solo
temporale) all'operare delle misure ex 614-bis del codice di
procedura civile (su istanza di parte o, come nel caso di specie,
anche d'ufficio).
3. Presupposti per l'ammissibilita' del rinvio all'ill.ma Corte
costituzionale.
3.1. Perimetrazione della questione e rilevanza ai fini del
caso di specie.
3.2. Inquadramento dell'istituto.
4. Possibilita' di un'interpretazione costituzionalmente
conforme: gli argomenti a favore della soluzione favorevole alla
possibilita', per il giudice dell'esecuzione, ove gia' non fatto dal
giudice del merito, di determinare ex post un tetto quantitativo o
temporale, massimo, all'operare delle stesse.
4.1. La clausola generale rebus sic stantibus e la rilevanza
delle sopravvenienze. La qualificabilita' della esorbitanza della
somma maturata nei suddetti termini.
4.2. La riduzione d'ufficio della penale manifestamente
eccessiva quale argomento logico richiamabile a favore della
possibilita' di apporre d'ufficio un tetto massimo. L'estensione del
principio di necessario equilibrio del rapporto contrattuale, ad
opera del giudice delle leggi, alla caparra confirmatoria (seppur
ricorrendo al diverso rimedio della sanzione della nullita'
parziale).
4.3. Il fondamento equitativo del potere del G.e. di fissare ex
post di un limite massimo all'astreinte, determinata dal giudice del
merito; cosi' come dello stesso potere del giudice della cognizione
di provvedere alla sua riduzione (ove non gia' coperta da giudicato).
4.4. Un argomento sistematico in favore del potere di fissare,
anche ex officio, un tetto massimo ad una misura, aliunde irrogata:
la posizione della giurisprudenza amministrativa.
4.5. Argomento sistematico-evolutivo.
4.6. La qualificabilita' dell'eccessiva esosita' della penale
quale fatto sopravvenuto
4.7. Opponibilita' dell'exceptio doli generalis (al di fuori
dell'ambito contrattuale).
5. Le criticita' mosse alla soluzione favorevole e la non agevole
sperimentazione di un'interpretazione costituzionalmente orientata.
6. Non manifesta infondatezza della questione di legittimita'
costituzionale per violazione dei principi di ragionevolezza e
proporzionalita' ex art. 3 Cost.
6.1. Il divieto di vincoli perpetui quale declinazione dei
principi de quibus.
6.2. Ricostruzione dei principi alla luce della giurisprudenza
costituzionale.
6.2.1. Il principio di ragionevolezza.
6.2.2. Il principio di proporzionalita'.
6.2.3. La peculiarita' della disciplina del caso di specie.
6.2.4. I profili evidenziati dalla difesa dell'opponente,
rappresentata dal prof. V. Farina.
7. Non manifesta infondatezza della questione di legittimita'
costituzionale per violazione dell'art. 42, comma 4, Cost., nonche'
dell'articolo 117 Cost., come integrato, quale norma interposta,
dell'art. 1 del Protocollo 1 della Convenzione europea dei diritti
dell'uomo (CEDU).
8. Non manifesta infondatezza della questione di legittimita'
costituzionale per violazione del principio di effettivita' della
tutela giurisdizionale ex articoli 24, 111 Cost. e 47 CDFUE, nonche'
dell'117 Cost., come integrato, quali norme interposte, dagli
articoli 6 e 13 Cedu
9. Non manifesta infondatezza della questione di legittimita'
costituzionale per violazione del principio di uguaglianza ex art. 3
Cost.
10. Sintesi della questione.
11. Quesito posto al vaglio della Corte costituzionale.
1. La fattispecie concreta
L'opposizione a precetto nasce da un giudizio di natura
cautelare, a seguito del quale, e' stata emessa una misura coercitiva
indiretta al fine di indurre gli opponenti all'adempimento
dell'obbligazione di consegna di una determinata documentazione
medica, formata e acquisita nel corso dell'attuazione del rapporto
professionale.
In particolare, consta ex actis che l'anno ... gli opposti
chiedevano al dott. ... (medico dentista), che accettava, di poter
usufruire della sua opera professionale per la risoluzione di un
problema dentario che affiggeva la loro figlia minore, L. M.
Veniva, quindi, effettuato un esame radiologico sull'apparato
dentario della minore, in base al quale il suddetto professionista e
la sua collaboratrice dott.ssa ... (medico specialista odontoiatra)
verificavano il tipo di cure di cui necessitava L. M.
Ebbe, poi, inizio, presso lo studio professionale, un lungo
percorso terapeutico. Nel ..., quando il ciclo terapeutico volgeva al
termine, i genitori, ritenendo che le cure cui era stata sottoposta
la figlia M. , non avessero prodotto l'esito sperato, si rivolgevano
ad altro medico dentista, il dott. ..., per avere un nuovo consulto.
Con atto di diffida e costituzione in mora del 17 settembre 2021,
gli opposti chiedevano al dott. ... il risarcimento di tutti gli
(asseriti) danni patiti e patiendi - ancora in corso di accertamento
- nonche' di indicare la propria compagnia assicurativa per la
responsabilita' professionale.
Con nota in data 1° ottobre 2021, il dott. ... riferiva che le
cure sulla minore, per quanto praticate presso il proprio studio,
erano state eseguite, in piena autonomia, dalla dott.ssa ... , in
quanto specialista, abilitata in ortodonzia, nei cui confronti li
invitava a rivolgere le richieste risarcitorie.
Con nota, in data 11 ottobre 2021, gli opposti reiterarono la
richiesta di risarcimento dei danni nei confronti del dott. ...,
estendendola anche nei confronti della dott.ssa ... .
Con nota del 12 ottobre 2021, la dott.ssa ... riferiva di aver
avuto in cura L. M. , presso lo studio del dott. .., «esclusivamente
per le cure odontoiatriche», invitandoli a rivolgere le richieste
risarcitorie nei confronti del collega, «quale titolare dello studio,
al quale si era rivolta la minore L. M. , come paziente della
struttura su menzionata.
Dovendo procedere, prima di agire giudizialmente, alla
determinazione dei danni, subiti dalla loro figlia, con nota in data
3 febbraio 2022, gli opposti chiedevano, al dott. ... e alla dott.ssa
... , la restituzione delle radiografie eseguite prima dell'inizio
del ciclo terapeutico cui era stata sottoposta L .M.
Con nota, in data 11 febbraio 2022, il dott. ... riferiva di non
possedere i referti degli esami diagnostici, ribadendo che L. M. era
stata «curata e trattata solo ed esclusivamente dalla dr.ssa ...».
Con nota pec in data 15 febbraio 2022, la dott.ssa ... riferiva,
invece, che «gli originali delle radiografie eseguite sulla minore M.
L. [...] (era)no state restituite presso lo Studio ... in data 24
ottobre 2019».
Premesso tale quadro fattuale, gli opposti adivano (con ricorso
ex artt. 670 e-o 700 ed ex artt. 669-bis e 614-bis del codice di
procedura civile, iscritto sub n. 1668/2022 r.g.) questo Tribunale,
cui chiedevano di essere autorizzati, anche con decreto inaudita
altera parte, a procedere al sequestro giudiziario delle radiografie
in questione, con la contestuale determinazione, ai sensi dell'art.
614-bis del codice di procedura civile, di una somma di denaro per
«ogni giorno» di ritardo nella esecuzione dell'adottando
provvedimento.
Con decreto, emesso inaudita altera parte, in data 27 maggio
2022, questo Tribunale autorizzava gli opposti «a procedere al
sequestro giudiziario delle radiografie eseguite su L. M. ...»,
fissando l'udienza del 7 luglio 2022 per i provvedimenti
consequenziali.
Nelle more, gli opposti ponevano in esecuzione il decreto
inaudita altera parte del 27 maggio 2022, eseguendo il sequestro sia
presso lo studio del dott. ..., sia presso quello della dott.ssa ....
Tuttavia, entrambi i tentativi risultavano infruttuosi in quanto
i due professionisti dichiaravano di non essere in possesso delle
radiografie di cui trattasi (v. verbale del sequestro eseguito nei
confronti della dott.ssa ..., in atti).
Entrambi i medici si costituivano, poi, nel giudizio cautelare,
ribadendo le medesime (e antitetiche) versioni, relative alla
disponibilita' della documentazione richiesta, gia' sostenute ante
causam.
Con ordinanza resa in data 2-5 settembre 2022,(... v. doc. 1, in
atti), questo Tribunale, sciogliendo la riserva, confermava la gia'
concessa autorizzazione a procedere al sequestro giudiziario delle
radiografie e, avendo constatato il perdurare dell'inadempimento
nella riconsegna delle radiografie, condannava i resistenti al
pagamento, in solido, della somma di euro 50,00 per ogni giorno di
ritardo nella esecuzione dell'ordinanza stessa.
Avverso tale ordinanza proponevano reclamo sia la dott.ssa ...
(iscritto sub n. 2805/2022 r.g.), sia il dott. ... (iscritto sub n.
2833/2022 r.g.).
Nell'attesa dell'adottando provvedimento collegiale (che avrebbe
definito la fase cautelare), gli opposti introducevano il giudizio di
merito (che pende sub n. 3474/2022 r.g. Tribunale
Brindisi), avanzando, nei confronti dei due medici, la domanda di
risarcimento danni, alla cui quantificazione avevano dovuto procedere
senza poter disporre delle ridette radiografie.
Con provvedimento, in data 10 luglio 2023 (v. doc. 2), questo
Tribunale rigettava entrambi i reclami, condannando i reclamanti al
pagamento delle spese legali e confermando l'ordinanza del 25
settembre 2022, con cui i due medici erano stati condannati, in
solido, al pagamento della somma di euro 50,00 per ogni giorno di
ritardo nella esecuzione della medesima.
Sulla scorta degli accadimenti sin qui narrati ed in forza della
ordinanza, resa da questo Tribunale, in data 2-5 settembre 2022, gli
opposti hanno notificato, in data 20 luglio 2023, atto di precetto al
dott. ... e alla dott.ssa ... (v. doc. 3), intimando il pagamento
della somma dovuta a titolo di astreinte, ossia per ogni giorno
ritardo (a decorrere dal 5 settembre 2022 e sino al 20 luglio 2023)
nella esecuzione della ordinanza medesima.
L'importo che veniva precettato era pari a 15917.06 ed era
limitato al quantum maturato fino al giorno del precetto, senza che
la parte manifestasse la volonta' di limitare, nel futuro, la propria
pretesa a quanto richiesto con l'attivita' precettizia.
Avverso il succitato precetto (soltanto) la dott.ssa ... ha
proposto opposizione, ai sensi dell'art. 615 del codice civile, con
atto notificato in data 4 agosto 2023 (v. doc. 4), citando gli
opposti a comparire innanzi a questo Tribunale per l'udienza del 20
dicembre 2023.
In particolare, l'opponente si doleva dell'assenza delle
condizioni giuridiche richieste per una legittima attivita'
precettizia.
Orbene, ritiene questo Giudice, ad una valutazione prima facie,
che le ragioni formulate non possano essere accolte ed, in
particolare, che non sia ammissibile una riduzione delle misure ex
art. 614-bis del codice di procedura civile su istanza di parte o
anche d'ufficio;
Dal contraddittorio con le parti, stimolato per l'udienza del 9
maggio, infatti, scaturito che in relazione al suddetto profilo
esiste un precedente specifico della suprema Corte. Con riferimento
alla formulazione anteriore alla novella del 2022, il giudice di
legittimita' ha avuto modo di affermare che «nell'opposizione
all'esecuzione promossa in forza di un'ordinanza ex art. 614-bis del
codice di procedura civile (nella formulazione anteriore alle
modifiche introdotte dal decreto legislativo n. 149 del 2022) non e'
consentito dedurre la scarsa importanza dell'inadempimento o del
ritardo nell'adempimento con l'effetto di ottenere una riduzione del
"quantum" della misura coercitiva, risolvendosi altrimenti
quest'ultima in un'inammissibile modificazione della portata
precettiva del titolo esecutivo giudiziale, permessa unicamente nel
processo di cognizione e attraverso il rituale esperimento dei mezzi
di impugnazione» (Cass. sentenza n. 22714 del 26 luglio 2023).
Cio' induceva questo Giudice a sottoporre, in udienza, alle parti
presenti il diverso, per quanto correlato, profilo relativo alla
possibilita', per il Giudice dell'opposizione a precetto, non essendo
stato fatto dal giudice della cautela o del merito, di predeterminare
un tetto quantitativo massimo all'operare della misura pecuniaria
irrogata ex art. 614-bis del codice di procedura civile
2. La questione d'incostituzionalita': la contrarieta' ai principi di
uguaglianza, ragionevolezza, di proporzionalita' dell'art. 614-bis
del codice di procedura civile, nella formulazione previgente alla
riforma Cartabia, nella parte in cui non prevede la possibilita', da
parte del Giudice dell'opposizione a precetto, di determinare ex post
un tetto quantitativo massimo (o anche solo temporale) all'operare
delle misure ex 614-bis del codice di procedura civile (su istanza di
parte o, come nel caso di specie, anche d'ufficio).
Parte opponente si oppone all'esigibilita' della misura,
negandone la liceita' e la congruita' sotto il profilo quantitativo.
Pacifiche risultano tutte le sopra esposte circostanze di fatto.
Rileva, a tal riguardo, questo Giudice che, come gia'
evidenziato, la definizione della controversia presuppone la
necessaria risoluzione di una complessa questione giuridica, che,
peraltro, non risulta essere gia' stata risolta dalla Corte di
cassazione, relativa al disposto di cui all'art. 614-bis del codice
di procedura civile nella formulazione applicabile, pro tempore, alla
fattispecie concreta, previgente alla riforma Cartabia, entrata in
vigore dal 28 febbraio 2023.
La norma prevedeva che «Con il provvedimento di condanna
all'adempimento di obblighi diversi dal pagamento di somme di denaro
il giudice, salvo che cio' sia manifestamente iniquo, fissa, su
richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dall'obbligato per ogni
violazione o inosservanza successiva ovvero per ogni ritardo
nell'esecuzione del provvedimento. Il provvedimento di condanna
costituisce titolo esecutivo per il pagamento delle somme dovute per
ogni violazione o inosservanza. Le disposizioni di cui al presente
comma non si applicano alle controversie di lavoro subordinato
pubblico o privato e ai rapporti di collaborazione coordinata e
continuativa di cui all'articolo 409. Il giudice determina
l'ammontare della somma di cui al primo comma tenuto conto del valore
della controversia, della natura della prestazione, del danno
quantificato o prevedibile e di ogni altra circostanza utile.».
Per contro, per effetto della riforma Cartabia, l'istituto e'
stato dilatato alla fase esecutiva con implementazione dei poteri
cognitivi del G.e., salvo, poi, comprendere se si tratti di
cognizione sommaria, qual e' quella tipica dello stesso o con
caratteri di pienezza.
E' stata, infatti, aggiunta la previsione per cui «Se non e'
stata richiesta nel processo di cognizione, ovvero il titolo
esecutivo e' diverso da un provvedimento di condanna, la somma di
denaro dovuta dall'obbligato per ogni violazione o inosservanza o
ritardo nell'esecuzione del provvedimento e' determinata dal giudice
dell'esecuzione, su ricorso dell'avente diritto, dopo la
notificazione del precetto. Si applicano in quanto compatibili le
disposizioni di cui all'articolo 612».
La finalita' di tale previsione - ispirata a evidenti esigenze di
semplificazione ed economia processuale - e' quella di evitare che il
creditore, che si sia gia' provvisto di titolo esecutivo, debba
attivare un giudizio di cognizione, al fine di conseguire una
pronuncia, che, invece, a ben vedere, secondo taluna dottrina,
sarebbe, fisiologicamente, rientrante nei poteri del Giudice
dell'esecuzione quale Giudice chiamato all'attuazione del comando
(giudiziale o negoziale) rimasto inadempiuto. Potere da esercitarsi,
d'ufficio, oppure, ove investito di specifica istanza.
In tal senso, deporrebbero, invero, chiari indici sistematici
come la stessa previsione di un potere similare in capo al Giudice
dell'ottemperanza, in sede amministrativa (v. infra).
Invero, la nuova formulazione dell'art. 614-bis del codice di
procedura civile, come novellata dalla riforma Cartabia, consente di
avanzare la domanda di misure coercitive anche nel giudizio di
esecuzione solo se non richiesta nel precedente processo di
cognizione.
Cio' premesso, a venire, potenzialmente, in rilievo, sotto il
profilo della compatibilita' costituzionale dell'assetto normativo
previgente, e' la possibilita' o meno, da parte del Giudice
dell'opposizione a precetto e, in generale, dell'esecuzione, di
determinare ex post un tetto quantitativo massimo (o anche solo
temporale) all'operare delle misure ex 614-bis del codice di
procedura civile su istanza di parte o, come nel caso di specie,
anche d'ufficio. Cio', ogniqualvolta ne' il giudice della cautela,
ne' quello del merito abbiano provveduto a predeterminare il
sacrificio massimo imponibile all'obbligato.
Tale facolta' processuale, secondo un minoritario approccio
interpretativo, dovrebbe ritenersi possibile alla stregua:
a) della profonda crisi della tradizionale distinzione -
avente, invero, una sua intrinseca ragionevolezza - tra attivita' di
tipo cognitorio e attivita' esecutiva cosi' come del passaggio da un
quadro interpretativo - nella vigenza del quale le opposizioni
esecutive costituivano gli unici momenti cognitivi di un'attivita'
esecutiva, congeniata non «per conoscere, ma per attuare un pensiero
giuridico gia' definito». Ragione per cui, nell'ambito dell'economia
complessiva dell'attivita' giudiziaria, l'attivita' accertativa
veniva ad assumere un ruolo del tutto marginale - ad uno stadio
evolutivo, contrassegnato da una vera e propria metamorfosi
dell'azione esecutiva verso un modello poliforme in cui la componente
cognitiva, seppur in una logica di strumentalita' e nelle forme di un
accertamento sommario e provvisorio, appare fortemente potenziata.
In via interpretativa, infatti, si ritiene in essere la
transizione da un ruolo monolitico del G.e., quale mero esecutore di
un comando gia' formato, ad una veste composita e duplice, non solo
esecutiva, bensi' anche di giudice con poteri cognitivi sommari, se
non altro per tutte le questioni veicolabili dalle c.d. eccezioni in
senso lato;
b) dell'applicazione, in via analogica, di quanto previsto
dall'art. 1384 del codice civile, in materia di clausola penale;
fattispecie rispetto alla quale quella in esame presenterebbe profili
di affinita' e che sarebbe espressione di un principio generale, a
sua volta, fondato sull'osservanza del principio di buona fede
oggettiva e di equita';
c) della generalita' dell'ambito applicativo del principio
equitativo, nella nuova dimensione operativa, conseguita dallo
stesso, con l'evoluzione dell'ordinamento interno anche alla luce dei
principi costituzionali come quello solidaristico. La valorizzazione
di tale clausola generale potrebbe legittimare il giudice del merito
alla revisione, ex officio, di quanto disposto in sede cautelare,
nonche' il giudice dell'esecuzione alla quantificazione, seppur in
via postuma, del massimo concretamente esigibile dall'obbligato,
destinatario della misura;
d) della generalita' dell'ambito applicativo del principio di
buona fede oggettiva;
e) di stringenti argomenti sistematici che si vanno ad
esplicitare, tra cui la posizione assunta dall'Adunanza plenaria del
Consiglio di Stato (Ad. Pl. 2019, n. 2);
f) della naturale vocazione del Giudice dell'esecuzione a
conoscere delle vicende sopravvenute, specie, in fatto, rispetto al
momento genetico del comando da eseguire.
Secondo taluni autori, la verifica della sopravvenuta esorbitanza
della misura sarebbe una prerogativa che compete fisiologicamente
proprio al giudice dell'esecuzione, che e' posto nelle condizioni di
verificare gli effetti prodotti dalla misura, successivamente alla
sua irrogazione e cio' potendo compiere una valutazione comparativa
degli interessi in gioco, in relazione - eventualmente - anche al
nuovo assetto degli stessi venutosi a delineare per effetto del
decorso del tempo nonche' della condotta concretamente tenuta dalle
parti successivamente all'irrogazione della misura.
D'altronde, si afferma, e' proprio il giudice dell'esecuzione
che, come nella fattispecie concreta, a seguito del concreto e
compiuto sviluppo della vicenda fattuale e del suo snodarsi nel
tempo, puo' valutare la ragionevolezza e equita' di una misura
rimasta parzialmente indeterminata da parte del giudice della cautela
(o del merito).
Ne', invero, tale funzione puo' essere, efficacemente, assunta
dal giudice del correlato giudizio di merito, instaurato a seguito
della definizione della fase cautelare e ai fini della conservazione
della stabilita' degli effetti della stessa.
Cio', per due ordini di ragioni:
a) il destinatario della misura che ambisca alla fissazione,
ex post, della durata temporale o dell'importo massimi, per poter
conseguire la tutela agognata - indicando al giudice un importo
complessivo dell'astreinte, che non sia eccedente rispetto al danno
subito dal creditore - dovrebbe attendere la definitivita'
dell'eventuale sentenza di merito che venga ad accogliere la
richiesta risarcitoria della controparte. Come noto, infatti, e
conformemente alla dogmatica processualistica tradizionale, le
sentenze di tipo dichiarativo o costitutivo, ai fini della loro
esecutivita', richiedono il passaggio in giudicato.
Correlativamente, il tempo di attesa potrebbe essere
inconcepibile con il principio di effettivita' della tutela
giurisdizionale, in tal caso, coincidente con l'interesse al
contenimento di una misura sanzionatoria di tipo patrimoniale che,
diversamente, sarebbe destinata, ad incidere sine die sulla propria
sfera patrimoniale;
b) per contro, il giudice dell'esecuzione, investito
attraverso lo strumento dell'opposizione a precetto o all'esecuzione,
potrebbe gia' in sede di sospensiva arginare l'effetto dirompente,
per la sfera giuridica dell'obbligato, della predetta misura
coercitiva.
Dunque, secondo la suddetta dottrina, la richiesta di fissazione,
ex post, della durata temporale o dell'importo massimi della misura,
dovrebbe ritenersi pienamente ammissibile, anche nella logica di
un'interpretazione costituzionalmente orientata della norma
processuale, rispettosa del diritto di proprieta', quale valore di
rango costituzionale ex art. 42 Cost. e che deve ritenersi preclusivo
di qualunque misura che, traducendosi in un'aggressione
sproporzionata della sfera giuridica e patrimoniale, assuma una
portata sostanzialmente espropriativa della stessa.
Cio', varrebbe anche per quanto concerne la possibilita' di un
rilievo d'ufficio, ma cio', pero', sempre che lo stesso non sia
incompatibile con le richieste processuali dell'obbligato. Venendo in
rilievo diritti e obblighi disponibili, non puo' escludersi, in
astratto, che l'obbligato, nel costituirsi, nulla obietti circa
l'illegittimita' della misura coercitiva o, addirittura, esprima la
volonta' di soggiacere alla stessa per ragioni etiche o di altra
natura.
2. Presupposti per l'ammissibilita' del rinvio all'ill. ma Corte
costituzionale.
2.1. Perimetrazione della questione e rilevanza ai fini del caso
di specie
Invero, la soluzione di siffatta questione e' propedeutica alla
decisione della controversia, dovendo questo Giudice sondare la
possibilita' di un intervento ex officio su una penale che rischia di
assumere una portata sproporzionata rispetto al danno inferto al
destinatario della stessa, cosi' come rispetto alla sua funzione di
coercizione all'adempimento.
Infatti, a fronte di un danno non patrimoniale di tipo biologico,
ancora in corso di quantificazione davanti al giudice del merito e,
apparentemente, di entita' non grave, i creditori della prestazione
hanno precettato l'importo finora maturato, pari ad euro ... .
Peraltro, la misura e' stata irrogata, cautelativamente, dal
giudice del 700 del codice di procedura civile e su di essa non e'
disceso alcun giudicato ne' esplicito, ne' implicito, essendo il
giudice di merito ancora in corso.
Inoltre, tale questione presenta gravi difficolta'
interpretative, essendosi gia' manifestati contrastanti orientamenti
sia in giurisprudenza sia in dottrina.
Si deve premettere che, come gia' evidenziato, tale questione e'
distinta, per quanto affine, a quella relativa al potere di
riduzione, da parte del Giudice dell'esecuzione, della penale,
disposta, come in questo caso, dal giudice della cautela (o del
merito).
Con riferimento alla fattispecie della riducibilita' della
penale, aliunde irrogata, da parte del giudice dell'esecuzione, come
gia' evidenziato, in relazione alla formulazione della norma
processuale anteriore alla novella del 2022, il giudice di
legittimita' ha avuto modo di affermare che «nell'opposizione
all'esecuzione promossa in forza di un'ordinanza ex art. 614-bis del
codice di procedura civile (nella formulazione anteriore alle
modifiche introdotte dal decreto legislativo n. 149 del 2022) non e'
consentito dedurre la scarsa importanza dell'inadempimento o del
ritardo nell'adempimento con l'effetto di ottenere una riduzione del
"quantum" della misura coercitiva, risolvendosi altrimenti
quest'ultima in un'inammissibile modificazione della portata
precettiva del titolo esecutivo giudiziale, permessa unicamente nel
processo di cognizione e attraverso il rituale esperimento dei mezzi
di impugnazione» (Cass. sentenza n. 22714 del 26 luglio 2023).
In suddetto caso, gia' sottoposto al vaglio della suprema Corte,
veniva in rilevo il problema di un'eventuale rimodulazione del
quantum, irrogato da parte del giudice dell'esecuzione, che, come
evidenziato dalla suprema Corte, ove ritenuta ammissibile, darebbe la
stura ad una (illegittima) duplicazione della valutazione gia'
espressa dal giudice del merito (o della fase interinale) e
rientrante nella sua competenza funzionale. Cio', peraltro, con
effetti, potenzialmente, non solo ex nunc ma anche ex tunc. Infatti,
tale rivisitazione, laddove, per ipotesi, fosse ritenuta ammissibile,
incidendo sulla misura della sanzione, possa intervenire anche con
riguardo al momento genetico della stessa. Cio', salvo considerare,
quale circostanza ostativa a cio', il legittimo affidamento, riposto
dal creditore, sulla stabilita', almeno per gli effetti gia'
prodotti, della misura coercitiva, costituendo gli stessi «diritti
quesiti».
Per contro, la diversa fattispecie - integrata nel caso di specie
- che e' incentrata sulla possibilita' di una cristallizzazione pro
futuro della pretesa sanzionatoria, ex officio o su istanza di parte
(con la specificazione, ad opera del giudice dell'opposizione a
precetto, di una durata o di un importo massimo, complessivamente,
esigibile) sottende la mera precisazione di un precetto
giurisdizionale che non viene travolto nella sua portata
contenutistica, neanche solo in parte, ma solo integrato e
specificato «per il suo armonioso e virtuoso funzionamento».
In particolare, taluni tribunali hanno ritenuto che il giudice
dell'esecuzione non possa, in alcun modo, interferire su una misura
eterodeterminata dal Giudice della cognizione, diversamente
travalicando la sua «vocazione istituzionale» e cio' neanche sotto il
profilo della possibilita' di determinare ex post un importo massimo.
Inoltre, specie, quando la misura sia contenuta in un
provvedimento definitivo perche' passato in giudicato, si porrebbe un
problema di violazione della res iudicata.
Invero, analogo problema viene posto per l'ipotesi - quale e'
quella del caso di specie - del giudicato cautelare, assistito da
quella peculiare stabilita' rebus sic stantibus che e' propria dei
provvedimenti cautelari, non piu' reclamabili o gia' passati al
vaglio del Collegio (per essere dallo stesso confermati o
rimodulati). Stabilita' destinata a venire meno solo in presenza di
un mutamento del quadro fattuale o giuridico che, per cosi' dire, ha
fatto da sfondo all'assunzione del provvedimento, come pure
desumibile dalla disciplina in materia di revoca dei provvedimenti
cautelari ex art. 669-decies del codice di procedura civile.
Dunque, il potere di riduzione del giudice dell'esecuzione
sarebbe da ritenersi del tutto precluso anche in tale fattispecie,
cosi' come - profilo rilevante nella fattispecie concreta - in sede
esecutiva, non sarebbe apponibile alcun limite massimo, in via
postuma, all'astreinte irrogata in sede esecutiva.
Altri giudici, invece, si sono espressi limitatamente al gia'
menzionato potere di riduzione, ammettendolo per la misura irrogata
dal Giudice della cautela, ma in capo al Giudice investito del
merito.
A tal riguardo, si e' ritenuto che tale facolta' fosse
esercitabile anche d'ufficio, se necessario, per cui il giudice di
merito potrebbe, ad esempio, valutare la congruita' e l'adeguatezza
della penale disposta da una ordinanza cautelare ed eventualmente
rideterminarla (v. Tribunale Milano Sez. spec. Impresa, 15 ottobre
2019 secondo cui «Al giudice del merito chiamato ad applicare una
penale disposta da una ordinanza cautelare per il caso di violazione
dell'inibitoria all'utilizzo di un marchio, spetta il potere di
valutarne la congruita' e l'adeguatezza, con conseguente possibilita'
di sua rideterminazione»).
Nondimeno, non constano pronunce che si siano interrogate sulla
possibilita', a fronte di una misura coercitiva stabilita in sede di
700 del codice di procedura civile, di una fissazione ex post del
suddetto limite quantitativo o temporale in sede esecutiva.
Per quanto concerne il formante dottrinale, invece, secondo
taluni autori, nell'ipotesi di comminatoria di una misura coercitiva
indiretta, verrebbe in rilievo una fattispecie analoga a quella di
cui all'art. 1382 del codice civile (rubricata come «clausola penale
in caso d'inadempimento o di ritardo nell'adempimento»), in quanto il
creditore sarebbe esonerato dalla prova di alcun danno e con il solo
elemento di differenziazione, rappresentato dalla circostanza che,
nell'ipotesi dell'art. 614-bis del codice di procedura civile, la
somma e' determinata dal giudice, non dalle parti nell'esercizio
della loro autonomia.
La disamina della questione relativa al riconoscimento del
potere, in capo al G.e., di un'eventuale modulazione ex post della
durata o dell'importo massimo della misura, richiede una preliminare
ricostruzione della disciplina in materia anche al fine di definire
la natura giuridica e la ratio ispirativa dell'istituto.
2.2. Inquadramento dell'istituto
Come noto, con la legge n. 69/2009, hanno fatto ingresso
nell'ordinamento giuridico le misure di coercizione indiretta, che si
appalesa come «l'unico strumento in grado di assicurare l'attuazione
dei diritti a prestazioni infungibili e insurrogabili con le forme
tradizionali di esecuzione forzata».
A tal riguardo, non e' peregrino ricordare come il concetto di
infungibilita' sia stato inteso variamente in dottrina. Infatti,
oltre all'infungibilita' che discende dalla natura della prestazione
(diversa dalla realizzazione di un'opera materiale, di cui si legge
nell'art. 612 del codice di procedura civile) o che si riconnette
«all'interesse del creditore derivante dall'intuitus personae, o
comunque all'obiettivo regolamento contrattuale», ulteriori elementi
rivelatori della infungibilita' erano «fatti derivare da divieti
inderogabili dell'ordinamento (riduzione in schiavitu', soggezione al
potere altrui, status familiari) o piu' in generale da sfere di
autonomia e liberta' non coercibili in quanto protette al piu' alto
livello costituzionale».
Invero, la precedente formulazione della norma in termini di
«Attuazione degli obblighi di fare infungibile o di non fare», ne
implicava l'applicabilita' solo alle predette obbligazioni.
Si sosteneva, infatti, che trattandosi, come si avra' modo di
spiegare, di una misura sanzionatoria e, dunque, di una «pena
privata», avrebbero trovato applicazione il principio di tassativita'
e il suo corollario logico della necessita' di un'interpretazione
restrittiva della norma.
L'iniziale formulazione non conteneva alcun riferimento, al fine
di escluderli dalla propria portata applicativa, ai diritti della
personalita'. Nondimeno, prevedeva «una innovativa limitazione
consistente nel potere del giudice di negare la comminatoria in caso
di manifesta iniquita' della stessa», formulazione fortemente
criticata per la sua eccessiva genericita'.
Nella vigenza dell'originaria formulazione della norma,
autorevole dottrina aveva sollecitato la generalizzazione della
portata operativa dell'astreinte, anche con riguardo ai titoli
esecutivi, di natura stragiudiziale.
Con il decreto-legge n. 83/2015, convertito dalla legge n.
132/2015, e' stata novellata la rubrica, che si esprime - e cosi' e',
tutt'ora, anche a seguito della riforma Cartabia - in termini di
«Misure di coercizione indiretta».
Al contempo, per effetto della predetta novella, e' stato
precisato il novero delle obbligazioni cui l'istituto puo' trovare
applicazione, ovvero tutti gli obblighi differenti da quelli
pecuniari ovvero aventi ad oggetto il pagamento di somme di denaro.
Il riferimento e' alle obbligazioni di facere infungibili, cosi'
come a quelle di non fare, ascrivibili alla prima categoria, cosi'
come alla prestazione di consegna o di rilascio di cose e ad ogni
altro provvedimento condannatorio («diverso» da quelli relativi a
somme di denaro) anche di «indole inibitoria».
Come evidenziato in dottrina, la novella assume rilievo nella
misura in cui contribuisce a mutare del tutto sia «la fisionomia»,
sia «la ratio dell'istituto», elevandolo da «strumento residuale di
tutela rispetto all'esecuzione forzata diretta, per i casi in cui
essa non puo' operare», a «rimedio con essa concorrente, potendo
essere utilizzato dal giudice anche a presidio di obblighi
perfettamente fungibili e passibili di esecuzione nelle forme del
codice di rito».
Per la sua importanza nella ricostruzione dell'istituto, appare
utile precisarne, ulteriormente, l'ambito operativo.
Secondo la dottrina piu' accreditata, non sarebbe superabile il
limite costituito dalla natura necessariamente «condannatoria» del
provvedimento, per cui dovrebbero ritenersi escluse le sentenze
dichiarative e costitutive. Nondimeno, e' stato osservato come, sotto
il profilo della sua «ontologia e della sua dinamica funzionale», «la
misura coercitiva non si attaglia esclusivamente a una pronuncia di
condanna, ben potendosi immaginarla accessoria a una pronuncia
costitutiva o di accertamento e finanche a un provvedimento
endoprocessuale».
A tal riguardo, dubbia e' l'ammissibilita' della stessa in
concorso con l'azione ex art. 2932 del codice civile, quale ipotesi
paradigmatica di esecuzione in forma specifica, in quanto volta ad
assicurare al creditore il medesimo bene della vita agognato.
A tal riguardo, militano in senso favorevole, elementari esigenze
connesse al principio di effettivita' della tutela.
Diversamente, infatti, l'interessato, per conseguire la tutela
agognata, sarebbe costretto a attendere il passaggio in giudicato
della sentenza costitutiva che abbia, eventualmente, accolto la
domanda di pronuncia giurisdizionale, sostitutiva del consenso non
manifestato nei termini convenuti.
Ne', in senso contrario, appare utile richiamare la circostanza
per cui l'obbligo di contrarre non si configura come infungibile,
potendosi sempre richiedere una pronuncia del giudice che tenga luogo
del contratto non stipulato spontaneamente dall'obbligato.
A tale obiezione e', agevolmente, replicabile che presupposto
applicativo della norma - e, al contempo, suo limite - e' che si non
si aneli all'esecuzione di un'obbligazione pecuniaria, quale tipico
obbligo di genere, non rilevando, per contro, la sostituibilita'
della prestazione dovuta e non eseguita.
Peraltro, chiaramente, l'obbligazione di datio del consenso,
estrinsecandosi in una manifestazione di volonta' negoziale e non in
una consegna materiale della res, non puo' considerarsi tale.
Peraltro, al fine di delimitare l'ambito operativo della norma,
per scelta esplicita del legislatore, non possono venire in rilievo
controversie di lavoro subordinato pubblico e privato, cosi' come la
misura risulta inapplicabile in relazione ai rapporti di
collaborazione coordinata e continuativa ex art. 409 del del codice
di procedura civile.
D'altronde, e' innegabile che le stesse afferiscano a
obbligazioni di natura personalissima, oltre che, per taluni autori,
di rango costituzionale, essendo indubbio che alcune tipologie di
prestazione come quella artistica costituiscano strumento di
estrinsecazione e affermazione della personalita' umana ex art. 2
Cost.
Sotto il profilo della natura giuridica, come evidenziato in
dottrina, tale forma rimediale, di cui si conoscono precedenti
nell'ordinamento francese e tedesco, avrebbe natura sanzionatoria,
sostanziandosi nell'imposizione, in capo all'obbligato, di una specie
di penale per l'inadempimento in senso assoluto o l'adempimento
tardivo di una pronuncia di condanna.
Ne' costituisce circostanza ostativa a tale qualificazione che la
somma di denaro abbia quale beneficiario il creditore e non lo Stato,
trattandosi di sanzione destinata a esplicare la sua funzione
repressiva nei rapporti fra due privati, coincidenti con le parti del
rapporto obbligatorio.
Invero, taluna dottrina ne rivendica una finalita' composita e,
sostanzialmente, duplice: «una funzione anzitutto compulsoria, ovvero
tesa a stimolare l'adempimento alle statuizioni del provvedimento di
condanna sotto pena del pagamento di una somma di denaro... ; in
secondo luogo sanzionatoria, ove riguardata ex post, nella misura in
cui, non essendosi realizzata la prima funzione, in mancanza di
esatto adempimento da parte del soggetto tenuto, questi sara'
chiamato a corrispondere alla controparte una somma di denaro».
Da cio', come autorevolmente sostenuto, deriverebbe che quando il
debitore destinatario della misura, perche' inadempiente rispetto al
comando giudiziale, ottenga, eventualmente, la riforma dello stesso,
non potrebbe ripetere quanto pagato.
Diversamente, si afferma, verrebbe ad essere neutralizzata la
funzione sanzionatoria che non avrebbe piu' modo di dispiegarsi in
modo effettivo.
Invero, proprio la natura ancillare del provvedimento, irrogativo
dell'astreinte, rispetto al titolo giudiziale caducato, dovrebbe
indurre a considerare criticamente tale soluzione.
Sotto il diverso piano strutturale, la misura coercitiva di cui
all'art. 614-bis del codice di procedura civile ha una portata
accessoria rispetto al provvedimento di condanna e ha essa stessa
contenuto condannatorio.
Per quanto concerne l'ambito operativo della misura, pur dopo la
novella del 2015, in una prospettiva de iure ferendo, si era
prospettata - sollecitazione, poi, accolta, seppur con dei correttivi
operativi, dalla riforma Cartabia - l'introduzione di una competenza
concorrente del giudice dell'esecuzione.
Infatti, la circostanza che la misura dovesse essere irrogata
contestualmente con la condanna impediva la «modulazione
dell'astreinte rispetto ai fatti successivi alla sua irrogazione», da
parte del Giudice dell'esecuzione.
In ultimo, si era proposto di attribuire a quest'ultimo anche il
potere di procedere alla liquidazione della somma, anche quando
l'irrogazione della misura fosse avvenuta da parte del giudice della
cognizione, nell'ambito di un processo sommario in contraddittorio.
La legge delega sulla riforma del processo civile e il decreto
legislativo n. 149 del 2022, che vi ha dato attuazione, come gia'
evidenziato, hanno arginato solo in parte tali profili di criticita'.
Come gia' evidenziato, per effetto della riforma Cartabia,
l'istituto e' stato dilatato alla fase esecutiva.
Orbene, la questione di legittimita' e' posta in relazione alla
formulazione previgente, ma ritiene questo Giudice che l'analisi
delle modifiche, apportate dalla riforma Cartabia, possa offrire
elementi utili nella logica di un'interpretazione evolutiva della
versione previgente, applicabile, ratione temporis, alla fattispecie
concreta. In particolare, il riferimento e' alla possibilita' di
formulare la richiesta di 614-bis del codice di procedura civile
anche al di fuori dei termini perentori previsti per la formulazione
di domande e eccezioni in senso stretto.
Cio' premesso, e' stata aggiunta la previsione per cui «Se non e'
stata richiesta nel processo di cognizione, ovvero il titolo
esecutivo e' diverso da un provvedimento di condanna, la somma di
denaro dovuta dall'obbligato per ogni violazione o inosservanza o
ritardo nell'esecuzione del provvedimento e' determinata dal giudice
dell'esecuzione, su ricorso dell'avente diritto, dopo la
notificazione del precetto. Si applicano in quanto compatibili le
disposizioni di cui all'articolo 612».
Secondo la Relazione illustrativa, la nuova formulazione «e'
volta a porre rimedio ad una lacuna della normativa vigente che
attribuisce al solo giudice» della cognizione il potere di irrogare
la misura coercitiva, «cosi' evitando di imporre all'avente diritto
alla prestazione risultante da un titolo esecutivo stragiudiziale di
instaurare un processo ad hoc. Lo stesso puo' ripetersi per il lodo
arbitrale».
Orbene, la nuova formulazione dell'art. 614-bis del codice di
procedura civile, come introdotta dalla riforma Cartabia, consente di
avanzare la domanda di misure coercitive anche nel giudizio di
esecuzione. Cio', sempre che la stessa non sia stata gia' richiesta
nel precedente processo di cognizione.
Cio' vuol dire che, stando al tenore testuale della norma, la
competenza del secondo all'assunzione del provvedimento e'
subordinata non alla mancata concessione da parte del giudice della
cognizione, ma alla sua mancata richiesta da parte dell'interessato.
Ne consegue, logicamente, che il potere del giudice
dell'esecuzione e' inibito anche nell'ipotesi in cui la misura sia
stata meramente richiesta al giudice della cognizione, ma tal ultimo
l'abbia negata(1).
E' chiara la valenza preclusiva che il legislatore della riforma
ha voluto accordare alle valutazioni del giudice del merito, anche in
nome di quella competenza funzionale che esclude la proponibilita',
davanti al giudice dell'esecuzione, delle questioni dedotte (o anche
semplicemente deducibili) in sede di cognizione.
A fronte di un chiaro dato testuale, non pare condivisibile
l'opzione esegetica che ritiene la misura applicabile dal giudice
della esecuzione anche quando la misura sia stata ritualmente
richiesta ma non concessa.
Si e' affermato che, in tale ipotesi, non vi sarebbero ragioni
giuridiche impeditive della competenza del G.e.. La ratio sarebbe
quella di non ingenerare sovrapposizioni (cognitive e decisorie) tra
il giudice della cognizione e quello dell'esecuzione e tale
interferenza, del secondo, nella sfera del primo sarebbe da
escludersi quando l'istanza al giudice della cognizione sia rimasta
trascurata, a meno che non possa dirsi implicitamente rigettata.
Inoltre, in tale ipotesi nell'ipotesi di omissione di pronuncia,
«non puo' formarsi il giudicato mancando una decisione neppure
implicita».
Ne', a tal riguardo, data l'insuperabilita' del dato normativo,
e' sufficiente invocare l'esigenza di un'interpretazione
costituzionalmente conforme (in funzione del diritto della parte
all'effettivita' della tutela giurisdizionale e del principio della
ragionevole durata del processo).
D'altronde, vale anche in tale caso il generale principio
dell'insuperabilita' del dato testuale racchiusa nel noto brocardo
per cui in claris non fit interpretatio. Dunque, il potere de quo
viene riconosciuto anche in capo al giudice dell'esecuzione(2) «in
chiave complementare» e non concorrente, rispetto al giudice della
cognizione, implementando, in ogni caso, la soglia complessiva di
effettivita' del sistema di tutela esecutiva(3), quale corollario del
piu' generale principio del giusto processo, che ha fondamento
normativo costituzionale nell'art. 24, 111 Cost., nonche' comunitario
e convenzionale negli articoli 6, 13 Cedu e 47 CDFUE.
In particolare, l'art. 13 della CEDU sancisce il diritto ad un
ricorso effettivo a favore di ogni persona i cui diritti e liberta'
fondamentali siano stati violati.
A tal riguardo, sotto il profilo dell'ambito operativo temporale
della norma, la novella permette di formulare richiesta al giudice
dell'esecuzione in relazione a condanne che siano state emesse prima
del 2009, sempre che il diritto di agire in via esecutiva non sia
prescritto. Data la sopra evidenziata complementarieta' dei poteri,
appare utile l'esatta individuazione del termine finale entro il
quale la misura e' richiedibile nel processo di cognizione.
Deve convenirsi con quella dottrina, secondo cui la richiesta di
applicazione dell'art. 614-bis, 1° comma del codice di procedura
civile conosca quale momento consumativo del potere di farne
richiesta la «precisazione delle conclusioni ... nei limiti degli
atti introduttivi o a norma dell'art. 171-ter» (art. 189, 1° comma,
n. 1, del codice di procedura civile.
Per contro, per quanto concerne il dies a quo, non appare
conforme ai superiori dettami costituzionali, la tesi di chi ritiene
che se ne debba fare richiesta necessariamente nell'atto
introduttivo.
Peraltro, sotto il profilo processuale e del raccordo con i
principi generali che conformano l'autonomia processuale delle parti,
secondo autorevole dottrina, la suddetta istanza non sarebbe idonea a
ingenerare ne' una domanda nuova, ne' una modifica della domanda
originaria, in quanto preordinata al conseguimento di una misura
meramente strumentale al conseguimento del bene della vita
originariamente dedotto in giudizio.
Il provvedimento irrogativo della misura, assunto dal giudice,
avrebbe un rilievo meramente processuale o di rito, non essendo
configurabile, per l'appunto, un diritto sostanziale a ottenere la
misura coercitiva. Esso, infatti, non ha la funzione di definire un
rapporto giuridico, assicurandone una regolamentazione, ma
ingenererebbe «un nuovo rapporto obbligatorio la cui funzione e'
quella, strettamente processuale, di dare esecuzione indiretta alla
pronuncia giudiziale».
D'altronde, l'aver la novella attribuito al giudice
dell'esecuzione una competenza (non concorrente, ma alternativa) in
materia, costituirebbe un'indiretta conferma della natura meramente
strumentale e accessoria del provvedimento, al pari dell'istanza di
conversione.
Tale tesi non e' stata priva di riscontri nella giurisprudenza di
legittimita' (Corte di cassazione; sezione III, ordinanza del 23
marzo 2024, n. 7927; secondo cui «Il provvedimento con il quale il
giudice del merito, ex art. 614-bis del codice di procedura civile,
concede (o nega) la misura coercitiva indiretta ha natura di
provvedimento in rito. Tale inquadramento giustifica e da' fondamento
alla cognizione piena della S.C. per inosservanza della norma
processuale».
Sulla base di tali premesse ricostruttive, nel processo di
cognizione l'applicazione dell'art. 614-bis del codice di procedura
civile potrebbe essere domandata - naturalmente senza poter allegare
nuove circostanze di fatto - nelle conclusioni contenute nelle note
scritte depositate nel termine di cui all'art. 189, 1° comma, n. 1,
del codice di procedura civile e, per il procedimento semplificato,
in quelle che il giudice invita a precisare a norma dell'art.
281-sexies del codice di procedura civile quando rimette la causa in
decisione (art. 281-terdecies c.p.c).
Nella vigenza della disciplina anteriore alla novella e
all'anticipazione delle preclusioni processuali, era, stato,
correlativamente, affermato che poiche' la richiesta di astreintes
non veicola, nel processo, una nuova situazione soggettiva, ne'
dilata l'oggetto del decidere, non vi sarebbero state preclusioni
processuali alla sua proposizione fino alla precisazione delle
conclusioni e, persino, in appello.
Inoltre, sotto il profilo del sindacato di legittimita' e dei
suoi limiti, lo stesso, vertendo sull'inosservanza della norma
processuale che disciplina tali misure, potrebbe avere ad oggetto sia
l'an, ovvero, la verifica dei presupposti necessari per l'esercizio
del potere, sia la correttezza di tal ultimo, in punto di
liquidazione dell'astreinte.
A tale riguardo, cio' che la S.C. puo' valutare non e' il merito
della valutazione operata dal giudice ma la motivazione e, dunque, il
percorso ragionativo che sorregge il provvedimento «in quanto resa
con riferimento concreto ai parametri di riferimento» previsti
dall'art. 614-bis del codice di procedura civile
Altri autori, in cio' seguiti dalla giurisprudenza di
legittimita', hanno visto, invece, nella misura de qua un
provvedimento, preordinato alla tutela di un autonomo bene della
vita, a sua volta, oggetto di uno specifico diritto soggettivo, con
la conseguenza che la relativa istanza sarebbe soggetta alle
preclusioni processuali applicabili alle domande nuove.
Sotto il profilo della tutela del diritto alla difesa ed, in
particolare, di quello al contraddittorio processuale, i fatti, posti
a fondamento della suddetta richiesta di tutela, dovrebbero essere
oggetto di tempestiva allegazione, cosi' da consentire cosi' alla
controparte l'esercizio delle proprie prerogative difensive;
esercizio che sarebbe precluso, se la domanda potesse essere avanzata
oltre il limite temporale di maturazione delle preclusioni
processuali.
In tal senso, di recente, anche Cass. sezione III, ordinanza del
23 maggio 2024, n. 14461, secondo cui «l'istanza volta ad ottenere la
misura di coercizione indiretta ex art. 614-bis del codice di
procedura civile (nella formulazione anteriore alle modifiche
apportate dal decreto legislativo n. 149 del 2022) costituisce una
vera e propria domanda giudiziale e, come tale, va avanzata prima
della maturazione delle preclusioni assertive, poiche' non consegue
necessariamente alla pronuncia di condanna, a differenza delle spese
di lite, e dev'essere determinata tenuto conto di circostanze di
fatto - quali il valore della controversia, la natura della
prestazione, il danno quantificato o prevedibile - che vanno
tempestivamente allegate (e, se del caso, provate), cosi' da
consentire alla controparte una compiuta difesa, altrimenti
impossibile se la richiesta fosse sottratta alle barriere preclusive
del rito».
Invero, la nuova formulazione della norma, nella misura in cui
riconosce la richiedibilita' della misura in sede esecutiva, sembra
offrire argomenti insuperabili ai fini della ricostruzione della
misura quale mero strumento processuale, rilevante in rito e inidoneo
ad ampliare il thema decidendum.
Al fine di comprimere la discrezionalita' valutativa del giudice
che ha natura, essenzialmente, tecnica, la novella, ampliando i
criteri gia' previsti dal vecchio testo - ovvero il valore della
controversia, la natura della prestazione dovuta, il danno
quantificato o prevedibile e ogni altra circostanza utile - ha
previsto in aggiunta quello del «vantaggio per l'obbligato derivante
dall'inadempimento». Cio', pero', senza prevedere una qualunque
cornice edittale che possa fungere da limite massimo e minimo cui il
giudice debba attenersi (comma 3).
Cio', impregiudicato il diritto del creditore di agire in via
risarcitoria per i pregiudizi, eventualmente, non compensati dalla
misura.
Anche per l'ipotesi in cui la misura sia richiesta al giudice
dell'esecuzione, ai fini della concreta commisurazione della penale,
valgono i parametri fin dall'origine previsti dalla norma quale
criteri conformativi del potere del Giudice della cognizione.
Cio', per quanto la Cartabia sia intervenuta a specificare,
traendo tale criterio commisurativo dall'indifferenziata formula di
chiusura della norma, che si debba avere riguardo anche al «vantaggio
per l'obbligato derivante dall'inadempimento», ovvero all'utilita',
tradibile da tal ultimo dal proprio inadempimento. D'altronde, come
desumibile dalla Relazione illustrativa, data la finalita' della
norma che e' quella di spronare all'adempimento, appare del tutto
imprescindibile - anche nella logica di un'analisi economica del
diritto - porsi (anche) dall'angolo visuale del debitore. Cio', al
fine di verificare il tipo di valutazione da questi astrattamente
esperibile, in termini di maggiore o minore convenienza
dell'adempimento.
L'approccio e', evidentemente, quello della valorizzazione
dell'agire razionale delle parti, secondo categorie e giudizi di
matrice essenzialmente economica che sono quelle che conformano
l'agire dell'homo economicus.
In questa prospettiva appare prioritario il riferimento
all'utilitas traibile dal debitore dalla propria inerzia o dal
proprio ritardo nell'adempimento delle prestazioni dovute.
Deve, invece, ritenersi subvalente il diverso criterio del danno
che l'inadempimento medesimo e' idoneo a ingenerare.
Cio', anche perche' l'esecuzione c.d. indiretta non puo'
assurgere a rimedio sostitutivo del risarcimento del danno causato
dall'inadempimento.
A tal riguardo, non puo' sottacersi la diversa opinione per cui
«tale criterio» avrebbe fatto «assumere alla misura coercitiva
indiretta anche il carattere di risarcimento punitivo, ora ritenuto
compatibile col nostro ordinamento», ma non incondizionatamente.
Infatti, la configurazione di una finalita' punitiva richiede,
come ricordato dalle S.U. 5 luglio 2017, n. 16601, che esista
un'espressa previsione legislativa che renda attuale alcune di quelle
funzioni che, nella logica di un sistema polifunzionale, sono proprie
dell'apparato rimediale risarcitorio.(4)
In tal caso, pur a fronte di un nomen iuris non univoco, sarebbe,
comunque, individuabile un solido argomento normativo.
Evidente e' la suggestione proveniente dal riferimento al danno
cagionato (o cagionabile) dall'obbligato, nonche' la sua idoneita' ad
evocare i criteri di risarcimento del danno ambientale e previsti per
le altre ipotesi - eccezionali e di stretta interpretazione - di
danno punitivo.
Peraltro, sotto il profilo della sua concreta applicazione, deve
ritenersi che il criterio commisurativo de quo non si presti ad
un'agevole applicazione, con la conseguenza che originera',
tendenzialmente, solo liquidazioni in via equitativa.
Altro profilo innovativo della nuova formulazione dell'art.
614-bis del codice di procedura civile e' quello concernente il
potere del giudice, investito della richiesta, di stabilire il dies a
quo dal quale procedere al computo della somma dovuta, cosi' come la
durata massima della misura.
Si e' previsto che questi non possa, ma debba indicare la
decorrenza (cosi' da assicurare al soccombente il tempo necessario ad
adempiere) e, dall'altro, possa fissare il termine massimo di durata
della misura «tenendo conto della finalita' della stessa e di ogni
circostanza utile» (comma 1); termine, decorso il quale, la misura
coercitiva e' destinata a perdere effetti, non producendo piu'
esborsi a carico del destinatario della stessa.
Come evincibile dal dato testuale, il potere di cui al primo
segmento normativo ha natura vincolata, in contrapposizione alla
portata meramente discrezionale di quello di indicare il termine
finale che sancisce lo spirare giuridico della stessa.
Secondo un'autorevole e condivisibile dottrina, il legislatore
della riforma si sarebbe limitato a consacrare, in norma formale e
espressa, un principio gia' operante a livello ordinamentale.
Verrebbe in rilievo «una razionalizzazione dell'esistente, questi
poteri essendo esercitabili anche nella vigenza del testo precedente
dell'art. 614-bis del codice di procedura civile», con chiare
finalita' deflattive del contenzioso in materia.
Dunque, in sintesi, l'attuale formulazione della norma, per
quanto abbia ribadito la tradizionale dicotomia fra giudizio della
cognizione presupposto e giudizio esecutivo, radica una competenza
comminatoria in capo al Giudice dell'esecuzione. Soprattutto, come
evidenziato, la domanda di penale sembrerebbe sfuggire ai termini
previsti per la proposizione di eccezioni e domande riconvenzionali e
cosi' deve ritenersi anche per le difese e le eccezioni volte a
contrastarne o a mitigarne l'applicazione.
E' indubbio che tale conformazione dell'istituto possa incidere
sull'interpretazione della stessa, nella formulazione previgente.
4. Possibilita' di un'interpretazione costituzionalmente conforme:
gli argomenti a favore della soluzione favorevole alla possibilita',
per il giudice dell'esecuzione, ove gia' non fatto dal giudice del
merito, di determinare ex post un tetto quantitativo o temporale,
massimo, all'operare delle stesse.
Cio' premesso, la norma, come gia' evidenziato, nella sua nuova
formulazione, conseguente alla novella, non prevede espressamente la
possibilita', per il giudice dell'esecuzione, ove gia' non fatto dal
giudice del merito, di determinare ex post un tetto quantitativo (o
temporale) massimo all'operare delle stesse.
Si limita a prevedere come lo stesso possa:
1) irrogare la misura, solo ove la stessa non sia stata gia'
richiesta nell'eventuale giudizio di merito presupposto e sempre che
il titolo esecutivo sia diverso da un provvedimento di condanna;
2) fissare, al momento dell'irrogazione, un termine di durata
della misura, tenendo conto della finalita' della stessa e di ogni
circostanza utile. Tale potere non e' espressamente riferito al
Giudice dell'esecuzione, ma si desume da un'interpretazione combinata
del primo e del secondo comma; l'uno volto a conformare l'esercizio
del potere di irrogazione da parte del giudice del merito; l'altro,
preordinato a sancire la legittimazione sussidiaria del G.e.,
rispetto al Giudice del merito.
Come gia' evidenziato, pero', taluna dottrina ha ritenuto che,
nondimeno, il potere di fissazione ex post di un limite massimo, pur
in difetto di un'espressa previsione abilitante, fosse ammissibile.
In tal senso, deporrebbero una pluralita' di ragioni testuali,
logiche e sistematiche.
4.1. La clausola generale rebus sic stantibus e la rilevanza
delle sopravvenienze. La qualificabilita' della esorbitanza della
somma maturata nei suddetti termini.
In primis, deve richiamarsi quell'orientamento dottrinale che
ritiene operativa, anche in materia di misure coercitive, la clausola
generale, rebus sic stantibus, che e' alla base della possibilita' -
nel contesto dell'ordinamento interno - di richiedere una modifica
giudiziale di un qualunque provvedimento di volontaria giurisdizione
(come quello regolativo delle condizioni di separazione), cosi' come,
in relazione all'ordinamento internazionale, della facolta' di
recedere dello Stato dagli impegni assunti con altri soggetti del
diritto internazionale(5)
Si ritiene che, ogniqualvolta vi sia un rapporto di durata, il
provvedimento giurisdizionale che lo vada a regolare, dettandone la
disciplina, possa essere oggetto di mutamenti e variazioni
contenutistiche e cio' quando si registri una modifica delle
condizioni (fattuali e giuridiche) che hanno presieduto alla sua
assunzione.
La sua stabilita' contenutistica sarebbe, dunque, condizionata
risolutivamente all'invarianza delle predette condizioni.
A tal riguardo, si sostiene, espressamente, che «un principio
generale dell'ordinamento e' quello per il quale -- il giudicato
opera rebus sic stantibus, sicche' la statuizione che lo contiene
puo' essere modificata per fatti successivi alla sua formazione»...
Cio' premesso, come gia' evidenziato, presupposto per la
revisione della regola giurisdizionale, non consacrata in una
sentenza di merito passata in giudicato, e' la configurabilita' di
una sopravvenienza.
Se ne rinviene conferma in specifiche previsioni normative:
a) nell'art. 669-decies del codice di procedura civile per
cui «Salvo che sia stato proposto reclamo ai sensi dell'articolo
669-terdecies, nel corso dell'istruzione il giudice istruttore della
causa di merito puo', su istanza di parte, modificare o revocare con
ordinanza il provvedimento cautelare, anche se emesso anteriormente
alla causa, se si verificano mutamenti nelle circostanze o se si
allegano fatti anteriori di cui si e' acquisita conoscenza
successivamente al provvedimento cautelare. In tale caso, l'istante
deve fornire la prova del momento in cui ne e' venuto a conoscenza.
Quando il giudizio di merito non sia iniziato o sia stato dichiarato
estinto, la revoca e la modifica dell'ordinanza di accoglimento,
esaurita l'eventuale fase del reclamo proposto ai sensi dell'articolo
669-terdecies, possono essere richieste al giudice che ha provveduto
sull'istanza cautelare se si verificano mutamenti nelle circostanze o
se si allegano fatti anteriori di cui si e' acquisita conoscenza
successivamente al provvedimento cautelare. In tale caso l'istante
deve fornire la prova del momento in cui ne e' venuto a conoscenza.
Se la causa di merito e' devoluta alla giurisdizione di un giudice
straniero o ad arbitrato, ovvero se l'azione civile e' stata
esercitata o trasferita nel processo penale, i provvedimenti previsti
dal presente articolo devono essere richiesti dal giudice che ha
emanato il provvedimento cautelare, salvo quanto disposto
dall'articolo 818, primo comma»;
b) nel 2° comma dell'art. 283 del codice di procedura civile
- introdotto proprio dalla Riforma Cartabia - in virtu' del quale
l'istanza di sospensiva dell'efficacia esecutiva o dell'esecuzione
della sentenza impugnata «puo' essere proposta o riproposta nel
giudizio di appello se si verificano mutamenti nelle circostanze che
devono essere specificamente indicati nel ricorso, a pena
d'inammissibilita'».
Ovviamente, se il provvedimento, contenente la misura di cui
all'art. 614-bis del codice di procedura civile e emanato in sede
cognitiva, non sia ancora definitivo, revoca o modifica potranno
essere richieste al giudice della cognizione, con il reclamo
(articoli 183-ter e 669-terdecies del codice di procedura civile) o
anche in sede di gravame della sentenza.
Nell'ipotesi in cui il provvedimento non sia piu' tangibile,
l'istanza di revoca o modifica non potranno essere presentate al
giudice dell'esecuzione(6), ma, quando il provvedimento
giurisdizionale non sia ancora, definitivo, tale potere processuale
sarebbe esercitabile, anche ex officio.
Ovviamente, deve ritenersi che tale principio operi limitatamente
ai provvedimenti che si proiettino nel tempo e che non assumano
efficacia di giudicato, almeno inteso in senso stretto, come quelli,
per l'appunto, di natura cautelare, quale e' quello del caso di
specie.
Laddove, invece, il provvedimento sia assistito dal crisma del
giudicato formale, perche' emesso a seguito di un giudizio a
cognizione piena, affermarne la rivedibilita' ingenererebbe
un'evidente aporia logica. Cio', salvo assumere la configurabilita'
di giudicati cedevoli o relativi che, invero, appare una costruzione,
di per se', «barocca» e priva di linearita' logica oltre che essere
in contrasto con il generale principio di certezza del diritto (che
lo stesso giudice comunitario ha ritenuto essere presidio di civilta'
giuridica) e di tutela del legittimo affidamento.
Orbene, secondo tale prospettazione teorica, il giudice
dell'esecuzione, in difetto di un giudicato, potrebbe, in ogni caso,
ritenere che la sopravvenuta esorbitanza dell'importo rispetto agli
interessi da tutelare costituisca una modifica delle circostanze che
il giudice della cognizione (piena o sommaria) abbia posto a
fondamento della sua determinazione; con la conseguente possibilita'
di apporvi un limite massimo.
4.2. La riduzione d'ufficio della penale manifestamente eccessiva
quale argomento logico richiamabile a favore della possibilita' di
apporre d'ufficio un tetto massimo. L'estensione del principio di
necessario equilibrio del rapporto contrattuale, ad opera del Giudice
delle leggi, alla caparra confirmatoria (seppur ricorrendo al diverso
rimedio della sanzione della nullita' parziale).
In secondo luogo, secondo taluni autori, accogliendo la
ricostruzione della misura coercitiva quale speciale clausola penale
o quale penale sui generis, sarebbe applicabile l'art. 1384 del
codice civile(7) che subordina l'applicabilita' della riduzione della
stessa alla circostanza che l'obbligazione principale sia stata
eseguita in parte oppure che la prestazione sia manifestamente
sproporzionata, avuto sempre riguardo all'interesse che il creditore
aveva all'adempimento.
Si ritiene che, ammettendo l'operare del potere di riduzione,
anche ex officio, dell'entita' della misura coercitiva, in tal caso,
praticabile solo dal giudice della cognizione, dovrebbe ritenersi a
fortiori che lo stesso possa determinare ex post un tetto
quantitativo massimo all'operare delle stesse. E quando cio' non sia
accaduto, analogo potere dovrebbe riconoscersi in capo al giudice
dell'esecuzione.
D'altronde, se la novella del 2022 ha riconosciuto il potere per
il G.e. di irrogare, per la prima volta, l'astreinte, non puo'
ragionevolmente escludersi che lo stesso possa porre un tetto massimo
a quella irrogata, aliunde, ovvero in sede di cognizione.
Cio', secondo il principio, logico prima che giuridico, secondo
cui «nel piu' sta il meno», ovvero, il riconoscimento di un potere di
una certa ampiezza e latitudine, implica la tacita attribuzione anche
di una facolta' a contenuto piu' ristretto, idealmente, ricompresa
nella prima.
Invero, la trasposizione in relazione alla misura coercitiva del
regime proprio della clausola penale, impone la ricostruzione della
natura di entrambe al fine di vagliarne l'eventuale accostabilita'
sotto il profilo funzionale.
Come gia' evidenziato, plurime sono le teorie che sono state
ventilate con riguardo alla seconda.
E' stata elaborata una prima tesi che sostiene la natura,
essenzialmente, risarcitoria della penale, di predeterminazione del
danno e di esonero dalla relativa prova in un'ottica chiaramente
semplificatoria, in relazione alla quale l'intervento del giudice
assume una funzione correttiva e di riequilibrio contrattuale.
Tale ricostruzione muove dalla considerazione per cui l'opposta
qualificazione in termini di pena avrebbe contrastato con il
principio per cui, nel nostro ordinamento, sono da ritenersi bandite
le pene private, essendo il potere sanzionatorio prerogativa
esclusiva dello Stato e, piu' esattamente - dato l'attuale assetto
dell'ordinamento costituzionale - dei pubblici poteri centrali e
locali.
E', infatti, indubbio che il nostro ordinamento sia ispirato,
dopo la novella costituzionale del 2001, al principio pluralista e
che lo stesso sia connotato da un sistema di governo multilivello e
affidato al dialogo fra piu' enti territoriali di pari dignita'
costituzionale.
E' chiaro che l'adesione a tale ricostruzione e' idonea a rendere
difficilmente accostabili i due istituti, essendo inequivoco che
l'astreinte, per la preminente opzione interpretativa, non assolva
mai ad una funzione risarcitoria, ovvero di compensazione del
pregiudizio subito dal creditore.
Cio', salvo che si acceda alla tesi ricostruttiva per cui
l'introduzione, quale criterio commisurativo della stessa,
dell'utilitas tratta dal debitore, sarebbe idonea ad attrarre la
stessa nell'alveo del risarcimento del danno c.d. punitivo.
La sovrapposizione delle due fattispecie rimediali diviene
agevole ove, invece, si opti per la ricostruzione in termini
sanzionatori, nel qual caso l'intervento giudiziale sarebbe
preordinato a garantire l'adeguatezza e la congruita' della sanzione.
Invero, esiste, come noto, anche una terza ricostruzione in
relazione alla natura della penale che distingue tra:
clausola penale c.d. «pura» (con funzione meramente
preventiva di coazione all'adempimento e, successivamente, punitiva);
la clausola penale «non pura» (quella nella quale le parti,
con dichiarazione espressa, hanno introdotto la funzione di
liquidazione del danno indipendentemente della prova di esso.
Nell'ipotesi di clausola penale «non pura», la parte non
inadempiente potrebbe non domandare l'adempimento della prestazione
dedotta nella penale e preferire il risarcimento integrale del danno.
Cio', in virtu' di un'applicazione analogica dell'art. 1385, comma 3,
cc.
A tal riguardo, si rende opportuna una breve disamina
dell'istituto.
Al fine di comprendere se la riduzione della misura coercitiva
indiretta possa avvenire anche d'ufficio, potrebbe essere richiamate
le stesse considerazioni svolte dalla suprema Corte in materia di
clausola penale.
Al momento dell'entrata in vigore del codice civile del 1942, la
giurisprudenza della Corte di cassazione era concorde nell'affermare
che il potere del Giudice di ridurre la penale non potesse essere
esercitato d'ufficio, sebbene talvolta si fosse affermato che la
richiesta di riduzione della penale dovesse ritenersi implicita
nell'affermazione di nulla dovere a tale titolo.
Invero, con il passare del tempo, e' venuto emergendo un altro
orientamento, che, al fine di mitigare il rigore del dato normativo,
ha affermato che l'istanza di riduzione della penale potesse
ritenersi implicita nella deduzione difensiva di non dovere alcunche'
a tale titolo.
Tale tesi e' stata, successivamente, oggetto di revisione critica
ad opera della sentenza n. 10511/1999 della Corte di cassazione, che
ha, invece, ritenuto che la penale potesse essere ridotta ex officio,
anche in assenza di una sollecitazione delle parti in tal senso(8)
Tale opzione esegetica si e' fondata su due distinte ragioni:
1. la prima relativa «al riscontro nella giurisprudenza, che
fino ad allora aveva negato il potere del giudice di ridurre
d'ufficio la penale, di taluni cedimenti, individuati nel fatto che,
in alcune delle pronunzie, l'ossequio al principio tradizionale
appariva solo formale, poiche' si giungeva talvolta a ritenere la
domanda di riduzione implicita nell'assunto della parte di nulla
dovere a titolo di penale ovvero l'eccezione relativa proponibile in
appello»;
2. la seconda fondata «sull'osservazione che l'esegesi
tradizionale non appariva piu' adeguata alla luce di una rilettura
degli istituti codicistici in senso conformativo ai precetti
superiori della Costituzione, individuati nel dovere di solidarieta'
nei rapporti intersoggettivi (art. 2 Cost.), nell'esistenza di un
principio di inesigibilita' come limite alle pretese creditorie
(Corte cost. n. 19/1994), da valutare insieme ai canoni generali di
buona fede oggettiva e di correttezza (articoli 1175, 1337, 1359,
1366, 1375 del codice civile)».
La suprema Corte, a Sezioni Unite, con la pronuncia del 13
settembre 2005 n. 18128, componendo il contrasto interpretativo al
riguardo, ha optato per tale ultima soluzione.
A tale esito, e' pervenuta tentando di superare le critiche mosse
dalla tesi tradizionale, contraria alla riducibilita' d'ufficio.
La tesi «negazionista» invocava il generale principio c.d.
dispositivo che conformerebbe anche la fattispecie di cui all'art.
1384 del codice civile, secondo cui il giudice non puo' pronunciare
se non nei limiti della domanda e delle eccezioni proposte dalle
parti.
Dal punto di vista processuale, pertanto, si era affermato
(Cass., sez. lav., 19 aprile 2002 n. 5691) che la richiesta di
riduzione ad equita' doveva tenere conto delle preclusioni
processuali previste nel contesto dei diversi riti, con la
conseguenza, ad esempio, che, nel processo del lavoro, la domanda
doveva essere avanzata soltanto nel ricorso introduttivo o nella
comparsa di risposta, oppure nel primo atto difensivo successivo al
verificarsi di fatti sopravvenuti idonei ad incidere sull'ammontare
della penale.
Orbene, secondo le Sezioni Unite, «il giudice che riduca
l'ammontare della penale, al cui pagamento il creditore ha chiesto
che il debitore sia condannato, non viola(va) in alcun modo la prima
proposizione del richiamato art. 112 del codice di procedura civile,
atteso che il limite postogli dalla norma (era), in linea generale,
che egli non puo' condannare il debitore ad una somma superiore a
quella richiesta, mentre puo' condannarlo al pagamento di una somma
inferiore».
Peraltro, l'art. 112 del codice di procedura civile, nel disporre
che il Giudice non puo' pronunciare d'ufficio su eccezioni che
possono essere proposte soltanto dalle parti, lasciava intendere che
vi sono, oltre alle eccezioni proponibili soltanto dalle parti, anche
eccezioni che non lo sono e, in quanto tali, rilevabili d'ufficio.
Se cosi' e', allora, il problema della riducibilita' della penale
non era risolto dal riferimento all'art. 112 del codice di procedura
civile e dalla verifica della sua osservanza, ma dalla risposta al
quesito se la riduzione della penale sia oggetto di una eccezione che
puo' essere proposta soltanto dalla parte.
A tal riguardo, giova ricordare che le eccezioni in senso stretto
rappresentano un numerus clausus, essendo tutte le altre
riconducibili al potere di rilevazione del giudice adito.
Cio' premesso, secondo le Sezioni Unite, l'art. 1384 del codice
civile non conteneva alcun riferimento all'imprescindibilita'
dell'eccezione della parte, quale presupposto per l'attivazione del
potere di riduzione.
Peraltro, in alcune pronunce, l'ossequio al principio
tradizionale appariva solo formale, poiche' si giungeva talvolta a
ritenere la domanda di riduzione implicita nell'assunto della parte
di nulla dovere a titolo di penale ovvero l'eccezione relativa
proponibile in appello (Cass., sez. III, 30 marzo 1984 n. 2112;
Cass., sez. II, 26 gennaio 1982 n. 519; Cass., sez. III, 26 giugno
1981 n. 4157(9).
Il secondo argomento storico, invocato dall'orientamento
maggioritario, era quello per cui la riduzione della penale sarebbe
posta a tutela di un interesse individuale e particolare, quello del
debitore a non subire un eccessivo sacrificio della propria sfera
giuridica; ragione per cui a tal ultimo sarebbe stata rimessa la
decisione del riequilibrio della penale.
Orbene, per la suprema Corte anche questo argomento si fondava su
un assioma non dimostrato e cioe' che l'istituto della riduzione
della penale fosse predisposto nell'interesse della parte debitrice.
In particolare, "una affermazione di questo tipo appar(iva)
contraddetta dall'osservazione che la penale «puo'» ma non «deve»
essere ridotta dal giudice, avuto riguardo all'interesse che il
creditore aveva all'adempimento".
Da cio' si desumeva che:
a) non esisteva un diritto del debitore alla riduzione della
penale;
b) il criterio che il Giudice doveva utilizzare per valutare
se una penale fosse eccessiva aveva natura oggettiva, atteso che non
era previsto che il Giudice dovesse tenere conto della posizione
soggettiva del debitore e del riflesso che sul suo patrimonio la
penale potesse avere, ma solo dello squilibrio tra le posizioni delle
parti, mentre il riferimento all'interesse del creditore aveva la
sola funzione di indicare lo strumento per mezzo del quale valutare
se la penale sia manifestamente eccessiva o meno.
Ne discendeva, logicamente, che, pur sostanziandosi la riduzione
della penale in un provvedimento che rende in concreto meno onerosa
la posizione del debitore e che deve essere adottato tenuto conto
dell'interesse che il creditore aveva all'adempimento, il potere di
riduzione appariva attribuito al Giudice non per la tutela
dell'interesse della parte tenuta al pagamento della penale, ma,
piuttosto, a tutela di un interesse che lo trascendeva e di natura
sovraindividuale(10).
Infine, il supremo Collegio ha ritenuto non determinante neppure
l'argomento per cui il giudice, nell'esercizio dei poteri equitativi
diretti alla determinazione dell'oggetto dell'obbligazione della
clausola, non dispone di altri parametri di giudizio rispetto alla
verifica dell'equilibrio raggiunto dalle parti stesse, nelle
preventiva determinazione delle conseguenze dell'inadempimento.
E cio' sia con riguardo al momento genetico sia in relazione
all'attuazione concreta del rapporto.
Ha affermato, infatti, che questo argomento non appariva
decisivo, considerando che la mancata allegazione (o la
impossibilita' di riscontri negli atti acquisiti) della eccessivita'
della penale puo' rendere in concreto maggiormente difficoltoso
l'accertamento della medesima, ma non costituisce, di per se',
circostanza preclusiva dell'esercizio officioso del potere del
giudice.
A tal proposito, richiamava cio' che accade in tema di nullita'
del contratto, che il Giudice puo' dichiarare d'Ufficio purche'
risultino dagli atti i presupposti della nullita' medesima (Cass. n.
4062/87), senza che per l'accertamento della nullita' occorrano
indagini di fatto per le quali manchino gli elementi necessari (Cass.
n. 1768/86, 4955/85, 985/81), e piu' di recente Cass. n. 1552/04,
secondo cui «La rilevabilita' d'Ufficio della nullita' di un
contratto prevista dall'art. 1421 del codice civile non comporta che
il Giudice sia obbligato ad un accertamento d'ufficio in tal senso,
dovendo invece detta nullita' risultare "ex actis", ossia dal
materiale probatorio legittimamente acquisito al processo, essendo i
poteri officiosi del Giudice limitati al rilievo della nullita' e non
intesi percio' ad esonerare la parte dall'onere probatorio gravante
su di essa».
Secondo le Sezioni Unite, il potere conferito al giudice
dall'art. 1384 del codice civile di ridurre la penale manifestamente
eccessiva era da considerarsi fondato sulla necessita' di correggere
l'esercizio dell'autonomia privata, mediante l'attivazione di un
potere equitativo che ristabilisca un congruo contemperamento degli
interessi contrapposti, valutando l'interesse del creditore
all'adempimento, cui ha diritto, tenendosi conto dell'effettiva
incidenza di esso sull'equilibrio delle prestazioni e sulla concreta
situazione contrattuale.
Cio', a tutela di un interesse superiore all'osservanza di un
generale principio di equilibrio che ha un fondamento essenzialmente
equitativo.
Secondo il supremo consesso, la legge, quindi, nel riconoscere
l'autonomia contrattuale delle parti, ne sanciva i limiti operativi.
La verifica dell'osservanza del rispetto di tali ultimi e' demandato
al Giudice, che non puo' riconoscere tutela al diritto fatto valere,
se esso si fonda su un contratto il cui contenuto non sia conforme
alla legge ovvero sia diretto a realizzare interessi che non appaiono
meritevoli secondo l'ordinamento giuridico.
L'intervento del Giudice, in tali casi, e' indubbiamente
esercizio di un potere officioso attribuito dalla legge.
Lo stesso articolo 1384 c.c.m secondo la suprema Corte, doveva
considerarsi mero momento di emersione formale di tale principio
generale che avrebbe portata inderogabile e sarebbe, comunque, a
imporsi all'autonomia delle parti.
Se nel nostro ordinamento non fosse stato previsto e disciplinato
l'istituto della clausola penale e, tuttavia, le parti avessero
introdotto in un contratto una clausola con tale funzione, il
Giudice, chiamato a pronunciarsi in ordine ad una domanda di condanna
del debitore al pagamento della penale pattuita per effetto
dell'inadempimento, avrebbe dovuto formulare, d'ufficio, un giudizio
sulla validita' della clausola; giudizio che avrebbe potuto avere
esito negativo, ove fosse stato ravvisato un contrasto dell'accordo
con principi fondamentali dell'ordinamento, ad esempio per il fatto
che la penale doveva essere pagata anche se il danno non sussisteva.
In questo caso, vi sarebbe stato un controllo d'ufficio sulla
tutelabilita' dell'accordo delle parti e, ove il controllo si fosse
concluso negativamente, la tutela, programmata dall'ordinamento, non
sarebbe stata accordata.
Nel nostro diritto positivo, questo controllo non e' necessario
perche' l'istituto e' riconosciuto e disciplinato dal legislatore che
ha effettuato una valutazione, di tipo preventivo, generale e
astratta circa la liceita' della fattispecie (art. 1382 e segg. del
codice civile).
Le Sezioni Unite hanno invocato, inoltre, la necessita' di
un'esegesi costituzionalmente orientata della norma, secondo cui tale
potere giudiziale di riduzione della penale potrebbe essere
esercitato d'ufficio. E cio' sia con riferimento alla penale
manifestamente eccessiva, sia con riferimento all'ipotesi in cui la
riduzione avvenga perche' l'obbligazione principale sia stata in
parte eseguita, giacche' in quest'ultimo caso, la mancata previsione
da parte dei contraenti di una riduzione della penale in caso di
adempimento di parte dell'obbligazione, si traduce comunque in una
eccessivita' della penale se rapportata alla sola parte rimasta
inadempiuta.
La suprema Corte ha invocato i principi conformatori della stessa
costruzione costituzionale, ovvero:
a) il dovere di solidarieta' nei rapporti intersoggettivi
(art. 2 Cost.);
b) il principio generale di inesigibilita' come limite
(esterno) alle pretese creditorie (C. cost. n. 19/94), fondato sui
canoni generali di buona fede oggettiva e di correttezza (articoli
1175, 1337, 1359, 1366, 1375 del codice civile) e suscettibile di
fondare il ricorso ad un'eccezione o anche ad un'azione di
accertamento dell'eventuale superamento di tale limite.
Con riguardo a tale principio di inesigibilita', richiamato dalle
SS. UU., esso trova riscontro in talune pronunce della Corte
costituzionale(11).
Questo principio di inesigibilita' era gia' stato affermato anche
dalle supreme magistrature, ordinaria e amministrativa(12).
Peraltro, tale principio non e' applicabile soltanto nell'ambito
dell'ordinamento giuridico statale(13)
Secondo le S.U. del 2005, si rende, pertanto, necessaria una
lettura della norma di cui all'art. 1384 del codice civile che meglio
rispecchi l'esigenza di tutela di un interesse oggettivo fondato sui
principi costituzionali richiamati.
Proprio il suddetto principio viene evocato in supporto della
tesi favorevole alla possibilita', per il giudice della cognizione,
di predeterminare ex ante il tetto massimo delle misure coercitive;
nonche', per quello dell'esecuzione, di procedere, sia su istanza di
parte sia ex officio, ad una determinazione ex post.
Invero, ritiene questo Giudice remittente che forti dubbi sorgono
in relazione alla possibilita' che cio' possa avvenire anche in
presenza di una volonta' di segno opposto (ed espressa)
dell'obbligato che ben puo' scegliere, per una qualunque ragione, di
soggiacere ad una sanzione sproporzionata e di prestarvi adesione.
Peraltro, il principio di necessario equilibrio del rapporto
contrattuale, o meglio di non eccessiva sproporzione delle
prestazioni legate da un vincolo sinallagmatico, sposato con riguardo
alla clausola penale, e' stato trasposto anche in materia di caparra
confirmatoria.
Infatti, con un'ordinanza (ord. 2 aprile 2014, n. 77), il giudice
delle leggi si e' pronunciato, nuovamente, sulla questione di
legittimita' costituzionale del secondo comma dell'art. 1385 del
codice civile «nella parte in cui non dispone che - nelle ipotesi in
cui la parte che ha dato la caparra e' inadempiente, l'altra puo'
recedere dal contratto, ritenendo la caparra e nella ipotesi in cui,
se inadempiente e' invece la parte che l'ha ricevuta, l'altra puo'
recedere dal contratto ed esigere il doppio della caparra - il
giudice possa equamente ridurre la somma da ritenere o il doppio da
restituire, in ipotesi di manifesta sproporzione o ove sussistano
giustificati motivi».
La questione e' stata dichiarata inammissibile dalla Corte
costituzionale, la quale ha evidenziato come ai sensi dell´art. 1385
del codice civile non operi alcun automatismo di attribuzione della
caparra in favore del contraente, rimasto adempiente. E cio', anche
laddove ricorra una manifesta sproporzione, in quanto gli effetti
contrattuali sono, sempre, eterointegrati dalle norme di legge, con
carattere imperativo e imponentisi all'autonomia negoziale, con
conseguente interferenza sull'assetto di interessi, programmato dalle
parti.
In particolare, a venire in rilievo, in chiave integrativa, e' la
buona fede contrattuale di cui all'art. 1375 del codice civile che,
come noto, rinviene il proprio fondamento costituzionale nel
principio solidaristico di cui all'art. 2 Cost.
Dunque, in ipotesi di evidente sproporzione, continua la Corte,
il Giudice e' legittimato a rilevare ex officio la nullita' ex art.
1418 del codice civile della clausola contrattuale, introduttiva, nel
regolamento contrattuale, della caparra confirmatoria, derivando tale
radicale sanzione dal contrasto della regola negoziale con l´art. 2
Cost. (che pone l'adempimento del dovere inderogabile di
solidarieta'), che entra direttamente nel contratto, in combinato
contesto con il canone della buona fede, cui attribuisce vis
normativa, «"funzionalizzando cosi' il rapporto obbligatorio alla
tutela anche dell'interesse del partner negoziale nella misura in cui
non collida con l'interesse proprio dell'obbligato" (Corte di
cassazione n. 10511 del 1999; ma gia' n. 3775 del 1994 e, in
prosieguo, a Sezioni unite, n. 18128 del 2005 e n. 20106 del 2009)».
Tale pronuncia mutua le conclusioni cui era pervenuta una
precedente ordinanza del Giudice delle leggi (ord. n. 248/2013) sulla
medesima questione, pervenendo a generalizzare il principio per cui
il regolamento contrattuale deve essere ispirato ad un equilibrio che
non risulti, gravemente, alterato in favore di una delle parti e in
danno dell'altra.
Da notare, pero', come l'estensione del principio di necessario
equilibrio del rapporto contrattuale, ad opera del Giudice delle
leggi, alla caparra confirmatoria sia avvenuto, ricorrendo al diverso
rimedio della sanzione della nullita' parziale.
Cio', peraltro, nel contesto di un'operazione esegetica che ha
attribuito alla buona fede oggettiva, una funzione, eccezionalmente,
invalidatoria, a fronte di un suo consueto utilizzo in chiave di mera
eterointegrazione del rapporto contrattuale.
4.3. Il fondamento equitativo del potere del G.e. di fissare ex
post un limite massimo all'astreinte, determinata dal giudice del
merito; cosi' come dello stesso potere del giudice della cognizione
di provvedere alla sua riduzione (ove non gia' coperta da giudicato)
In ogni caso, deve ritenersi che la riduzione rinvenga il proprio
fondamento nel principio equitativo, quale ratio decidendi -
ricorribile solo in difetto di una previsione di legge, gia' idonea a
regolare la fattispecie concreta - che, secondo un illustre autore,
«assicura il saggio bilanciamento degli interessi in gioco dando a
ciascun uomo il suo senza sottrarre quanto spetta agli altri». Essa,
infatti, «significa ricerca d'equilibrio tra situazioni
antagonistiche».
Il richiamo della stessa assume ancora piu' rilievo in virtu' del
ruolo, attualmente, rivestito dalla equita' nell'ambito delle fonti
del diritto, quale principio, al pari di molti altri, non piu'
relegato ad una funzione di mero supporto dell'esegesi, ma dotato di
una funzione, per cosi' dire, «normopoietica», ovvero di fonte
regolativa di tutte le fattispecie non espressamente disciplinate.
E cio' al di la' della circostanza che la stessa possa operare
secondo lo schema dell'equita' secundum legem, sia, cioe',
espressamente richiamata dal titolo contrattuale o dalla legge.
Invero, l'equita', nell'attuale assetto ordinamentale, sembra
aver assunto una triplice configurazione: 1. quella di criterio
interpretativo del regolamento contrattuale o anche solo negoziale;
2. quella di fonte eterointegrativa del contratto o del negozio in
virtu' della clausola generale di cui all'art. 1374 del codice
civile; 3. quella di strumento di disciplina della fattispecie
concreta, seppur in una chiave di residualita' rispetto alla norma di
legge ordinaria (o costituzionale, ove direttamente precettiva).
In particolare, tal ultima funzione troverebbe la propria ragion
di essere nella preesistenza dell'equita' e, dunque, del c.d. diritto
naturale - quale insieme di regole necessariamente generali e,
tendenzialmente, onnicomprensive perche' innate ai rapporti umani -
rispetto al diritto positivo; diritto positivo che dovrebbe sempre
ambire a recepire la prima, quale condizione per la sua stessa valida
formazione e cogenza.
La legge formale deve (o meglio, dovrebbe), sempre, «rispettare i
diritti naturali (ossia i diritti innati e non «posti») dell'uomo e
deve nello stesso tempo piegarsi di fronte agli ideali di equita'
allo scopo di evitare che il summum ius degradi in summa iniura».
D'altronde, come sottolineato dalla gia' menzionata dottrina, e'
indubbio che l'equita' non possa non «compenetr(are) il diritto; il
diritto senza equita' e' come un corpo che non si lascia vibrare
dall'anima; il valore sostanziale del diritto e' ravvisabile quando
realizzi un ordine sociale giusto».
Cio', anche perche' "il diritto non e' un «ordine cieco», ma e'
«ordine cosciente», ossia un ordine ancorato ai valori della
umanita', tolleranza, coerenza e giustizia".
Invero, nel codice civile, le norme che fanno espresso
riferimento all'equita' sono scarse, o, comunque, poche.
Esse sembrano fondarsi su due principi comuni, che sono,
probabilmente, in parte, suscettibili di una revisione critica: 1. il
giudizio secondo equita' e' diverso da quello secondo stretto diritto
e consente di temperarne il rigore applicativo, ovvero di coniare una
regola decisoria che tenga conto di tutte le circostanze del caso di
specie; 2. il ricorso all'equita' e' possibile solo se la stessa
norma di diritto positivo lo consenta, con previsione espressa,
dovendosi altrimenti fare applicazione della regola di stretto
diritto.
In taluni casi, come rilevato da acuta dottrina il ricorso allo
strumento equitativo puo' discendere, in via implicita, dal richiamo
alla categoria di uno strumento rimediale, intrinsecamente, fondato
sullo stesso quale deve intendersi quello indennitario di cui agli
articoli 1381 e 2047 del codice civile.
Infatti, «l'indennizzo, a differenza del risarcimento del danno
da inadempimento contrattuale, costituisce un minus negli stessi
termini in cui l'indennita' dovuta dall'amministrazione espropriante
al proprietario rappresenta una prestazione monetaria che non copre
il valore di mercato del bene. Sotto il profilo della concreta
commisurazione, "l'indennizzo, tenuto conto delle circostanze
concrete, non deve necessariamente eguagliare l'intero pregiudizio
sofferto dalla vittima" e "la quantificazione della somma dovuta
dall'obbligato giustifica l'uso di criteri equitativi, i quali
sciolgono il diritto vivente dalla morsa dell'art. 1223 del codice
civile».
Da cio' la dottrina tradizionale trae il corollario per cui il
ricorso all'equita', anche in sede interpretativa, dovrebbe avere
natura eccezionale. Paradigmatica di questa logica di funzionamento
delle norme in materia di equita' e' l'articolo 1374 del codice
civile, che disciplina le fonti di integrazione del contratto,
menzionando l'equita' unitamente alla legge e agli usi normativi
quali possibili fonti del regolamento contrattuale. Cio', secondo un
ordine non casuale ma, secondo la interpretazione piu' accreditata,
preordinato a individuare una vera e propria gerarchia in virtu'
della quale l'(eventuale) operare della prima esclude quello della
seconda.
Riferimenti all'equita' sono contenuti anche in ambito
processuale, ma anche nella disciplina delle trattative
precontrattuali cosi' come dell'esecuzione del contratto, assumendo
la stessa in ogni sede una peculiare vocazione funzionale.
L'art. 1371 del codice civile prevede che, in caso di
impossibilita' di determinare il significato del regolamento
contrattuale, sarebbe possibile far ricorso all'equo contemperamento
degli interessi delle parti.
Anche in tal caso il ricorso all'equita' e' residuale, perche'
subordinato all'inadeguatezza delle altre regole interpretative,
dettate dal Codice, e deve mirare all'obiettivo di conservare un
ragionevole equilibrio fra le reciproche prestazioni dedotte in
contratto.
Accanto all'equita' in funzione interpretativa, si puo'
richiamare l'equita' c.d. correttiva che implica la possibilita' di
rimodulare la penale ex art. 1384 del codice civile). Previsioni
analoghe sono contenute anche da altri articoli in tema di mandato
(articoli 1733, 1736 del codice civile), agenzia (ex articoli 1749,
1751 del codice civile), mediazione (ex art. 1755 del codice civile).
La progressiva emersione del generale principio equitativo trova
conferma anche nelle seguenti ipotesi normative. L'art. 7, comma 1,
decreto legislativo n. 231/2002, in materia di ritardi del pagamento
nelle transazioni commerciali, prevede la nullita' delle clausole
inique nei casi ivi enumerati (sebbene in tale ambito la parte
protetta sia il creditore, considerato come partie faible rispetto
all'imprenditore suo debitore (siamo nel campo dei c.dd. contratti
d'impresa);
a) l'intera disciplina dettata all'art. 1526 del codice
civile ha una inequivocabile matrice equitativa. Prova ne sia che
l'antecedente normativo di tale regola e' dato dalla Abzahlungsgesetz
(AbzG) del 18 maggio 1894. Essa innalzo' un argine, tanto
rivoluzionario quanto pioneristico - estraneo alla logica formale e
avalutativa della pandettistica tedesca della prima meta'
dell'Ottocento -, alla diffusione di condizioni generali di contratto
fissanti, in caso di inadempimento del compratore-particulier, pene
contrattuali «strangolatorie» o patti di incameramento delle rate
gia' pagate e destinate a rappresentare un'anticipazione del valore
di scambio della cosa compravenduta, allorche' l'attuazione della
causa concreta traslativa fosse stata frustrata dal sopravvenuto
scioglimento del contratto di vendita per inadempimento del debitore;
b) tutta la disciplina in tema di garanzie e' informata al
principio di proporzionalita', il quale costituisce
un'estrinsecazione dell'aequitas. Tant'e' che gli articoli 1851
(pegno irregolare), 2893 (pegno di credito), 2872 ss. (riduzione
delle ipoteche) e 1941 (in tema di limite della fideiussione),
attestano l'emersione de iure condito del predetto principio, in
guisa da evitare che la forza imperativa del diritto positivo venga
ad assumere le improprie fattezze di mezzo di vessazione o
jugulatorio a scapito del debitore principale;
c) lo scopo di finanziamento, assicurato dalla vendita con
patto di riscatto (privo di causa commissoria) ha indotto il
legislatore ad applicare il su evocato principio di proporzionalita'
onde scoraggiare le condotte prevaricatrici a detrimento di chi vende
spinto dal bisogno di monetizzare il bene di sua proprieta'. In detta
direzione depone l'art. 1500, comma 2, del codice civile, a mente del
quale il «patto di restituire un prezzo superiore a quello stipulato
per la vendita e' nullo per l'eccedenza».
In ultimo, puo' richiamarsi l'equita' nella commisurazione del
quantum del danno da risarcire, prevista dagli articoli 1226 e 2056
del codice civile.
A tal riguardo, non puo' non menzionarsi come alla Tabella di
Milano la suprema Corte abbia riconosciuto valenza essenzialmente
paranormativo, non in quanto espressione della volonta' legislativa
in senso proprio e stretto, ma proprio in applicazione del principio
di valutazione equitativa del danno, richiamato dell'art. 1226 del
codice civile. In particolare, come affermato dalla suprema Corte,
con la sentenza del 2011, n. 12408, alle tabelle milanesi deve
riconoscersi «una sorta di vocazione nazionale», anche perche', coi
valori da esse tabellati, esprimono il valore da ritenersi «equo», e
cioe' quello in grado di garantire la parita' di trattamento e da
applicare in tutti i casi in cui la fattispecie concreta non presenti
circostanze idonee ad aumentarne o ridurne l'entita'.
Cio', al punto che l'applicazione delle suddette tabelle sarebbe,
come gia' evidenziato, oggetto di un vero e proprio uso
«paranormativo».
Le potenzialita' applicative del principio equitativo sono state,
pero', colte da quegli interpreti che riconoscono rilievo al
principio equitativo, anche al di fuori delle ipotesi in cui la
stessa sia oggetto di espresso richiamo da parte della previsione
normativa.
E cio' per la sua, gia' menzionata, immanenza alle relazioni
umane cosi' come per la sua anteriorita' rispetto alla disciplina di
diritto positivo.
Sotto il profilo metodologico, la generalizzazione del ricorso
all'equita' si avvale, spesso, della mediazione di quelle clausole
generali che rendono doverosa per l'interprete una valutazione,
secondo prudenza di tutte le circostanze del caso di specie, come i
principi di buona fede e correttezza o il concetto di giusta causa o
giusti motivi, o ancora la locuzione normativa, frequente specie in
materia di obbligazioni, di «natura dell'affare».
Invero, deve, pero', ritenersi che l'equita' possa operare anche
senza la necessita' della mediazione delle suddette clausole o
principi, il ricorso (surrettizio) alle quali denota il timore, anche
solo implicito, di sfruttare, in maniera piena, le potenzialita'
applicative dell'istituto.
Depongono, in tal senso, una serie di indizi normativi, spesso,
rinvenienti dalla disciplina comunitaria o di derivazione
comunitaria.
Si pensi al diritto del consumatore, qualificato espressamente
come fondamentale, «alla correttezza, alla trasparenza ed all'equita'
nei rapporti contrattuali concernenti beni e servizi», di cui
all'art. 1, comma 2, della legge 30 luglio 1998, n. 281, recante la
disciplina dei diritti dei consumatori.
La norma e' stata inserita nel codice del consumo nell'art. 2,
comma 2, lettera e), con l'eliminazione della locuzione «concernenti
beni e servizi», cio' «al fine di ampliare la originaria portata
della normativa e conferirle un valore generale».
Noto e' il dibattitto sulla portata effettiva o meramente
declamatoria e simbolica della norma(14) , cosi' come quello relativo
al contenuto del suddetto diritto all'equita' contrattuale, se,
cioe', ristretto all'equilibrio giuridico ovvero dei diritti e dei
doveri derivanti dal contratto o se esteso ai profili economici e,
dunque, alla proporzionalita' del valore delle prestazioni(15).
Peraltro, si e' pure sostenuto che "il diritto all'equita'
contrattuale segnerebbe il «superamento» dell'alternativa tra
equilibrio normativo ed equilibrio economico, con conseguente
riduzione della stessa ad una superfetazione normativa o ad una
categoria concettuale priva di utilita'.
Orbene, la suddetta norma, nella logica di un'interpretazione
sistematica e evolutiva, deve considerarsi previsione non settoriale
ma espressione di un principio generale, quello equitativo, gia'
immanente al sistema, o, comunque, in via di formazione(16).
Altra norma, espressione del generale principio della necessita',
per l'interprete - in difetto di una regolamentazione legislativa
espressa - di perseguire la giustizia del caso concreto, nella
composizione degli interessi ad esso sotteso, e' l'art. 9 della legge
n. 192 del 1998 di cui, da taluni, viene postulata un'applicazione
generalizzata, talvolta, in via diretta, ma, piu' spesso e
condivisibilmente, in via analogica(17).
Analogia anch'essa «non facile», in considerazione della poca
frequenza statistica di uno stato di vera e propria necessita'
economica in capo dal consumatore, e, peraltro, solo quando a venire
in rilievo sia il conseguimento di servizi pubblici essenziali.
Sono forse maturi i tempi per una rivisitazione dei tradizionali
limiti al principio equitativo, quali narrati dalla manualistica
classica.
(In difetto di una disciplina di diritto positivo), l'equita'
puo' essere, cioe', invocata dall'interprete non solo secundum, ma
anche praeter legem, quale clausola che consente all'ordinamento di
smussare le sue asperita' per piegarsi alle esigenze specifiche del
caso concreto e, talvolta, assumendo la portata di fonte oggettiva
del diritto(18).
Nondimeno, anche accettando tale ricostruzione dei limiti
operativi della equita' in termini piu' elastici, non puo'
sovvertirsi il principio per cui la stessa non puo' contrastare con
la regola di stretto diritto.
Per quanto concerne le modalita', metodologiche, di svolgimento
del giudizio equitativo, mediante il rinvenimento della regola della
fattispecie, come evidenziato da Autorevole dottrina, «il diritto
equo va inteso con senso pragmatico: esso, infatti, non si adegua a
specifici indirizzi filosofici o ad un ethos trascendentale ma,
sull'abbrivio della ragione ponderante, assicura il saggio
bilanciamento degli interessi in gioco dando a ciascun uomo il suo
senza sottrarre quanto spetta agli altri».
Dunque, equita' «significa ricerca d'equilibrio tra situazioni
antagonistiche» e cio' ne denota l'intima relazione con un altro
principio generale che e' quello di ragionevolezza.
Ed essendo la ragionevolezza della composizione degli interessi
in gioco la sostanza e il fine ultimo del giudizio equitativo, lo
stesso incontra dei limiti - operativi e contenutistici - precisi.
Infatti, «deve essere ben chiaro che la ricerca dei valori
attorno ai quali e' edificato lo Stato di diritto... non puo' essere
compromessa dalla c.d. aequitas cerebrina di chi antepone la propria
nozione di giusto al Wesengehalt qualificante la legislazione».
Cio', perche' «equita' non equivale ad arbitrio assoluto o
all'assenza di qualsivoglia vincolo legalitario». L'equita', per
contro, per assumere a divenire parametro oggettivabile, deve essere
ancorata ai principi ordinamentali quali quelli di ragionevolezza e
proporzionalita'.
Principi generali del diritto che "non costituiscono il risultato
di aride generalizzazioni o di formalistiche acrobazie teoretiche, ma
offrono la somma dei «criteri di valutazione costituenti il
fondamento dell'ordine giuridico e aventi una funzione genetica
rispetto alle singole norme".
Dunque, si puo' affermare che «la decisione di equita' e' un atto
sempre secondo diritto ma non necessariamente applicativo della legge
positiva», ovvero di norme puntuali, ma, per l'appunto, di quelle
clausole generali che sono i principi.
Delineate le suddette premesse ricostruttive, per taluna
dottrina, dovrebbe ritenersi che ben possa il giudice dell'esecuzione
intervenire sulla misura coercitiva, modulandola in senso
contenitivo, ogniqualvolta la sua applicazione ingeneri conseguenze
patrimoniali contrarie a equita'.
Cio', avendo riguardo a quel generale principio equitativo che
impone la ricerca della giustizia del caso di specie, valorizzandone
e ponderandone tutte le caratteristiche concrete.
4.4. Un argomento sistematico in favore del potere di fissare,
anche ex officio, un tetto massimo ad una misura, aliunde irrogata:
la posizione della giurisprudenza amministrativa
La possibilita' per il G.e. di fissare, anche ex officio, un
tetto massimo ad una misura, aliunde irrogata (e non ancora
cristallizzata) rinverrebbe. peraltro, conferma, a livello
sistematico, in quanto affermato da parte della giurisprudenza
amministrativa in materia di riduzione dell'astreintes, irrogate dal
giudice della cognizione.
L'Adunanza plenaria e' stata chiamata a pronunciarsi su un
peculiare profilo dell'istituto della c.d. astreinte, declinata, con
la pronuncia n. 15/2014, quale «misura coercitiva indiretta a
carattere pecuniario, inquadrabile nell'ambito delle pene private o
delle sanzioni civili indirette, che mira a vincere la resistenza del
debitore, inducendolo ad adempiere all'obbligazione sancita a suo
carico dall'ordine del giudice» risolvendosi in un «meccanismo
automatico di irrogazione di penalita' pecuniarie in vista
dell'assicurazione dei valori dell'effettivita' e della pienezza
della tutela giurisdizionale a fronte della mancata o non esatta o
non tempestiva esecuzione delle sentenze emesse nei confronti della
pubblica amministrazione e, piu' in generale, della parte risultata
soccombente all'esito del giudizio di cognizione».
Con la sentenza 9 maggio 2019, n. 7, il supremo consesso
amministrativo ha affrontato la questione che agitava gli interpreti
relativa alla modificabilita' o meno del criterio di quantificazione
statuito dal giudice di merito; e cio' in forza di una vistosa
iniquita' a cui l'applicazione di esso avrebbe condotto.
Il giudice amministrativo - tratteggiando le differenze
intercorrenti tra l'atteggiarsi dell'istituto in sede di giudizio
civile e il giudizio amministrativo e individuandole
nell'applicabilita' delle stesse, in questo secondo, anche alle
condanne aventi ad oggetto obbligazioni pecuniarie - ha ritenuto
modificabile il criterio statuito in sentenza, ogniqualvolta vi siano
sopravvenienze fattuali o giuridiche.
In particolare, l'Adunanza plenaria ha enucleato i seguenti
principi:
1. e' possibile, in sede di c.d. «ottemperanza di
chiarimenti», modificare la statuizione, relativa alla penalita' di
mora contenuta in una precedente sentenza d'ottemperanza, ove siano
comprovate sopravvenienze fattuali o giuridiche che dimostrino, in
concreto, la manifesta iniquita' in tutto o in parte della sua
applicazione;
2. salvo il caso delle sopravvenienze, non e' in via generale
possibile la revisione ex tunc dei criteri di determinazione della
astreinte dettati in una precedente sentenza d'ottemperanza, si' da
incidere sui crediti a titolo di penalita' gia' maturati dalla parte
beneficiata. Tuttavia, ove il giudice dell'ottemperanza non abbia
esplicitamente fissato, a causa dell'indeterminata progressivita' del
criterio dettato, il tetto massimo della penalita', e la vicenda
successiva alla determinazione abbia fatto emergere, a causa proprio
della mancanza del tetto, la manifesta iniquita', quest'ultimo puo'
essere individuato in sede di chiarimenti, con principale
riferimento, fra i parametri indicati nell'art. 614-bis del codice di
procedura civile, al danno da ritardo nell'esecuzione del giudicato.
E' proprio tale seconda ipotesi che potrebbe sovvenire per il
caso di specie.
In applicazione analogica del principio enucleato dall'adunanza
plenaria, e' stato ritenuto che il giudice dell'esecuzione civile
possa fissare un tetto massimo all'importo dovuto a titolo di
astreintes, quando a cio' non abbia provveduto il giudice della
cognizione e, dunque, neppure esista un giudicato sul punto.
Tale ordine di considerazioni parrebbe, peraltro, avvalorato
dalla nuova formulazione della norma codicistica. Infatti, se al
giudice dell'esecuzione compete la fissazione ex novo delle misure
coercitive, non sembra «trascendentale» la scelta di riconoscere allo
stesso il potere di determinare l'importo massimo di una misura gia'
previamente irrogata dal Giudice della cognizione.
4.5. Argomento sistematico-evolutivo
Nel senso di un potere di integrazione e specificazione (e non
anche di modifica) della misura ex art. 614-bis del codice di
procedura civile, da parte del giudice dell'esecuzione, deporrebbe
anche la metamorfosi conosciuta dal processo esecutivo, da strumento
di mera attuazione del comando alla nuova veste cognitoria:
Gli approdi recenti della giurisprudenza di legittimita' denotano
una vera e propria metamorfosi del processo esecutivo.
In particolare, deve ritenersi che si vadano attenuando anche
alcuni principi che hanno contraddistinto il processo esecutivo fin
dal suo ingresso nell'ordinamento giuridico, quando aveva la
connotazione di strumento di attuazione del comando, rimasto
inadempiuto, sia esso di fonte stragiudiziale, sia esso di matrice
giudiziaria.
Il riferimento e' ai caratteri dell'autonomia, dell'astrattezza e
dell'autosufficienza, propri del titolo esecutivo.
Appare, decisamente, in crisi anche la tradizionale distinzione -
avente, invero, una sua intrinseca ragionevolezza - tra attivita' di
tipo cognitorio e attivita' esecutiva, che implicava il
riconoscimento agli organi esecutivi di una funzione di mera
traduzione nella realta' della regola «scolpita» dal titolo
esecutivo.
L'ultimo dei suddetti connotati distintivi ovvero
l'autosufficienza, nella logica della separazione fra il momento
dell'accertamento e quello dell'esecuzione, veniva intesa come
l'idoneita' del titolo esecutivo a consentire, legittimandola,
l'azione esecutiva. Cio', attribuendo al possessore dello stesso, il
diritto, in un certo qual modo, incondizionato, di ottenere
l'attivazione dell'ufficio esecutivo, su cui, dal suo canto suo,
sarebbe gravato il dovere di tutelare la pretesa giuridica soggettiva
(normalmente, coincidente con il diritto) incorporata nel titolo.
Cio', in un contesto in cui il G.E., di norma, non avrebbe potuto
accertare l'effettiva esistenza della stessa, fatta eccezione per
l'ipotesi in cui non fosse a cio' legittimato dalla proposizione di
rituale opposizione all'esecuzione (peraltro, fino ad un recente
passato, esperibile sine die).
Nella vigenza della suddetta disciplina, le opposizioni esecutive
costituivano gli unici momenti cognitivi di un'attivita' esecutiva
congeniata non «per conoscere, ma per attuare un pensiero giuridico
gia' definito».
Nell'ambito dell'economia complessiva dell'attivita' giudiziaria,
l'attivita' accertativa veniva ad assumere un ruolo del tutto
marginale e, comunque, servente alla definizione delle controversie,
veicolate a mezzo delle c.d. opposizioni esecutive.
Altro carattere che si riteneva consustanziale alla vicenda
esecutiva era quello relativo all'astrattezza del titolo, da
intendersi quale inidoneita' dello stesso ad essere condizionato,
nella sua funzione e vitalita', dal rapporto sottostante.
Gia' le pronunce a Sezioni Unite del 2012(19), in punto di
integrazione giudiziale del titolo esecutivo da parte del G.e.,
avevano iniziato a erodere progressivamente tali principi,
alimentando un ancora non sopito dibattito interpretativo.
In particolare, la sentenza n. 11067 del 2.07.2012 attribuiva al
giudice dell'esecuzione, nell'ipotesi di (obiettive e non superabili)
incertezze interpretative nella ricostruzione dell'obbligo posto da
una sentenza, il potere di integrare con elementi extratestuali il
precetto giudiziale. Cio', pero', subordinatamente al fatto che i
dati di riferimento, con cui effettuare l'eterointegrazione del
titolo giudiziale, potessero essere tratti da documenti, a loro
volta, ritualmente acquisiti al processo che aveva condotto alla
formazione del titolo giudiziale.
D'altronde, e' innegabile che le suddette pronunce, nel garantire
l'eseguibilita' di comandi sia sostanziali sia giudiziali, affetti da
una genetica genericita', abbiano assicurato l'osservanza del
principio di effettivita' della tutela, il cui fondamento e' da
ricercarsi sia a livello costituzionale negli articoli 24 e 113
Cost., sia sovranazionale negli artt. 6 e 13 CEDU e 47 Cost.
Si attua, dunque, il passaggio da un ruolo monolitico del G.e.
quale mero esecutore di un comando gia' formato ad una veste duplice,
non solo esecutiva, bensi' di giudice della cognizione, se non altro
per tutte le questioni veicolabili dalle c.d. eccezioni in senso
lato. E cio' con poteri di cognizione, di norma, solo sommari;
talvolta, di cognizione piena, quando lo stesso sia investito del
merito di un'opposizione esecutiva, o quando lo stesso proceda al
rilievo d'ufficio di una causa estintiva o del difetto delle
condizioni stesse per procedere ad esecuzione.
Anche di recente, in virtu' dell'obbligo generale di recezione
del diritto unionale - che, come noto direttamente applicabile,
unitamente alle sentenze della Corte di giustizia, che ne
eterointegrano il contenuto precettivo - si e' assistito ad
un'ulteriore erosione della distinzione concettuale tra attivita'
cognitiva e esecutiva.
Distinzione, secondo la dogmatica tradizionale, afferente al c.d.
ordine pubblico processuale e come tale inderogabile.
Di essa rappresentava logico corollario l'impossibilita' -
assoluta e incondizionata - per il giudice dell'esecuzione di
sindacare la legittimita' del titolo esecutivo, specie se di
formazione giudiziale, facendo valere fatti anteriori al
conseguimento della sua definitivita'. Fatti che risultavano
azionabili esclusivamente davanti al giudice della cognizione.
Del suddetto principio si e' imposto, pero', il superamento al
fine di tutelare quella liberta' negoziale del consumatore che, nella
logica dell'ordinamento comunitario, non rileva, di per se', ma quale
bene strumentale o intermedio, la cui garanzia si impone per
assicurare l'assetto concorrenziale del mercato, in quanto unico
modello di organizzazione che possa assicurarne un'adeguata
competitivita'.
Si discute, peraltro, se tale eccezione valga per la sola
disciplina consumieristica oppure sia estendibile ad ogni ipotesi in
cui venga in rilievo una violazione della disciplina comunitaria.
Si e' affermato, in dottrina, che la nuova formulazione dell'art.
614-bis del codice di procedura civile, nella parte in cui prevede
che il G.e. dell'esecuzione possa irrogare l'astreinte, non avrebbe
fatto che positivizzare una tendenza, gia' insita nel sistema, nel
senso dell'attribuzione al Giudice dell'esecuzione di sempre maggiori
poteri cognitivi, meramente sommari o anche a cognizione piena, ma
pur sempre strumentali alle finalita' dell'esecuzione.
D'altronde, e' indubbio, che il G.e. adito ai fini
dell'emanazione di una misura coercitiva, e' tenuto a svolgere
un'attivita' istruttoria, volta all'accertamento della ricorrenza dei
presupposti di cui all'art. 614-bis del codice di procedura civile.
Dunque, lo stesso, come sottolineato da Autorevole dottrina, e'
gravato di «una vera e propria attivita' cognitiva (seppure informale
e semplificata) che sfocera' nell'adozione di un provvedimento di
condanna».
4.6. La qualificabilita' dell'eccessiva esosita' della penale
quale fatto sopravvenuto
Secondo una certa angolazione ricostruttiva, la mancanza di un
tetto massimo implica il pericolo che la penale possa diventare, con
il passare del tempo, eccessivamente onerosa, se non addirittura
esosa, e tale circostanza e' qualificabile quale fatto sopravvenuto.
Come noto, per principio interpretativo consolidato, in sede di
opposizione sia esecutiva sia pre-esecutiva (per l'ipotesi in cui
l'actio esecutiva non sia ancora iniziata), promossa sulla base di un
titolo esecutivo di formazione giudiziale, e', in generale, preclusa
la spendita di eccezioni in senso stretto, fondate su fatti di natura
impeditiva, modificativa o estintiva anteriori cronologicamente,
quanto alla loro venuta ad esistenza, alla definitivita' del decreto
ingiuntivo o del diverso provvedimento giurisdizionale opposto.
Pertanto, eventuali fatti estintivi o modificativi del diritto
azionato con un titolo di formazione giudiziale che si siano
verificati anteriormente alla formazione del titolo stesso - e,
dunque, come tali dedotti o anche, semplicemente, giuridicamente
deducibili - non possono essere fatti valere con opposizione
all'esecuzione, dovendo essere oggetto di specifiche eccezioni nel
giudizio di merito che ha portato all'emissione del titolo esecutivo.
Si pensi, in particolare, all'eccezione di compensazione legale,
i cui presupposti di liquidita', esigibilita' e coesistenza siano
venuti ad esistenza dopo la scadenza dei termini per l'opposizione a
decreto ingiuntivo oppure dopo il maturare delle preclusioni
processuali nel giudizio di opposizione (v. ex multis, Cass. 17
febbraio 2011, n. 3850, secondo cui «[...] il titolo esecutivo
giudiziale non puo' essere rimesso in discussione dinanzi al giudice
dell'esecuzione ed a quello dell'opposizione per fatti anteriori alla
sua definitivita', in virtu' dell'intrinseca riserva di ogni
questione di merito al giudice naturale della causa in cui la
controversia tra le parti ha avuto o sta avendo pieno sviluppo ed e'
stata od e' tuttora in via di esame ex professo o comunque in via
principale»).
In tal senso, depongono non solo ragioni di carattere logico e di
economia processuale, ma anche la necessita' di conservare una cesura
netta fra le vicende giuridiche inerenti al giudizio presupposto e
l'esecuzione del provvedimento, conclusivo dello stesso. Cio', in
virtu' di un principio di «competenza» intesa in senso lato, per cui
della valida formazione del provvedimento portato a esecuzione e' (o
puo' essere) investito unicamente il giudice cui e' devoluto il
gravame o l'impugnativa promossa avverso lo stesso.
Principio di «competenza» che, peraltro, si interseca anche con
il diverso principio, pure ispirato ad esigenze di economia
processuale, del deducibile (valevole) come dedotto.
Esigenze, tali ultime, meritevoli di tutela secondo la logica e i
valori ispiratori dell'ordinamento giuridico multilivello quale deve
considerarsi quello italiano in conseguenza dell'eterointegrazione da
parte del livello di tutela comunitario, nonche' delle sollecitazioni
provenienti dalla CEDU.
E' indubbio che l'attuazione, in via coattiva, del decisum e la
tempestivita' della tutela siano due corollari logici indefettibili
di quel diritto all'effettivita' della tutela giurisdizionale che
rinviene il proprio fondamento oltre che nell'art. 24 Cost., anche
negli articoli 6 e 13 CEDU e 47 CDFUE.
Peraltro, considerato l'attuale stadio dell'evoluzione
interpretativa interna, trovando applicazione la regola del
deducibile come dedotto, deve ritenersi che l'impossibilita' di
azionare vizi del titolo di formazione giudiziale valga non solo per
quelli concretamente dedotti nel giudizio c.d. presupposto, ma anche
per quelli che lo erano sulla base di un criterio di normalita'
statistica e di diligenza (di fatto, rimasto inosservato);
Nondimeno, in sede esecutiva, possono essere dedotti nuovi fatti
giuridici, non esistenti prima della scadenza del termine per la
proposizione dell'opposizione (o del gravame) e in grado di
estinguere o modificare (in tutto o anche solo in parte) il rapporto
in contestazione.
D'altronde, venendo alla fattispecie concreta, e' evidente come
la fissazione di un tetto massimo costituisca naturale prerogativa
del G.e., in quanto giudice delle c.d. sopravvenienze fattuali e
giuridiche. Infatti, solo il G.e. puo' apprezzare l'eventuale
esorbitanza dell'importo raggiunto dalla misura rispetto agli
interessi che la stessa e' preordinata a tutelare, provvedendo a
comparare gli stessi con quello antagonista a che la sfera giuridica
dell'obbligato non sia esposta a un sacrificio sproporzionato.
Gli effetti patrimoniali della misura sono destinati a
proiettarsi naturalmente nel futuro e le parti, in sede di
cognizione, sono, spesso, sprovviste di idonei elementi valutativi da
sottoporre all'attenzione del Giudice, investito della richiesta di
astreinte.
Cosi' il giudice investito della controversia non e', di norma,
nelle condizioni di predeterminare l'entita' massima, raggiungibile
dalla misura. Si pensi, a titolo esemplificativo, all'ipotesi in cui
il giudice della cognizione, al fine di determinare la misura della
stessa, voglia - compiendo un'operazione esegetica contrastata da
chi, condivisibilmente, sostiene che l'astreinte non possa svolgere
un ruolo di surrogazione dello strumento risarcitorio tradizionale e
azionato nelle debite forme - commisurare la pretesa risarcitoria al
danno cagionato o cagionabile dall'inadempiente. Non essendovi, al
momento dell'irrogazione dell'astreinte, alcun accertamento del
danno, diverrebbe impossibile ricorrere a tale criterio
commisurativo.
Cosi', in generale, se il giudice della cognizione volesse
ancorare la massima soglia raggiungibile dalla misura coercitiva in
base alle specifiche modalita' della condotta dell'obbligato,
dovrebbe, tendenzialmente, fare riferimento - sulla base di un
giudizio, necessariamente, predittivo e prognostico - a circostanze
future, non agevolmente governabili, con conseguente incertezza dei
prescelti parametri del riferimento.
Vi e', peraltro, dottrina che assume, piu' radicalmente, che la
misura coercitiva sarebbe una misura tipica del giudice
dell'attuazione del comando (stragiudiziale o giudiziale) come denota
anche la previsione di similare competenza in capo al giudice
dell'ottemperanza, in sede amministrativa.
Peraltro, nel senso che la stessa debba avere necessariamente (e
indefettibilmente) un termine massimo di durata depone il generale
principio di temporaneita' di ogni vincolo obbligatorio che
costituisce corollario della tradizionale avversione dell'ordinamento
per i vincoli perpetui.
4.7. Opponibilita' dell'exceptio doli generalis (al di fuori
dell'ambito contrattuale)
a. Rapporti fra abuso del diritto, da un lato, e buona fede e
correttezza, dall'altra
Orbene, in disparte le superiori considerazioni, potrebbe
ritenersi che, nella condotta del beneficiario dell'astreintes che
decida di avvalersi di una clausola che sia divenuta manifestamente
iniqua, siano ravvisabili gli estremi dell'abuso del diritto e,
quindi, della condotta contraria a buona fede oggettiva e
correttezza. Principi che conformano e innervano il nostro
ordinamento, cosi' come affermato dalla suprema Corte, con
orientamento oramai costante.
Peraltro, buona fede e correttezza avrebbero, secondo la
prevalente e preferibile ricostruzione teorica, un fondamento
costituzionale.
Precisamente, il principio de quo - il quale, secondo la
Relazione ministeriale al codice civile, «richiama nella sfera del
creditore la considerazione dell'interesse del debitore e nella sfera
del debitore il giusto riguardo all'interesse del creditore» - opera
come un criterio di reciprocita' e, una volta collocato nel quadro di
valori introdotto dalla Carta Costituzionale, deve essere inteso come
una specificazione degli «inderogabili doveri di solidarieta'
sociale» dettati dall'art. 2 Cost.
La sua rilevanza si esplica nell'imporre, a ciascuna delle parti
del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare
gli interessi dell'altra, a prescindere dall'esistenza di specifici
obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole
norme di legge (Sez. L, sentenza n. 4057 del 16 febbraio 2021; Sez.
3, ordinanza n. 24691 del 5 novembre 2020; Cass. n. 12310/1999).
Essa si sostanzia in un generale obbligo di solidarieta' che
impone a ciascuna delle parti di agire in modo da preservare gli
interessi dell'altra, a prescindere tanto da specifici obblighi
contrattuali, quanto dal generale dovere extracontrattuale del
«neminem laedere», ma trova, tuttavia, un suo limite precipuo
nell'impossibilita' che il comportamento preteso dalle parti
contrattuali (o, in genere, dai consociati, ove non legati da un
rapporto negoziale) possa comportare un apprezzabile sacrificio a
carico delle stesse (o degli stessi).
In altri termini, la buona fede oggettiva ha assunto valenza di
fonte di obblighi ulteriori rispetto all'obbligo di prestazione
riveniente dal contratto, che si pongono in posizione ancillare
rispetto a quest'ultimo, assicurando la realizzazione dell'assetto di
interessi prospettato dalle parti.
E cio' in virtu' del combinato disposto degli articoli 1375 e
1175 del codice civile. che, dettati in materia contrattuale, si
considerano espressione di un principio generale volto a conformare
la condotta dei consociati anche al di fuori della sede contrattuale,
tanto da considerare lo stesso quale una declinazione del piu'
generale dovere del neminem laedere.
Sotto il profilo operativo, dunque, la buona fede - anche se,
testualmente, riferita al momento esecutivo del contratto - integra
gli obblighi derivanti dal contratto e, quindi, arricchisce il
rapporto o, in alternativa, il divieto del neminem laedere, venendo
ad assumere la funzione di regola obiettiva che concorre a
individuare il comportamento dovuto, imponendo una condotta non
prestabilita e cio' in dipendenza delle circostanze concrete di
attuazione del rapporto o di quelle che connotano la singola vicenda
in cui si consuma l'illecito aquiliano.
Dunque, la clausola generale di buona fede ha assunto nel
dibattito giurisprudenziale un'importanza sempre crescente,
evolvendosi da mero criterio per la valutazione delle condotte a vero
e proprio strumento di integrazione degli obblighi nascenti dal
contratto in capo alle parti, attraverso l'individuazione di
ulteriori condotte a tenersi, ad opera delle stesse.
Peraltro, in relazione a tale principio, e' frequente il
riferimento all'istituto della Verwirkung (Cass. Sez. 3, sentenza n.
10549 del 3 giugno 2020; Cass. Sez. 3, sentenza n. 10182 del 4 maggio
2009; Cass. Sez. 3, sentenza n. 5240 del 15 marzo 2004).
Come noto, la Corte di cassazione ritiene, infatti, che l'abuso
del diritto rappresenti uno dei criteri rivelatori della violazione
del principio di buona fede oggettiva.
Intervenendo sul rapporto tra abuso del diritto e buona fede, ha
affermato la configurabilita' della figura dell'abuso del diritto in
tutte le ipotesi in cui siano tenute condotte contrarie al principio
di buona fede oggettiva e di correttezza.
Tale orientamento e' stato sostenuto per la prima volta in una
sentenza della suprema Corte degli anni Sessanta in cui la
disposizione concernente la buona fede e' stata considerata idonea a
reprimere l'abuso del diritto soggettivo (Cass., 15 novembre 1960, n.
3040).
Le pronunce piu' recenti si muovono nello stesso solco:
recentemente la Corte ha confermato che i principi di buona fede
oggettiva e di divieto dell'abuso del diritto si integrano a vicenda:
la buona fede rappresenta un canone generale cui riferire i
comportamenti delle parti, anche di un rapporto privatistico (Cass.
Civ., Sez. VI, 21 luglio 2020, n. 15436).
A dimostrazione della vitalita' e delle potenzialita' operative
del principio de quo, la suprema Corte e' giunta a valorizzare il
principio di buona fede fino all'esplicita affermazione secondo cui
anche il decorso di un «termine» legale (nella vicenda esaminata si
trattava di quello del precetto) non determina necessariamente
l'effetto sfavorevole previsto dalla legge, allorche' «in concreto»,
accertate le «circostanze rilevanti nella singola fattispecie» vi sia
un comportamento adempiente («pagamento in un termine ragionevole»)
della parte obbligata.
Da ultimo, ad essa viene riconosciuta una funzione disapplicativa
della regola negoziale o, comunque, di paralisi della singola pretesa
azionata da una delle parti del rapporto.
La conseguenza che, di norma, l'ordinamento riconnette alla sua
violazione e' quella dell'insorgere di un obbligo a contenuto
risarcitorio, con le precisazioni che si vanno a svolgere.
b. Fondamento normativo del principio dell'abuso del diritto
Quanto al fondamento normativo del principio dell'abuso del
diritto, come noto, nel nostro Codice non esiste una norma che
sanzioni, in via generale, l'abuso del diritto. Cio', per quanto si
ancori lo stesso, in materia proprietaria e di rapporti di vicinato,
al divieto di atti emulativi ex art. 833 del codice civile, quale
ipotesi paradigmatica di deviazione dell'esercizio di un diritto dal
suo scopo tipico, ovvero da quello cristallizzato dalla norma
attributiva dello stesso.
Nondimeno, in via interpretativa, come gia' evidenziato,
costituisce oramai dato acquisito quello per cui l'abuso e'
configurabile «quando il titolare di un diritto soggettivo, pur in
assenza di divieti formali, lo eserciti con modalita' non necessarie
ed irrispettose del dovere di correttezza e buona fede, causando uno
sproporzionato ed ingiustificato sacrificio della controparte
contrattuale, ed al fine di conseguire risultati diversi ed ulteriori
rispetto a quelli per i quali quei poteri o facolta' furono
attribuiti» (Cass. III Civile, 18 settembre 2009, n. 20106).
Invero, il principio de quo ha conosciuto una positivizzazione, a
livello sovranazionale ed, in particolare, comunitario, nella Carta
dei diritti fondamentali dell'Unione europea, all'art. 54 («Divieto
dell'abuso del diritto»).
Peraltro, dopo l'entrata in vigore (nel 2009) del Trattato di
Lisbona, esso ha il medesimo valore giuridico dei trattati comunitari
e delle norme comunitarie direttamente applicabili, perche'
sufficientemente determinate nel loro contenuto precettivo, godendo
della c.d. primazia sulle norme interne.
Cio' premesso, elementi costitutivi dell'abuso del diritto sono i
seguenti: 1) la titolarita' di un diritto soggettivo in capo ad un
soggetto; 2) la possibilita' che il concreto esercizio di quel
diritto possa essere effettuato secondo una pluralita' di modalita'
non rigidamente predeterminate; 3) la circostanza che tale esercizio
concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva
di quel diritto, sia svolto secondo modalita' censurabili rispetto ad
un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico; 4) la
circostanza che, a causa di una tale modalita' di esercizio, si
verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del
titolare del diritto ed il sacrifico cui e' soggetta la controparte
(v. expressim, Cass. n. 20106, 2009, cit.).
Per contro, come noto, la verifica giudiziale del carattere
abusivo o meno della condotta prescinde dal dolo e dalla specifica
intenzione di nuocere alla propria controparte contrattuale o, in
genere, ad un terzo: elementi questi tipici degli atti emulativi, ma
non delle fattispecie di abuso di potere contrattuale o di dipendenza
economica.
Ricorrendo tali presupposti, ricorrendo una certa traiettoria
argomentativa, sarebbe consentito al giudice di merito sindacare e
dichiarare inefficaci gli atti compiuti in violazione del divieto di
abuso del diritto (v., expressim, Cass. n. 20106, 2009, cit.).
La tutela riconosciuta al contraente che ha subito l'abuso del
diritto e', infatti, l'exceptio doli generalis, che attribuisce al
titolare la possibilita' di opporsi ad un'altrui pretesa o eccezione,
astrattamente fondata ma che, in realta', costituisce espressione di
uno scorretto esercizio di un diritto, volto al soddisfacimento di
interessi non meritevoli di tutela per l'ordinamento giuridico.
Tale rimedio e' fruibile in caso di condotte sleali anche se non
fraudolente e rappresenta, pertanto, un rimedio di natura oggettiva,
a tal fine essendo sufficiente la prova della mera conoscenza o della
conoscibilita' della contrarieta' alla correttezza del comportamento
posto in essere.
Orbene, declinando tali categorie con riferimento al caso di
specie, considerando come abusiva la richiesta di una penale, anche
dopo che la stessa, per il suo ammontare complessivo e perche'
comminata sine die, diventi contraria a buona fede oggettiva,
potrebbe ritenersi prefigurabile il ricorso all'exceptio doli
generalis, con conseguente paralisi degli effetti (di preordinazione
all'esecuzione) del precetto intimato.
In tal senso deporrebbe anche l'attuale e gia' menzionata
tendenza interpretativa ad estendere l'ambito operativo della buona
fede (oggettiva) al di fuori del suo alveo fisiologico, che e' quello
dei rapporti di natura negoziale, facendone, al contempo, un criterio
integratore del piu' generale dovere del neminem laedere.
Ad essa viene riconosciuta, infatti, anche la vocazione a porsi
quale parametro cui commisurare la liceita' del comportamento di un
soggetto nei confronti di un altro, al quale il primo non sia legato
da un precedente vincolo negoziale.
5. Le criticita' mosse alla soluzione favorevole e la non agevole
sperimentazione di un'interpretazione costituzionalmente orientata.
Invero, questo Giudice remittente non ritiene che gli argomenti
invocati, possano indurre, con sufficiente solidita', ad
un'interpretazione costituzionalmente orientata della norma,
sottoposta al vaglio dell'ecc. ma Corte. E cio', in considerazione
delle seguenti considerazioni:
1. l'univoco dato testuale dell'art. 614-bis del codice di
procedura civile, illo tempore applicabile alla fattispecie concreta,
che prevedeva il potere d'irrogazione dell'astreinte solo in capo al
giudice della cognizione e non anche a quello dell'esecuzione.
Dunque, il legislatore del 2009, con il modulare l'originaria
formulazione della norma, sembrava ribadire la netta cesura fra fase
cognitoria e fase esecutiva, in parte ribadita anche dalla riforma
Cartabia. Ne', alla stregua delle suddette coordinate normative, il
potere del G.e. di intervenire sulla misura «eterodata» poteva
ritenersi insito nel sistema perche' sarebbe stata necessaria
un'espressa previsione a cio' legittimante.
Invero, per quanto estraneo al presente thema decidendum, la
questione non pare essere stata risolta alla stregua del novello dato
testuale della norma che sembra precludere un intervento del Giudice
dell'esecuzione in materia di 614-bis del codice di procedura civile,
al di fuori dell'ipotesi in cui il Giudice della cognizione nulla
abbia stabilito al riguardo e, dunque, secondo una logica di evidente
sussidiarieta' o, comunque, di rigorosa alternativita'.
Infatti, come gia' evidenziato, la nuova formulazione dell'art.
614-bis del codice di procedura civile, come novellata dalla riforma
Cartabia, consente di avanzare la domanda di misure coercitive anche
nel giudizio di esecuzione solo se non richiesta nel precedente
processo di cognizione.
Cio', vuol dire che, in virtu' del dato testuale della norma, la
competenza del G.e. all'assunzione del provvedimento e' subordinata
non alla mancata concessione da parte del giudice della cognizione,
ma alla sua mancata richiesta, al primo, da parte dell'interessato.
Dunque, anche a voler ritenere, come gia' prospettato, che la
nuova formulazione dell'art. 614-bis si limiti a evocare poteri gia'
insiti nel sistema, cosi' come evolventisi, la stessa esprime la
volonta' di tenere separate le competenze in materia dei due giudici
della cognizione e della esecuzione;
2. la non invocabilita' della soluzione prescelta dalla
giurisprudenza amministrativa in virtu' dei penetranti poteri di
cognizione che sono riconosciuti al Giudice dell'ottemperanza
amministrativa, nella logica di un sindacato che e' destinato a
estrinsecarsi in relazione ad una realta' giuridica, non statica, ma
dinamica, qual e' l'esercizio del potere amministrativo, esercitabile
negli spazi non coperti dal giudicato amministrativo. Sindacato,
peraltro, naturalmente, destinato a confrontarsi con il fenomeno
delle sopravvenienze in fatto e in diritto. Inoltre, al Giudice
dell'ottemperanza, in virtu' dell'oramai categoria del giudicato a
formazione progressiva, e' riconosciuto il potere non solo di
attuare, ma anche di integrare e precisare il precetto
giurisdizionale da portare a esecuzione proprio al fine di consentire
l'adattamento della regola giudiziale alle suddette sopravvenienze
(rilevanti solo se non successive alla notifica della sentenza alla
parte interessata);
3. la tendenziale assolutezza del principio di separazione
fra il momento dell'accertamento e quello dell'esecuzione,
rispondente ad un principio di ordine pubblico processuale,
derogabile solo per effetto di una specifica previsione normativa o
per effetto della prevalenza del diritto comunitario su quello
nazionale, come in materia di clausole abusive;
4. l'inidoneita' del rimedio della revoca o modifica del
provvedimento cautelare di cui all'art. 669-decies del codice di
procedura civile a far fronte al problema in esame. E cio' in quanto
la sopravvenuta esorbitanza della penale non potrebbe essere
configurabile, per la sua configurazione ontologica, quale modifica
delle circostanze iniziali.
Trattasi, infatti, a bene vedere, non di un mutamento del quadro
fattuale che ha presieduto all'emanazione del provvedimento e che,
dunque, ha costituto parte integrante della base cognitoria, assunta
a fondamento del provvedimento, ma di una aspetto diverso, ovvero di
una sopravvenienza di natura fattuale per cosi' dire «estrinseca»,
perche' non inerente al fatto storico che ha mosso alla propria
determinazione il giudice cautelare, bensi' alle conseguenze che
l'ordinamento, per il tramite della statuizione giudiziale, ricollega
al fatto ed, in particolare, alla modulazione quantitativa della
misura irrogata, in conseguenza dell'accertamento fattuale compiuto.
Sotto altro aspetto, trattasi di un profilo - quella della
entita' massima richiedibile e irrogabile - che si correla alla
durata temporale della misura; aspetto tal ultimo che era
suscettibile di essere ponderato gia' nel momento genetico, di
emissione del provvedimento e che, dunque, esula dal concetto di
modifica del quadro fattuale.
In tal senso, e' richiamabile anche Tribunale Verona, 4 agosto
2001, secondo cui «il semplice decorso del tempo, in quanto elemento
gia' valutabile da parte del giudice che ha emesso il provvedimento
cautelare o eventualmente del giudice del reclamo, i quali possono
limitare nel tempo la durata di un'inibitoria, non costituisce di per
se mutamento nelle circostanze che legittimi il ricorso per revoca o
modifica ex art. 669-decies del codice di procedura civile»;
5. la difficolta' di applicare il principio di buona fede
oggettiva al di fuori dell'esecuzione di un contratto o di un negozio
e, quindi, dell'ambio negoziale. D'altronde, l'art. 1374 del codice
civile che disciplina le fonti di integrazione del contratto,
menzionando la legge, gli usi normativi e l'equita', quali possibili
fonti del regolamento contrattuale, e' una norma che inerisce alla
materia del contratto.
Cosi' gli articoli 1375 del codice civile e 1175 del codice
civile concorrono alla disciplina dello «statuto normativo
contrattuale» e non sarebbero applicabili al di fuori del suo alveo
genetico.
Inoltre, l'effetto tipico dell'exceptio doli e' quello di
paralisi della pretesa azionata che viene per cosi' dire
«sterilizzata» e, anche ad ipotizzare che la buona fede oggettiva
possa rilevare quale fonte di responsabilita' aquiliana, appare arduo
riconoscere alla stessa un ruolo diverso da quello risarcitorio e, in
particolare, di carattere invalidatorio.
Nel caso di specie, a venire in rilievo e', invece, la richiesta
di dare attuazione ad un provvedimento giurisdizionale di cui la
parte istante e' beneficiaria;
6. la non qualificabilita' dell'eccessiva esosita' della
penale quale fatto sopravvenuto che sarebbe idoneo a superare la
tradizionale preclusione alla cognizione del Giudice dell'esecuzione
di circostanze dedotte (o, semplicemente, deducibili) davanti al
Giudice della cognizione.
A ben vedere, si obietta, lo squilibrio dell'ammontare
complessivo della penale maturata rispetto all'interesse debitorio da
tutelare, non costituirebbe una circostanza fattuale idonea a
stravolgere il quadro fattuale posto a fondamento del provvedimento.
Cio', anche per la sua intrinseca componente valutativa che ne
impedirebbe l'ascrizione al novero dei fatti in senso stretto;
5. la non estendibilita' del principio equitativo al di la'
delle ipotesi in cui lo stesso e' espressamente richiamato, non
potendosi, peraltro, prescindere dall'esistenza di un'espressa
previsione di legge che ne legittimi il ricorso.
Dunque, ritiene sommessamente questo Giudice che non sia
agevolmente sperimentabile la possibilita' di un'interpretazione
costituzionalmente orientata.
Da cio' la non manifesta infondatezza della questione di
legittimita' costituzionale nei termini che si vanno a precisare.
6. Non manifesta infondatezza della questione di legittimita'
costituzionale per violazione dei principi di ragionevolezza e
proporzionalita' ex art. 3 Cost.
6.1. Il divieto di vincoli perpetui quale declinazione dei
principi de quibus
Invero, la mancata previsione dell'apponibilita', anche
d'ufficio, di un tetto massimo, appare in contrasto con il principio
di ragionevolezza - declinazione del correlato principio di
eguaglianza ex art. 3 Cost. -, cosi' come con il principio di
proporzionalita' delle sanzioni, quali - secondo una certa opzione
ricostruttiva - dovrebbero ritenersi anche le misure coercitive
indirette.
D'altronde, deve ritenersi irragionevole e sproporzionato
qualunque vincolo - quale parrebbe essere quello di specie - con
caratteristiche di perpetuita'.
Una tale tipologia di vincolo - per le ragioni che si va ad
esplicitare e che si differenziano a seconda dei valori di
riferimento - parrebbe porsi in contrasto anche con il principio di
liberta' negoziale di cui e', unanimemente, riconosciuto l'ancoraggio
costituzionale all'art. 42, comma 2, Cost.; nonche' con la tutela che
l'ordinamento, a vari livelli, riconosce al diritto dominicale. E'
evidente, infatti, come una penale eccessiva vada potenzialmente ad
incidere anche sulla sfera patrimoniale dell'obbligato, venendo lo
stesso esposto al pericolo di un'esecuzione mobiliare o immobiliare.
L'inammissibilita' dei vincoli perpetui - in particolare quelli
che limitano il diritto di proprieta' ma anche la sfera patrimoniale
o negoziale delle parti - risponde ad un principio consolidato
nell'ordinamento italiano, basato sulla necessita' di evitare
restrizioni eccessive e indefinite nel tempo alle facolta' di
godimento e disposizione dei beni, cosi' come della sfera personale
dei soggetti dell'ordinamento.
Piu' in generale, questo principio emerge da diverse norme ma
anche dal panorama interpretativo, essendo molteplici le pronunce che
pervengono a dichiarare l'invalidita' di clausole negoziali che siano
preordinate a creare vincoli di durata illimitata, specialmente se
inerenti a beni immobili.
Ne e' evidente la motivazione giuridica.
Il diritto di proprieta', sancito, come noto, dall'articolo 42
della Costituzione - quale valore di rango anche sovranazionale -
implica la conservazione della possibilita' per il proprietario di
disporre liberamente del bene, godendone e alienandolo. Vincoli di
carattere perpetuo tendono a limitare eccessivamente questa liberta',
svuotando il diritto del suo contenuto effettivo e venendosi a
configurare, in alcuni casi, come una sorta di «espropriazione senza
indennizzo».
Inoltre, da un punto vista sociale, vincoli perpetui impediscono
l'adattamento a nuove situazioni, generando rigidita' e ostacolando
il progresso economico e sociale.
Dunque, il nostro ordinamento giuridico, pur riconoscendo la
possibilita' di costituire vincoli, li subordina alla temporaneita',
evitando cosi' situazioni di stallo e di perpetua compressione dei
diritti individuali.
Costituiscono esempi paradigmatici di tale principio:
a) le servitu' irregolari. Sebbene sia possibile costituire
servitu' a favore di persone (servitu' irregolari), il vincolo non
puo' essere perpetuo, ma deve essere temporaneo o legato alla durata
della vita del beneficiario;
b) i vincoli urbanistici. Anche in materia urbanistica, i
vincoli imposti su immobili, sebbene necessari per la pianificazione
del territorio, devono avere una durata limitata nel tempo e non
possono essere perpetui.
c) convenzioni e contratti:
Le clausole che prevedono vincoli perpetui in contratti o
convenzioni, come ad esempio accordi di cessione di immobili
connotati dall'impressione agli stessi di vincoli di destinazione,
sono considerate nulle. Anche in via interpretativa, sono frequenti i
riferimenti al principio in esame (Cfr. Corte appello Milano, n. 366,
del 1° febbraio 2012).
Come evidenziato dalla difesa dell'opponente, lo stesso ha
origini autorevoli e datate anche a livello interpretativo.
Chiamata a pronunciarsi sulla questione relativa all'onere
testamentario di consentire in perpetuo l'utilizzo di un immobile da
parte della locale parrocchia, la S.C.(20) (estensore Torrente)
stabili' che la disposizione controversa, «se configurata come
un'obbligazione personale a carattere perpetuo», doveva ritenersi
«nulla, anche se si parli di obbligazione reale (...), in quanto
disintegra in perpetuo il diritto di proprieta' dal suo contenuto
economico». Essa fu invece «salvata» mediante la qualificazione di
essa, non gia' come una obligatio propter rem, che non si sottrae, in
quanto rapporto obbligatorio vero e proprio, alla regola della
temporaneita', bensi', accogliendo la soluzione prospettata da
autorevole dottrine (F. Salvi, Perpetuita' di un diritto di
godimento? , in Riv. trim. dir. proc. civ. , 1949, 192 ss. in
particolare p. 201 ss.) come «attributiva di un diritto d'uso,
naturalmente limitato al tempo massimo stabilito dalla legge».
In materia d'inammissibilita' di un vincolo obbligatorio
perpetuo, e' ritornata la Corte di cassazione affermando: «Nel nostro
sistema positivo e' inammissibile un vincolo obbligatorio, destinato
a durare all'infinito, senza che sia possibile al debitore o ai suoi
successori la possibilita' di liberarsene» (Cass. Sez. II, 30 luglio
1984, n. 4530. Sulla stessa scia si e' posta sempre la giurisprudenza
di legittimita' allorche' piu' di recente (Cass., 20 settembre 1995,
n. 9975) ha affermato la nullita' dei contratti atipici istitutivi di
obbligazioni destinate a durare indefinitamente nel tempo, in quanto
non meritevoli di tutela ai sensi dell'ordinamento giuridico.
Peraltro, nel caso di specie, il sequestro giudiziario con
finalita' probatorie aveva esaurito il suo compito, in quanto nel
giudizio di merito si era gia' proceduto al conferimento
dell'incarico peritale sulla base della documentazione per come
rinvenuta e consegnata.
Detto principio e' stato di recente ribadito da Corte appello
Bari Sez. I, 7 luglio 2022, n. 1148 secondo cui: «Nel nostro
ordinamento, vige il principio della generale inammissibilita' delle
obbligazioni perpetue, il quale non consente ai soggetti la
possibilita' di vincolarsi ad vitam, giustificandosi, per converso,
la perpetuita' del diritto soltanto dove non si ponga un problema di
soggetti vincolati a tempo indeterminato, come nella fattispecie del
diritto di proprieta'».
In sintesi, l'inammissibilita' dei vincoli perpetui e' un
principio fondamentale del nostro ordinamento giuridico che mira a
garantire la liberta' e la flessibilita' nella gestione dei beni,
evitando restrizioni eccessive e dannose per il singolo e per la
societa' nel suo complesso.
E' evidente come lo stesso rinvenga il proprio fondamento
costituzionale nel principio di ragionevolezza, ma, al contempo, nei
principi di tutela della proprieta' e di liberta' dell'iniziativa
economica ex art. 41 Cost., comma 2, di cui la liberta' negoziale
costituisce logico corollario.
Nel caso dell'astreintes, a venire in rilievo sembrerebbe essere,
in particolare, tale primo profilo. Cio', specie per la gia'
evidenziata potenziale attitudine della stessa a incidere sulla sfera
dominicale del debitore inadempiente, nella prospettiva tanto di
un'esecuzione mobiliare, quanto di un'esecuzione immobiliare.
6.2. Ricostruzione dei principi alla luce della giurisprudenza
costituzionale
6.2.1. Il principio di ragionevolezza
Tornando ai principi di cui all'art. 3 Cost. cui sopra, sotto il
profilo del rispetto del primo di essi, proprio di recente,
autorevole dottrina ha affermato che «l'attuale controllo di
costituzionalita' e' totalmente pervaso dal metodo della
ragionevolezza: e' un controllo di ragionevolezza»(21).
D'altronde, a fronte dell'indubbio dinamismo interpretativo
indotto dal principio de quo, e' innegabile l'indispensabilita' di
tale categoria e la sua correlazione con quello di proporzionalita':
ragionevole e' qualunque opzione esegetica sia idonea a realizzare un
equo contemperamento degli interessi in gioco, imponendone un
sacrificio non sproporzionato. E, nel caso di specie, gli stessi
coincidono, da un lato, con l'esigenza del debitore di non subire
esecuzioni sproporzionate rispetto alla consistenza quantitativa
della pretesa creditoria azionata; dall'altro, con l'interesse del
creditore a conservare lo strumento processuale, astrattamente
preordinato alla sua attuazione coattiva(22).
In cio' e' evidente la stretta connessione tra ragionevolezza e
equita' cui, senza dubbio, nell'attuale assetto ordinamentale e
interpretativo, devono riconoscersi spazi operativi ben piu' ampi di
quelli consegnati dalla tradizione giuridica che vedeva l'equita'
confinata alle ipotesi in cui il legislatore avesse consentito
espressamente il ricorso ad essa (c.d. equita' secundum legem).
Ragionevolezza e equita' sono clausole generali che consentono
all'ordinamento - unitamente ai principi personalistico e
solidaristico ex art. 2 Cost. - di adattarsi alla molteplicita' e
novita' delle istanze di tutela, provenienti dal corpo sociale cosi'
come dal tessuto costituzionale, smussando il rigore del diritto
positivo e assicurandone la tenuta costituzionale. Oppure, piu'
semplicemente, possono risultare idonei ad assicurare un equilibrato
bilanciamento fra valori confliggenti, individuando, di volta in
volta, modalita' di composizione adeguate alla fattispecie di cui si
imponga la definizione giudiziale.
Invero, la ricerca di un contemperamento - equo e, dunque,
ragionevole - degli interessi in gioco, con conseguente
valorizzazione delle caratteristiche delle singole fattispecie
(astratte) poste all'attenzione del Giudice delle leggi, e' a
fondamento di molteplici recenti sentenze delle Corte adita.
Cosi', in Corte cost. n. 88 del 2023, in cui veniva in rilievo un
reato di lieve entita' commesso da un immigrato che avrebbe
comportato l'esclusione del rinnovo del permesso di soggiorno per
lavoro, la Corte ha valorizzato l'argomento fondato sulla non
opportunita' di sradicare lo straniero dal luogo in cui ha costruito
significativi rapporti sociali, lavorativi e familiari.
L'applicazione, secondo criteri di automaticita', della
previsione normativa, sindacata in punto di costituzionalita',
avrebbe originato un esito, oggettivamente, iniquo.
Da cio' la necessita' di considerare gli elementi, connotativi
della specifica situazione di fatto, tra i quali il tempo trascorso
dalla commissione del reato, il percorso rieducativo compiuto dal suo
autore, il suo radicamento nel tessuto sociale.
Ispirata a evidenti esigenze equitative e' anche la soluzione
fatta propria da Corte cost. n. 177 del 2023, in cui l'ill.ma Corte
adita e' pervenuta ad escludere che sia ammissibile la consegna in
esecuzione di un mandato di arresto europeo di una persona, quando
questa versi in gravi condizioni di salute. Seguendo una concorrente
traiettoria argomentativa e richiamando la giurisprudenza
sovranazionale, ha evidenziato come l'esecuzione suddetta
originerebbe in un trattamento disumano e degradante, come tale
vietato dall'art. 4 della Carta dei diritti dell'Unione.
Dello stesso tenore e' anche la n. 178 del 2023, secondo cui
l'art. 18-bis, comma I, lettera c), legge n. 69 del 2005 deve
considerarsi illegittimo «nella parte in cui non prevede che la corte
d'appello possa rifiutare la consegna di una persona ricercata
cittadina di uno Stato terzo, che legittimamente ed effettivamente
abbia residenza o dimora nel territorio italiano e sia
sufficientemente integrata in Italia, nei sensi precisati in
motivazione, sempre che la Corte d'appello disponga che la pena o la
misura di sicurezza sia eseguita in Italia».
E' richiamabile anche Corte cost. n. 86 del 2024, in materia di
rapina impropria, aggravata dalla pluralita' degli autori,
concernente beni di esiguo valore economico, ha giudicato
irragionevole il minimo edittale di «notevole asprezza» previsto per
la fattispecie de qua.
E cio' non perche' lo stesso sia considerato in se' e per se',
bensi' in relazione al frutto del reato suddetto.
Il Giudice delle leggi invoca il concetto di «valvola di
sicurezza», che sarebbe costituzionalmente imposta al fine di
consentire al giudice a quo, che se ne duole, di poter far luogo
all'applicazione di un trattamento punitivo congruo e, dunque, equo,
in rapporto alla specificita' del caso di specie. Cio', specie, in
virtu' dei principi di «individualizzazione» e, quindi, necessaria
personalizzazione della pena e della finalita' rieducativa di
quest'ultima.
Al giudice de quo deve essere consentito di poter riconoscere
giuridico rilievo a circostanze di fatto aventi natura oggettiva,
come le modalita' di commissione del reato, l'eta' e le condizioni
psico-fisiche della vittima, la reiterazione della condotta
criminosa, l'entita' del danno, e via dicendo.
Medesima ratio ispirativa parrebbe essere quella della Corte
cost. n. 91 del 2024, intervenuta in relazione alla produzione di
materiale pedopornografico, laddove parimenti la censura investiva la
mancata previsione dell'attenuante per i fatti criminosi di lieve
entita'.
Con la sentenza n. 122 del 2014, poi, la Corte ha dichiarato
l'illegittimita' costituzionale del disposto di cui all'art.
2-quinquies, comma 1, lettera a), decreto-legge n. 151 del 2008, che
negava i benefici ai superstiti delle vittime della criminalita'
organizzata, se parenti o affini entro il quarto grado di soggetti
nei cui riguardi sia in corso un procedimento per l'applicazione
ovvero sia applicata una misura di prevenzione, di cui alla legge n.
575 del 1965 e successive modifiche, ovvero di soggetti nei cui
confronti sia in corso un procedimento penale per uno dei delitti di
cui all'art. 51, comma 3-bis, c.p.p. La Corte ha dichiarato
l'irragionevolezza della norma de qua, che penalizza,
irragionevolmente, proprio le persone maggiormente meritevoli che,
pur legate da vincoli di parentela o affinita' a soggetti
appartenenti alla criminalita' organizzata, ne abbiano preso le
distanze.
Nondimeno, chi richieda elargizioni o assegni vitalizi, deve
fornire la prova della estraneita' all'organizzazione criminale,
cosi' come di tenere «una condotta di vita antitetica al codice di
comportamento delle organizzazioni malavitose».
Dunque, evocando, ancora una volta, la necessita' di un
accertamento case by case, il giudice e' chiamato ad «una penetrante
verifica» della sussistenza delle condizioni previste dalla legge e
dell'adempimento del «rigoroso onere probatorio imposto al
beneficiario».
Anche al di fuori della materia penale, peraltro, risultano
essere non poche le ipotesi nelle quali la Corte ha posto a
fondamento l'equita', come esigenza di un ragionevole contemperamento
degli interessi in gioco e, dunque, indirettamente, il principio di
ragionevolezza. A titolo esemplificativo, si v. la sent. n. 183 del
2023, in materia di regime applicabile ai minori dati in adozione e
ai loro rapporti con la famiglia di origine.
L'ill.ma Corte adita ha voluto distinguere fra legami, di natura
legale formale, con la famiglia suddetta, recisi per effetto
dell'adozione, e i legami affettivi che, invece, possono e devono
essere preservati ogniqualvolta cio' sia consigliato dal preminente
interesse del minore. Da cio', l'enucleazione del diritto secondo cui
l'identita' del minore non risulta «compatibile con modelli
rigidamente astratti e con presunzioni assolute, del tutto
insensibili alla complessita' delle situazioni personali».
6.2.2. Il principio di proporzionalita'
Cosi' non puo' sottacersi come, nel contesto decisorio del
giudice delle leggi, abbia assunto un'importanza primaria anche il
principio di proporzionalita'.
Concepito in origine nell'alveo del diritto amministrativo
prussiano, successivamente estesosi in altri ambiti del diritto
tedesco, ha fatto ingresso, da ultimo, nel giudizio di legittimita'
costituzionale in materia di diritti fondamentali, ponendosi quale
strumento fondamentale del giudizio di bilanciamento.
Per esigenze di economia espositiva, deve precisarsi che il
giudizio di proporzionalita', in sede di sindacato di legittimita',
si articola in quattro diversi momenti:
quello di «legittimita'», volto ad accertare che la norma
sindacata sia conforme all'impianto costituzionale;
il secondo traducentisi in una valutazione sub specie del
profilo dell'efficienza, ovvero della relazione (quantitativa e
qualitativa) tra mezzi-fini, cosi' da verificare che sia stata
garantita una «connessione razionale» tra i mezzi cui sia ricorso il
legislatore e gli obiettivi perseguiti;
l'accertamento della «necessita'» della scelta legislativa,
ovvero della sua imprescindibilita' e (eventualmente) non
differibilita';
la quarta fase e' quella della «proporzionalita' in senso
stretto» preordinato a verificare che l'obiettivo avuto di mira sia
stato perseguito, recando il minor sacrificio possibile di altri
diritti o interessi costituzionalmente protetti;
Come acutamente sottolineato, tal ultima momento e' quello piu'
complesso, esigendo che «il giudice spalanchi lo sguardo delle sue
valutazioni, fino a proiettarsi sull'impatto effettivo della
legislazione sottoposta al suo esame: cio' richiede una conoscenza
del dato di esperienza reale che la legge disciplina, che supera di
gran lunga il dato giuridico positivo, strettamente inteso». E' «in
questa dimensione esperienziale» che il giudice e' chiamato a cio' in
cui si sostanzia ogni operazione esegetica ovvero una valutazione
comparativa degli interessi in gioco, spesso, di segno contrastante
e, dunque, conflittuali.
Questa nozione di proporzionalita' di origine tedesca, in cui e'
evidente la genesi del pensiero di Robert Alexy, risulta di
particolare diffusione sulla scena internazionale.
Orbene, il principio di proporzionalita' e' spesso evocato dal
Giudice delle leggi, insieme al principio di ragionevolezza o,
qualche volta, quale concetto sovrapponibile a questo secondo; non
essendo infrequente l'affermazione per cui il principio di
proporzionalita' «rappresenta una diretta espressione del generale
canone di ragionevolezza»11 .
Come acutamente evidenziato dalla dottrina costituzionalista,
accade spesso che la Corte «effettui una valutazione di congruenza e
adeguatezza del mezzo rispetto al fine12 ; cosi' come da tempo e'
entrato nei giudizi della Corte costituzionale il bilanciamento dei
valori, che molto si avvicina alla fase della "proporzionalita' in
senso stretto", specie nei casi che riguardano i diritti
fondamentali13 ».
Una delle ipotesi che appare maggiormente idonea a richiamare
quella complessita' diacronica che il test di proporzionalita' assume
al di fuori del contesto italiano, e' rappresentata dalla sentenza in
materia mandato di arresto europeo, in cui il Giudice delle leggi
Corte ha affermato che: «Il divieto di discriminazione sulla base
della nazionalita' consente si' di differenziare la situazione del
cittadino di uno Stato membro dell'Unione rispetto a quella del
cittadino di un altro Stato membro, ma la differenza di trattamento
deve avere una giustificazione legittima e ragionevole, sottoposta ad
un rigoroso test di proporzionalita' rispetto all'obiettivo
perseguito [...]»14 .
Il principio di proporzionalita', al pari di quello di
ragionevolezza ed equita', costituiscono oramai ratio decidendi del
giudice ordinario di merito e di legittimita', conformandone
costantemente l'attivita' esegetica. Cio', ovviamente,
nell'amministrazione di quegli spazi di discrezionalita' che gli sono
lasciati dal dettato normativo.
Cosi' costituisce parametro frequente ai fini del vaglio di
costituzionalita' delle leggi ordinarie, rimesse all'attenzione del
Giudice delle leggi.
6.2.3. La peculiarita' della disciplina del caso di specie
Orbene, venendo al caso di specie, con riguardo alla
ragionevolezza della disciplina de qua, la dottrina ha stigmatizzato
la mancata regolamentazione di un momento processuale,
specificatamente, deputato alla liquidazione della penalita'.
In cio', non esiste contiguita' con il modello francese che,
invece, si fonda sul riconoscimento della facolta' per le parti di
rivolgersi al giudice dell'esecuzione.
Ne consegue che la sua liquidazione, seppur indirettamente, e'
stata, irragionevolmente, affidata allo stesso creditore su cui
incombe l'onere di specificare l'importo maturato nell'atto di
precetto, con conseguente alimentazione del contenzioso in sede di
opposizione all'esecuzione.
Invero, in via interpretativa, vi e' anche chi ritiene di
sovvenire a tale carenza dell'apparato rimediale, prefigurato dal
legislatore, riconoscendo al creditore la facolta' e, al contempo,
l'onere di adire il giudice del c.d. giudizio presupposto per
conseguire una liquidazione ex post dell'ammontare dovuto, con
conseguente aggravamento dell'iter procedurale necessario per
conseguire l'agognata tutela.
Cio', nel (discutibile) presupposto teorico che difetti quel
requisito di necessaria liquidita', prescritto ai fini della
validita' di ogni titolo provvisto di efficacia esecutiva; efficacia
che, pero' - come evidenziato da autorevole dottrina -, l'art.
614-bis del codice di procedura civile riconosce, espressamente, alla
misura de qua fin dal suo momento genetico.
Per contro, al giudice dell'esecuzione non e' stato riconosciuto
un ruolo «piu' consono alla sua natura, ovvero quello di liquidare
l'importo della somma dovuta quando l'inottemperanza al provvedimento
di condanna si e' gia' manifestato, si' da tarare la penalita' alla
luce del concreto evolversi dei rapporti».
Dunque, attualmente, l'art. 614-bis del codice di procedura
civile non prefigura una fase liquidatoria del provvedimento emesso
dal giudice della cognizione insieme alla condanna.
Evidenzia, invece, la difesa dell'opponente come «il giudizio
d'efficacia dell'astreinte deve essere un giudizio razionale da parte
del giudice, dovendo verificare se sussiste in concreto un nesso tra
l'impiego della misura e il raggiungimento del fine,
contestualizzando nella realta' patrimoniale del debitore, che
ovviamente muta caso per caso, la misura coercitiva da adottarsi,
verificando il nesso fra mezzo e scopo, rendendola cosi' un mero
giudizio di efficacia». Nondimeno, non consentendo la norma
l'apposizione di un limite temporale o quantitativo massimo, la
misura risulta «applicabile sine die», dando luogo ad «una
obbligazione a carattere sanzionatorio sproporzionata rispetto
all'originaria obbligazione inadempiuta».
Inoltre, se e' vero che le Sezioni Unite della Corte di
cassazione (Cassazione civile sez. un. , 5 luglio 2017, n. 16601(23)
hanno riconosciuto la polifunzionalita' della responsabilita' civile,
alla quale sono interne anche finalita' sanzionatorie e deterrenti;
nondimeno, la pronuncia ha indicato, quali condizioni di
delibabilita' delle pronunce di condanna ai punitive damages, oltre
alla necessita' che esse siano emesse «sulla scorta di basi normative
adeguate, che rispondano ai principi di tipicita' e prevedibilita'»
(Cass. Sez. Un. civ., 5 luglio 2017, n. 16601) anche il rispetto del
principio di proporzionalita' (espresso dall'art. 49 della Carta dei
diritti fondamentali dell'Unione europea). Ora, se nella
ricostruzione della Corte la proporzionalita' e' riferita al rapporto
«tra risarcimento riparatorio-compensativo e risarcimento punitivo e
tra quest'ultimo e la condotta censurata» (Sez. Un. civ., 5 luglio
2017, n. 16601), il principio in esame sembra piu' in generale
esprimere l'esigenza che non si attribuisca al danneggiato «un
rimedio risarcitorio che non gli compete perche' del tutto privo di
connessioni significative con la sua sfera giuridica sia sostanziale
che processuale».
6.2.4. I profili evidenziati dalla difesa dell'opponente,
rappresentata dal prof. V. Farina
Secondo la difesa dell'opponente, alla luce delle considerazioni,
che precedono, e avuto riguardo all'attuale stato della normativa che
riconosce al G.E. solo la possibilita', ove non sia «stata richiesta
nel processo di cognizione, ovvero il titolo esecutivo» sia «diverso
da un provvedimento di condanna» «la somma di denaro dovuta
dall'obbligato per ogni violazione o inosservanza o ritardo
nell'esecuzione del provvedimento» sia «determinata dal giudice
dell'esecuzione, su ricorso dell'avente diritto, dopo la
notificazione del precetto», sembrerebbe ricorrere la violazione sia
del principio di proporzionalita' che di ragionevolezza. Come,
condivisibilmente, evidenziato dalla difesa dell'opponente, «la
proporzionalita' evoca, sul versante dello scrutinio di
costituzionalita', una correlazione del mezzo rispetto al fine, nel
senso che, tra strumento normativo regolatore, e realizzazione del
fine che con esso si intende perseguire, l'opera di "bilanciamento"
deve condurre ad un "equilibrato" componimento dei sacrifici».
La Corte «ha affermato che l'automatismo della sanzione,
ricorrente nel caso di specie nella sua staticita' e perduranza,
"offende quel principio di proporzione che e' alla base della
razionalita' che domina il principio di eguaglianza e che postula
l'adeguatezza della sanzione al caso concreto (sentenza n. 297/1993
(Granata)».
Dunque, evidenzia parte opponente, come «il principio di
proporzionalita' sembr(i) idoneo, di concerto con il canone di
ragionevolezza ricavabile dall'art. 3 Cost., a limitare la facolta'
del legislatore ordinario di prevedere spostamenti patrimoniali
ingiustificati o, comunque, sproporzionati».
Sotto questo aspetto, un risarcimento punitivo o una sanzione - a
seconda della ricostruzione che se ne voglia accogliere - che si
protraggano «sine die per come confezionat(i) dal legislatore,
(paiono) non rispettos(i) di tali parametri e, quindi, non alien(i)
ad una censura di incostituzionalita'».
D'altronde, adottando una prospettiva risarcitoria, «la Consulta
... ha a piu' riprese dichiarato l'incostituzionalita' di norme che,
ponendo un massimale alla responsabilita' di determinati soggetti,
ammettevano la possibilita' di un ristoro inferiore al danno e dunque
sottocompensativo. Ad opinione della Corte, infatti, tale limitazione
non assicurava ne' l'equo contemperamento degli interessi in gioco
ne' il razionale perseguimento degli obiettivi pur insindacabilmente
prefissati dal legislatore, ponendosi cosi' in contrasto con il
principio di ragionevolezza ricavabile dall'art. 3 Cost. (Corte
cost., 6 maggio 1985, n. 132, in Foro it., 1985, I, 1585; Corte
cost., 22 novembre 1991, n. 420, ivi, 1992, I, 642)».
Di recente, in tal senso, e' richiamabile Corte costituzionale,
che con la sentenza n. 118/2025, ha dichiarato incostituzionale il
limite massimo di sei mensilita' previsto dal decreto legislativo n.
23 del 2015 per i lavoratori dipendenti delle piccole imprese, c.d.
sotto soglia, ossia quelle che occupano fino a 15 dipendenti per ogni
sede o unita' produttiva o Comune, e comunque non piu' di 60
dipendenti in totale.
Secondo la Corte, tale limite fisso e invalicabile di sei
mensilita' di retribuzione che il datore di lavoro e' tenuto a
corrispondere al dipendente ove il licenziamento sia riconosciuto
illegittimo e' incostituzionale perche':
preclude al giudice di commisurare il rimedio risarcitorio
alla gravita' del caso concreto;
ha l'effetto di rendere l'indennita' risarcitoria inadeguata
e non congrua in rapporto al danno che il lavoratore potrebbe aver
realmente subito;
dato l'importo basso, neutralizza la funzione deterrente
della sanzione nei confronti del datore di lavoro.
Sottolinea, sempre, l'opponente come, «almeno in linea teorica,
quindi, ben potrebbe la Corte estendere il proprio vaglio anche alle
norme che, specularmente, prevedono dei risarcimenti
ultracompensativi. I parametri applicabili in punto di
proporzionalita' (e ragionevolezza), infatti, sono esattamente i
medesimi».
Inoltre, sotto il profilo del rispetto del principio di
proporzionalita', «il ricorso a risarcimenti ultracompensativi per il
perseguimento di finalita' regolatorie generali determina il
riconoscimento, a beneficio del danneggiato, di un rimedio totalmente
privo di relazione con le modalita' con cui la sua sfera giuridica e'
stata intaccata».
Tale evenienza si e' concretizzata nel caso di specie, «ove il
danneggiato della mancata estensione della prova rischia di
conseguire con l'astreinte, di piu' di quello che potra'
(eventualmente) conseguire ove la domanda risarcitoria venisse
accolta».
Cio', «non sembra ammissibile nel nostro ordinamento, nel quale
la responsabilita' civile, anche alla luce dei principi
costituzionali, appare improntata, piu' che al perseguimento
dell'efficienza di sistema, alla tutela dei diritti secondo logiche
di giustizia». Sottolinea ancora la difesa dell'opponente, come «i
risarcimenti sanzionatori siffatti assegnano ai danneggiati che
agiscono in giudizio un premio per essersi fatti carico di una
esigenza sociale di dissuasione, delegando una funzione pubblica a un
soggetto privato, che diviene una sorta di cacciatore di taglie, come
puntualmente rilevato dalla dottrina.
Tale aspetto «non e' sfuggito alla Corte di cassazione della
Francia (luogo di nascita dell'istituto). Una recente pronuncia
[Cass. 2° civ., 20 janv. 2022, n. 19- 23721 in
https://www.legifrance.gouv.fr/juri/id.] ha invocato sul punto
l'applicazione in materia della CEDU e del suo protocollo n. 1, in
quanto l'astreinte impone, nella fase della sua liquidazione, una
condanna pecuniaria al debitore dell'obbligazione, che e' dunque
suscettibile di incidere su un interesse sostanziale di quest'ultimo,
nonostante non esista alcuna normativa che pregiudichi il diritto
degli Stati di emanare le leggi che ritengano necessarie per
assicurare il pagamento di imposte, contributi o sanzioni. Pertanto,
il Giudice di legittimita' Francese, con la pronuncia del 2022, ha
affermato che, se e' pur vero che l'astreinte non costituisce di per
se' una misura contraria ai requisiti del protocollo n. 1 della CEDU
in quanto prevista dalla legge e tende, nell'obiettivo di una buona
amministrazione della giustizia, a garantire l'effettiva esecuzione
delle decisioni giudiziarie entro un tempo ragionevole, si impone al
giudice chiamato a liquidare la misura, in caso di inadempimento
totale o parziale dell'obbligazione, di tenere conto delle
difficolta' incontrate dal debitore nell'adempimento e della sua
volonta' di rispettare l'ingiunzione. In definitiva, il giudice che
decide sulla liquidazione di un'astreinte deve valutare la
proporzionalita' della violazione dei diritti patrimoniali del
debitore alla luce dello scopo legittimo che il creditore persegue».
Tornando al vaglio alla stregua del principio di ragionevolezza,
evidenzia ancora la difesa dell'opponente, come «nota e' la
riconduzione del principio di ragionevolezza nell'ambito di quello di
eguaglianza sostanziale di cui all'art. 3 della Costituzione. Ha
affermato La Corte costituzionale (sentenza n. 89 del 1996 ): "Il
giudizio di eguaglianza, ......, e' in se' un giudizio di
ragionevolezza, vale a dire un apprezzamento di conformita' tra la
regola introdotta e la "causa" normativa che la deve assistere: ove
la disciplina positiva si discosti dalla funzione che la stessa e'
chiamata a svolgere nel sistema e ometta, quindi, di operare il
doveroso bilanciamento dei valori che in concreto risultano
coinvolti, sara' la stessa "ragione" della norma a venir meno,
introducendo una selezione di regime giuridico priva di causa
giustificativa e, dunque, fondata su scelte arbitrarie che
ineluttabilmente perturbano il canone dell'eguaglianza>>enti, che
possono avere indotto il legislatore a formulare una specifica
opzione: se dall'analisi di tale motivazione scaturira' la verifica
di una carenza di "causa" o "ragione" della disciplina introdotta,
allora e soltanto allora potra' dirsi realizzato un vizio di
legittimita' costituzionale della norma, proprio perche' fondato
sulla "irragionevole" e per cio' stesso arbitraria scelta di
introdurre un regime che necessariamente finisce per omologare fra
loro situazioni diverse o, al contrario, per differenziare il
trattamento di situazioni analoghe».
Il sindacato de quo sembra riflettersi anche sul piano funzionale
della norma, chiamando l'interprete ad una operazione di «ermeneusi
teleologica» non facile, soprattutto in presenza di prassi
legislative nelle quali abbondano «norme intruse», norme
sintatticamente ambigue, norme pletoriche o, addirittura, norme
contraddittorie. Cio' premesso, «l'attribuzione patrimoniale,
infatti, appare giustificata quando la sanzione e' funzionale a
garantire l'interesse del soggetto a cui spetta il provento della
stessa. E l'esistenza di questo rapporto tra interesse e rimedio che
assicura la proporzionalita' (e, dunque, la ragionevolezza) di
quest'ultimo, non diversamente da quanto accade in tema di penale
(cfr. art. 1384 del codice civile)».
Cio' premesso, a giudizio di questo remittente, non e'
manifestamente infondata la questione di incostituzionalita' della
norma, sotto il profilo del rispetto dei principi di ragionevolezza
Cost. e di proporzionalita' ex art. 3 Cost., specie, se si consideri
che il debitore si puo' trovare esposto in sede esecutiva ad un
sacrificio, di gran lunga superiore rispetto al danno cagionato, con
effetti sostanzialmente espropriativi della propria sfera giuridica.
Dunque, l'assenza di un limite massimo all'astreinte (e
l'impossibilita' di chiedere la fissazione dello stesso al Giudice
dell'esecuzione) possono comportare a un'eccessiva penalizzazione del
debitore, soprattutto se l'obbligo non viene adempiuto in tempi
ragionevoli. E l'irragionevolezza della norma deriva, peraltro, anche
dall'impossibilita', o, meglio, dall'oggettiva e rilevante
difficolta', per il debitore inadempiente di richiedere una
predeterminazione del massimo della misura, concretamente esigibile,
al giudice della cognizione che, peraltro, non puo' valutare ex ante
un eventuale profilo di esorbitanza che puo' manifestarsi e
apprezzarsi solo in sede esecutiva.
Dunque, imporre al destinatario della misura di richiedere che la
stessa sia tarata nei massimi fin da subito appare sproporzionato
rispetto ai suoi doveri di diligenza processuale.
7. Non manifesta infondatezza della questione di legittimita'
costituzionale per violazione dell'art. 42, comma 4, Cost., nonche'
dell'articolo 117 Cost., come integrato, quale norma interposta,
dell'art. 1 del Protocollo 1 della Convenzione europea dei diritti
dell'uomo (CEDU)
Il diritto di proprieta', sancito, come noto, dall'articolo 42
della Costituzione - quale valore di rango anche sovranazionale -
implica la conservazione della possibilita' per il proprietario di
disporre liberamente del bene, godendone e alienandolo. Vincoli di
carattere perpetuo tendono a limitare eccessivamente questa liberta',
svuotando il diritto del suo contenuto effettivo e venendosi a
configurare, in alcuni casi, come una sorta di «espropriazione senza
indennizzo». Una tale tipologia di vincolo parrebbe porsi in
contrasto anche con la tutela che l'ordinamento, a vari livelli,
riconosce al diritto dominicale. E' evidente, infatti, come una
penale eccessiva vada potenzialmente ad incidere anche sulla sfera
patrimoniale dell'obbligato, venendo lo stesso esposto al pericolo di
un'esecuzione mobiliare o immobiliare.
Vulnus che, data la natura polistrutturata della tutela del
dominium, nel contesto di un ordinamento multilivello, quale il
nostro, viene a tangere una pluralita' di disposizioni.
In particolare, l'art. 1 Protocollo 1 della Convenzione europea
prevede che:
«1. Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto
dei suoi beni. Nessuno puo' essere privato della sua proprieta' se
non per causa di pubblica utilita' e nelle condizioni previste dalla
legge e dai principi generali del diritto internazionale.
2. Le disposizioni precedenti non portano pregiudizio al
diritto degli Stati di porre in vigore le leggi da essi ritenute
necessarie per disciplinare l'uso dei beni in modo conforme
all'interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o
di altri contributi o delle ammende.»
La prima previsione ha portata generale e prescrive la tutela dei
beni della persona, la seconda si riferisce alle condizioni che
possono legittimare la privazione della liberta' e la terza, invece,
concerne il riconoscimento allo Stato il potere di normare le
facolta' di godimento dei beni, conformando lo stesso secondo
l'interesse generale.
In particolare, la terza ipotesi contempla provvedimenti meno
incisivi di quello privativo della proprieta' e ad assicurare il
pagamento di tasse ed imposte.
Invero, la Convenzione adotta un concetto di «bene» peculiare e
proprio solo del sistema convenzionale, funzionale all'applicazione
della procedura, concetto autonomo dalla legislazione nazionale.
La nozione convenzionale, infatti, comprende sia i «beni
esistenti» sia i diritti patrimoniali, categoria che include anche i
crediti in relazione ai quali il ricorrente puo' sostenere di avere
una situazione giuridica qualificabile come «aspettativa legittima»
(e, quindi, sia i diritti «in rem» che quelli «in personam»), nonche'
beni immobili e mobili (si pensi alla proprieta' intellettuale, alle
licenze commerciali, alle clientele professionali ecc.).
Cio' posto, la circostanza che la legislazione di un singolo
Stato non riconosca che un particolare interesse sia un «diritto
patrimoniale» non preclude una diversa e opposta qualificazione alla
stregua dell'articolo 1 del Protocollo n. 1.
Orbene, al fine di superare il vaglio di compatibilita'
convenzionale - l'ingerenza dello Stato deve soddisfare alcuni
requisiti: e' necessaria la presenza di una base legale che abbia
giustificato l'interferenza stessa; tale base legale - se esistente -
deve avere uno scopo legittimo; in ultimo, qualora venisse accertato
anche lo scopo legittimo della norma giustificatrice, si valutera' se
l'autorita' nazionale competente lo abbia perseguito in maniera
necessaria e proporzionale.
In sintesi, dunque, il giudice deve verificare se, nel caso
concreto, siano stati osservati i principii di legalita', necessita'
e di proporzionalita', gia' menzionati.
Oltre ai suddetti requisiti summenzionati, ogni limitazione,
apposta al diritto di proprieta' - in qualunque forma si attui che se
di perdita, restrizione o altre interferenze - deve essere
giustificata dall'interesse pubblico o dall'interesse generale.
Le due espressioni sono contemplate dal primo e secondo comma
dell'art. 1 Protocollo n. 1 e sono equipollenti sotto il profilo
semantico.
Invero, la Convenzione non definisce i due concetti, perche' la
Corte riconosce in proposito agli stati un margine di apprezzamento.
In base al sistema di protezione stabilito dalla Convenzione,
difatti, spetta alle autorita' nazionali compiere l'iniziale
valutazione dell'esistenza di un problema di interesse pubblico che
giustifichi misure di privazione della proprieta' o di ingerenza nel
pacifico godimento di «beni».
In particolare, nel caso della protezione della proprieta', tale
margine e' legato alla considerazione di interessi politici, sociali,
economici o di altro genere (si pensi alla protezione dell'ambiente,
all'equilibrio del bilancio generale dello stato, alla fissazione
delle priorita' nell'impegno delle risorse pubbliche disponibili).
Cio' posto, si comprende come detta discrezionalita' statale
diventa ampia quando si tratta di interventi di grande portata
legislativa, quali quelli per la realizzazione di politiche sociali o
per la regolamentazione delle conseguenze dovute al cambiamento di un
regime politico o, ancora, nell'adozione di misure finalizzate a
tutelare le risorse finanziarie pubbliche o di una differente
assegnazione di fondi o nel contesto di misure di austerita'
sollecitate da un'importante crisi economica.
Si badi bene, tuttavia, che cio' non vuol dire che tutto quello
che viene ricondotto - nei vari periodi storici - dalle autorita'
nazionali nel concetto di «pubblica utilita'» non sia in alcun modo
sindacabile e, quindi, valutabile convenzionalmente solo perche'
rientrante nel margine di apprezzamento statale riconosciuto dalla
Convenzione. Anche in tali casi, difatti, sussiste il limite
rappresentato dalla manifesta irragionevolezza dell'intervento dello
Stato(24).
Cio' premesso, la mancata previsione dell'apponibilita', anche
d'ufficio, di un tetto massimo, appare in contrasto oltre che con
l'art. 42, comma 4, Cost., in materia di diritto di proprieta',
nonche' con l'articolo 117 Cost., come integrato, quale norma
interposta, dall'art. 1 del Protocollo 1della Convenzione Europea dei
Diritti dell'Uomo (CEDU), nonche' dell'articolo 6 che garantisce il
diritto a un processo equo.
Per principio interpretativo consolidato, le sanzioni
sproporzionate possono configurare una violazione della Convenzione
europea dei diritti dell'uomo (CEDU), in particolare, dell'articolo 1
del Protocollo 1, che tutela il diritto di proprieta'.
La Corte europea dei diritti dell'uomo (Corte EDU) valuta la
proporzionalita' delle sanzioni, considerando la gravita' della
violazione, le conseguenze per l'individuo e la finalita' della
sanzione.
Sotto il profilo della violazione dell'articolo 1 del Protocollo
1 CEDU, rubricato come Protezione della proprieta', le sanzioni di
natura pecuniaria, in particolare, possono interferire sul diritto di
proprieta', ogniqualvolta impediscano, illegittimamente perche'
sproporzionate, l'utilizzo della proprieta' per le sue finalita'
tipiche oppure la sanzione sia cosi' elevata da compromettere il
patrimonio del sanzionato.
8. Non manifesta infondatezza della questione di legittimita'
costituzionale per violazione del principio di effettivita' della
tutela giurisdizionale ex articoli 24, 111 Cost. e 47 CDFUE, nonche'
dell'117 Cost., come integrato, quali norme interposte, dagli
articoli 6 e 13 Cedu
La disciplina nazionale, nella misura in cui non consentirebbe di
liberarsi da un vincolo proiettato indirettamente nel tempo,
sembrerebbe porsi in contrasto anche con il principio di effettivita'
della tutela giurisdizionale che ha fondamento normativo
costituzionale ex articoli 24, 111 Cost., nonche' comunitario e
convenzionale ex articoli 6, 13 Cedu e 47 CDFUE.
Il tradizionale diritto di azione, quale situazione giuridica cui
riconoscere diretta e immediata precettivita' - e non piu' da
ricostruirsi in chiave meramente programmatica - implica non solo la
garanzia dell'accesso alla tutela giurisdizionale, ma che siano
apprestate idonee forme di garanzia processuale.
Tale diritto si e' dotato di altre basi giuridiche in conseguenza
dell'evoluzione ordinamentale e dello stratificarsi di altri livelli
di tutela a livello sovranazionale che ne hanno, al contempo,
arricchito la portata contenutistica e le potenzialita' operative.
Alcune di esse, come noto, non rilevano, direttamente, nel nostro
ordinamento, quali parametri di commisurazione della validita' delle
norme interne, svolgendo, pero', il ruolo di norme interposte ai fini
del vaglio di costituzionalita'; altre godono, invece, di tale
peculiare condizione giuridica, riassumibile nel concetto di diretta
applicabilita' e di primazia rispetto al diritto nazionale.
Al novero delle prime sono riconducibili le norme della Cedu, che
anche dopo l'approvazione del Trattato di Lisbona, che ha
comunitarizzato la Carta di Nizza, sono improduttive di effetti
diretti nei singoli sistemi nazionali, rilevando, comunque,
indirettamente, quale contenuto precettivo idoneo a sostanziare i
c.d. principi generali del diritto comunitario.
Alle seconde sono, invece, ascrivibili le norme dettate dalla
Cdfue.
In particolare, sotto il primo versante, e' richiamabile l'art.
13 della CEDU sancisce il diritto ad un ricorso effettivo a favore di
ogni persona i cui diritti e liberta' fondamentali siano stati
violati.
Di recente, lo stesso, a livello di legislazione ordinaria, e'
stato codificato dall'art. 1 c.p.a., secondo cui lo stesso «deve
assicurare una tutela piena ed effettiva secondo i principi della
Costituzione e del diritto europeo».
Il principio de quo assume un rilievo primario nel sistema
processuale sia nazionale sia sovranazionale, rappresentando non solo
un vincolo destinato a orientare e, a volte, anche a conformare le
scelte del legislatore, nel modulare gli strumenti di tutela a
presidio della sfera giuridica dei singoli, ma anche uno dei
parametri cui deve attenersi il Giudice, nella ricostruzione della
portata precettiva delle norme, al fine di consentire la massimazione
del risultato di tutela, conseguibile da chi lo abbia investito di
una determinata controversia.
Nel caso di specie, e', altresi', configurabile la violazione
dell'articolo 6 Cedu che garantisce il diritto a un processo equo, da
intendersi quale meccanismo processuale idoneo a consentire al
ricorrente o all'attore il conseguimento dell'anelata tutela, se ne
ricorrano i presupposti; cosi' come al convenuto di difendersi
adeguatamente.
Invero, il principio del giusto processo ha conosciuto,
inizialmente, a livello interpretativo, una declinazione in termini
di mera adeguatezza delle regole processuali in termini di parita'
delle armi e di ragionevole durata, cosi' come di terzieta' e
imparzialita' del giudice, investito della controversia.
Si e' affermato, condivisibilmente, che «il suo potenziamento
pertanto, all'interno del processo unionale, richiede da un lato la
garanzia di un accesso ragionevolmente agevole alla tutela
giurisdizionale, da realizzarsi attraverso la previsione di titoli di
giurisdizione uniformi e dall'altro, la garanzia di un'efficacia non
meramente domestica dell'accertamento compiuto dal giudice, cioe' la
possibilita' di far valere ovunque in Europa le posizioni giuridiche
oggetto di tale accertamento».
Solo, successivamente, anche grazie alla virtuosa sinergia -
sotto il profilo interno allo stesso sistema Cedu, con l'art. 13 e
sotto quello esterno con le pronunce della Cge - il principio ha
iniziato ad abbracciare l'idea della stessa idoneita' della singola
vicenda processuale a consentire l'effettiva soddisfazione del bene
della vita anelito.
Costituisce, seppur indirettamente, indizio sintomatico di tale
modifica del profilo funzionale della norma, la stessa formulazione
dell'art. 111 Cost. introdotto dalla legge costituzionale n. 1 del
1999 proprio per dare attuazione, a livello costituzionale, al
principio convenzionale del giusto processo.
Dispone, infatti, l'art. 111 che «la giurisdizione si attua
mediante il giusto processo regolato dalla legge. Ogni processo si
svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parita',
davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la
ragionevole durata».
D'altronde, lo stesso art. 6 Cedu ha, fin dall'inizio, adottato
una formulazione ispirata ad una concezione, prettamente formale, del
giusto processo cui era estranea la (diversa) prospettiva finalistica
e sostanziale.
Come gia' evidenziato proprio il dialogo con la Corte di
giustizia ha consentito l'assunzione di una diversa prospettiva di
tutela che esulasse dal dato meramente formale processuale.
A tal riguardo, giova richiamare la sentenza CEDU del 6 marzo
2025, secondo cui «in materia di diritto a un processo equo. Viola
l'art. 6, comma 1, CEDU, sotto il profilo del diritto di adire un
tribunale, la mancata esecuzione - entro un tempo ragionevole - di
sentenze di varie autorita' giurisdizionali interne emanate in favore
del ricorrente.».
Orbene, il principio di effettivita', con riferimento alla CEDU
(Convenzione europea dei diritti dell'uomo), implica che le norme e i
mezzi di ricorso nazionali non devono rendere impossibile o
eccessivamente difficile l'esercizio dei diritti sanciti dalla
Convenzione, inclusi quelli relativi a un equo processo.
Dalla disamina della giurisprudenza della CEDU emerge,
incontestabilmente, che il diritto a un equo processo non puo'
considerarsi osservato in presenza di una disciplina fatta solo di
garanzie formali, ma richiede anche che tali garanzie siano
effettivamente utilizzabili e che i rimedi offerti siano in grado di
riparare le violazioni che abbiano a consumarsi.
Cio' premesso, e' evidente come non sia equa, ne' ragionevole,
una disciplina processuale che non consenta al G.e. di apporre un
limite massimo all'astreinte irrogata in sede di cognizione.
Sotto il profilo delle norme sovranazionali dotate del crisma
della diretta applicabilita' e della primaute', il principio di
effettivita' rinviene il proprio fondamento espresso nell'art. 47
della Carta dei diritti fondamentali dell'UE, secondo cui «ogni
persona i cui diritti e le cui liberta' garantiti dal diritto
dell'Unione siano stati violati ha diritto a un ricorso effettivo
dinanzi a un giudice, nel rispetto delle condizioni previste nel
presente articolo».
Come, condivisibilmente, evidenziato, «dal punto di vista
oggettivo, tale norma e' funzionale a garantire il raggiungimento
degli scopi perseguiti dall'Unione europea nel singolo settore di
intervento ed e' sancito nell'art. 19, paragrafo 1, secondo comma,
TUE, dove si prevede: "gli Stati membri stabiliscono i rimedi
giurisdizionali necessari per assicurare una tutela giurisdizionale
effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell'Unione"».
Sotto il distinto piano soggettivo, «il principio di effettivita'
rafforza i diritti riconosciuti dalle direttive ai singoli cittadini
dell'Unione sul piano sostanziale, ma ha anche una dimensione
processuale, oggi ancor piu' accentuata, a seguito dell'approvazione
della Carta di Nizza e della sua equiparazione ai trattati. L'art. 47
della Carta ha fatto assurgere il diritto a una tutela
giurisdizionale effettiva al rango di diritto fondamentale».
__________
(1) In tale ipotesi, pur essendo precluso l'intervento del giudice
dell'esecuzione, l'omessa pronuncia sara' censurabile in sede di
gravame, ove il grado di giudizio sia definito, oppure nello stesso
giudizio, per il tramite degli strumenti a cio' previsti. Sara'
possibile conseguire la misura dal giudice del reclamo di cui agli
articoli 183-ter, 3° comma, oppure, in relazione alle ordinanze
pronunciate a norma degli articoli 186-bis, ter e quater, del codice
di procedura civile, dallo stesso giudice che si sia incorso nella
predetta omissione.
(2) L'ampia formulazione della norma, unitamente alla necessita' di
un'esegesi improntata al principio di effettivita' della tutela,
inducono a ritenere che la misura sia richiedibile anche in sede di
attuazione di un provvedimento cautelare, rimasto inadempiuto. Ne'
costituisce circostanza ostativa il fatto che il giudice
dell'attuazione venga a coincidere con quello che ha emesso il
provvedimento di natura cautelare. D'altronde, «la necessita'
costituzionale della ragionevole durata del processo impone (per i
procedimenti cautelari) interpretazioni in grado di evitare il
ricorso al processo a cognizione piena al solo scopo di ritardare il
momento della realizzazione dell'obbligo da parte dell'avente
diritto».
(3) E' evidente, come correttamente sottolineato in via
interpretativa, come il giudizio di cognizione nel quale e'
richiedibile la misura coercitiva indiretta e' anche quello arbitrale
di cui agli articoli 816 ss. del codice di procedura civile, in
materia di arbitrato rituale. D'altronde, non si tratta che di un
corollario logico della natura giurisdizionale di tale procedimento.
(4) Secondo la predetta sentenza: «Nel vigente ordinamento, alla
responsabilita' civile non e' assegnato solo il compito di restaurare
la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione, poiche'
sono interne al sistema la funzione di deterrenza e quella
sanzionatoria del responsabile civile». Dunque, non «e'
ontologicamente incompatibile con l'ordinamento italiano l'istituto
di origine statunitense dei risarcimenti punitivi. Il riconoscimento
di una sentenza straniera che contenga una pronuncia di tal genere
deve pero' corrispondere alla condizione che essa sia stata resa
nell'ordinamento straniero su basi normative che garantiscano la
tipicita' delle ipotesi di condanna, la prevedibilita' della stessa
ed i limiti quantitativi, dovendosi avere riguardo, in sede di
delibazione, unicamente agli effetti dell'atto straniero e alla loro
compatibilita' con l'ordine pubblico». In relazione alle ipotesi
tipiche di danno punitivo, giovi la seguente esemplificazione, come
evocata dalle Sezioni Unite del 2017: in tema di brevetto e marchio,
il regio decreto 29 giugno 1127, n. 1939, art. 86, e regio decreto 21
giugno 1942, n. 929, art. 66, abrogati dal decreto legislativo 10
febbraio 2005, n. 30, che ha dettato a tal fine le misure dell'art.
124, comma 2, e art. 131, comma 2; il decreto legislativo 6 settembre
2005, n. 206, art. 140, comma 7, c.d. codice del consumo, dove si
tiene conto della «gravita' del fatto»; secondo alcuni, l'art.
709-ter del codice di procedura civile, n. 2 e n. 3, introdotto dalla
legge 8 febbraio 2006, n. 54, per le inadempienze agli obblighi di
affidamento della prole; l'art. 614-bis del codice di procedura
civile, introdotto dalla legge 18 giugno 2009, n. 69, art. 49, il
quale contempla il potere del giudice di fissare una somma pecuniaria
per ogni violazione ulteriore o ritardo nell'esecuzione del
provvedimento, «tenuto conto del valore della controversia, della
natura della prestazione, del danno quantificato o prevedibile e di
ogni altra circostanza utile»; il decreto legislativo 2 luglio 2010,
n. 104, art. 114, redatto sulla falsariga della norma appena
ricordata, che attribuisce analogo potere al giudice amministrativo
dell'ottemperanza». Ha considerato «le ipotesi in cui e' la legge che
direttamente commina una determinata pena per il trasgressore: come -
accanto alle disposizioni penali degli artt. 388 e 650 c.p. - l'art.
18, comma 14, dello statuto dei lavoratori, ove, a fronte
dell'accertamento dell'illegittimita' di un licenziamento di
particolare gravita', la mancata reintegrazione e' scoraggiata da una
sanzione aggiuntiva; la legge 27 luglio 1978, n. 392, art. 31, comma
2, per il quale il locatore paghera' una somma in caso di recesso per
una ragione poi non riscontrata; l'art. 709-ter del codice di
procedura civile, n. 4, che attribuisce al giudice il potere di
infliggere una sanzione pecuniaria aggiuntiva per le violazioni
sull'affidamento della prole; o ancora il decreto-legge 22 settembre
2006, n. 259, art. 4, convertito in legge 20 novembre 2006, n. 281 ,
in tema di pubblicazione di intercettazioni illegali». L'ordinanza
9978/16 ha, invece, menzionato tra gli altri: gli legge 22 aprile
1941, n. 633, art. 158, e, soprattutto, decreto legislativo 10
febbraio 2005, n. 30, art. 125, (proprieta' industriale), pur con i
limiti posti dal cons. 26 della direttiva CE (cd. Enforcement) 29
aprile 2004, n. 48 (sul rispetto dei diritti di proprieta'
intellettuale), attuata dal decreto legislativo 16 marzo 2006, n. 140
(v. art. 158) e la venatura non punitiva ma solo sanzionatoria
riconosciuta da Cass. n. 8730 del 2011; - il decreto legislativo 24
febbraio 1998, n. 58, art. 187-undecies, comma 2, (in tema di
intermediazione finanziaria); - «il decreto legislativo 15 gennaio
2016, n. 7 (artt. 3 - 5), che ha abrogato varie fattispecie di reato
previste a tutela della fede pubblica, dell'onore e del patrimonio e,
se i fatti sono dolosi, ha affiancato al risarcimento del danno,
irrogato in favore della parte lesa, lo strumento afflittivo di
sanzioni pecuniarie civili, con finalita' sia preventiva che
repressiva». Entrambe le pronunce annettono precipuo rilievo alla
legge 8 febbraio 1948, n. 47, art. 12, che prevede una somma
aggiuntiva a titolo riparatorio nella diffamazione a mezzo stampa e
al novellato art. 96, comma 3, del codice di procedura civile, che
consente la condanna della parte soccombente al pagamento di una
«somma equitativamente determinata», in funzione sanzionatoria
dell'abuso del processo (nel processo amministrativo l'art. 26, comma
2, del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104). Mette conto citare
anche l'art. 28 del decreto legislativo n. 150/2011 sulle
controversie in materia di discriminazione, che da' facolta' al
giudice di condannare il convenuto al risarcimento del danno tenendo
conto del fatto che l'atto o il comportamento discriminatorio
costituiscono ritorsione ad una precedente azione giudiziale ovvero
ingiusta reazione ad una precedente attivita' del soggetto leso volta
ad ottenere il rispetto del principio della parita' di trattamento. E
ancora, si vedano l'art. 18 comma secondo dello Statuto dei
lavoratori, che prevede che in ogni caso la misura del risarcimento
non potra' essere inferiore a cinque mensilita' della retribuzione
globale di fatto; il decreto legislativo n. 81 del 2015, art. 28,
comma 2, in materia di tutela del lavoratore assunto a tempo
determinato e la anteriore norma di cui alla legge n. 183 del 2010,
art. 32, commi 5, 6 e 7, che prevede, nei casi di conversione in
contratto a tempo indeterminato per illegittimita' dell'apposizione
del termine, una forfettizzazione del risarcimento. L'elenco di
«prestazioni sanzionatorie», dalla materia condominiale (art. 70
disp. att. del codice civile) alla disciplina della subfornitura
(legge n. 192 del 1998, art. 3, comma 3), al ritardo di pagamento
nelle transazioni commerciali (decreto legislativo n. 231 del 2002,
artt. 2 e 5) e' ancora lungo. Non e' qui il caso di esaminare le
singole ipotesi per dirimere il contrasto tra chi le vuol sottrarre
ad ogni abbraccio con la responsabilita' civile e chi ne trae, come
le Sezioni Unite ritengono, il complessivo segno della molteplicita'
di funzioni che contraddistinguono il problematico istituto.
(5) In relazione a tal ultimo aspetto, a venire in rilievo, secondo
la migliore dottrina internazionalistica, e' una causa di estinzione
atipica o, comunque, rinveniente il proprio fondamento nel diritto
internazionale consuetudinario, anche se trasposta nel Trattato di
Vienna sui trattati del 1969.
(6) E' discusso se nel potere di revoca o di modifica debba essere
annoverato quello di rinnovare la misura al suo scadere o di
circoscriverne l'efficacia temporale. Si ritiene, non vietato
(percio' consentito) dall'art. 614-bis del codice di procedura civile
e coerente con la sua ratio, di rinnovare la misura allo spirare del
termine di durata previsto, cosi' come quello di circoscriverne
l'efficacia nel tempo.
(7) Dispone espressamente che «la penale puo' essere diminuita
equamente dal giudice (1), se l'obbligazione principale e' stata
eseguita in parte ovvero se l'ammontare della penale e'
manifestamente eccessivo, avuto sempre riguardo all'interesse che il
creditore aveva all'adempimento».
(8) Questo nuovo orientamento non aveva pero' trovato,
inizialmente, seguito nella successiva giurisprudenza della Corte,
che (fatta eccezione per Cass., sez. I, 23 maggio 2003 n. 8188) aveva
ribadito l'orientamento tradizionale, con le sentenze n. 5324/03, n.
8813/03, n. 5691/02, n. 14172/00.
(9) Tale orientamento, invero, poteva essere considerato superato
dalle successive pronunce (Cass., sez. III, 27 ottobre 2000 n.
14172), che avevano aderito all'orientamento piu' rigoroso, secondo
cui la riduzione ad equita' la penale (per manifesta eccessivita' o
sopravvenuta onerosita') non poteva ritenersi implicitamente
contenuta nella deduzione di non dovere nulla a titolo di penale
(trattandosi di deduzione incompatibile con l'istanza di riduzione).
(10) Del resto il nostro ordinamento conosce altri casi in cui
l'intervento equitativo del Giudice pur risolvendosi in favore di una
delle parti in contesa non e' tuttavia predisposto specificamente per
la tutela di un suo interesse. Si pensi all'ipotesi in cui una delle
parti abbia chiesto il risarcimento del danno in forma specifica; il
Giudice, in questo caso, anche se l'esecuzione specifica sia
possibile, ha tuttavia il potere di disporre che il risarcimento
avvenga per equivalente «se la reintegrazione in forma specifica
risulta eccessivamente onerosa per il debitore» (art. 2058 del codice
civile). E' un potere che il Giudice puo' esercitare pacificamente
d'ufficio avuta presente l'obiettiva difficolta' che il debitore puo'
incontrare nell'eseguire la prestazione risarcitoria; la difficolta',
appunto perche' obiettiva, non riguarda pero' la situazione economica
del debitore, ma piuttosto l'esecuzione stessa della prestazione. Si
pensi ancora al potere attribuito al Giudice di liquidare il danno
con valutazione equitativa se lo stesso non puo' essere provato nel
suo preciso ammontare (art. 1226 del codice civile), pacificamente
esercitatile indipendentemente dalla richiesta delle parti.
(11) L'art. 2 del decreto-legge 25 settembre 1987, n. 393,
convertito nella legge 25 novembre 1987, n. 478, disponeva l'esonero
dall'obbligo risarcitorio di cui all'art. 1591 del codice civile in
favore del conduttore di immobile non abitativo nell'ipotesi di
comprovata insussistenza della difficolta' di reperire altro immobile
idoneo. La Corte cost. (sentenza n. 22 del 1989) aveva qualificato
tale previsione come una figura di temporanea inesigibilita' della
prestazione restitutoria, disposta dalla legge impugnata in esito a
un bilanciamento degli interessi in gioco commisurato alla "grave
difficolta' per il conduttore, dipendente da circostanze estranee
alla sua volonta', di trovare un altro immobile adatto alle sue
necessita' di lavoro" 11. La Corte aveva ritenuto la norma
costituzionalmente illegittima, nella parte in cui non consentiva al
locatore di dare la prova dell'insussistenza dei presupposti per
l'esonero dal risarcimento, consistente nella dimostrazione che il
conduttore avrebbe potuto acquisire la disponibilita' di un altro
immobile con l'ordinaria diligenza. Anche successivamente, la il
Giudice delle Leggi (sent. 3 febbraio 1994, n. 19) ha riconosciuto
l'esistenza di un principio di inesigibilita' come limite superiore
alle pretese creditorie (v. sent. n. 149 del 1992). L'interesse del
creditore all'adempimento degli obblighi dedotti in obbligazione deve
essere inquadrato, infatti, nell'ambito della gerarchia dei valori
comportata dalle norme, di rango costituzionale e ordinario, che
regolano la materia in considerazione. E quando, in relazione a un
determinato adempimento, l'interesse del creditore entra in conflitto
con un interesse del debitore tutelato dall'ordinamento giuridico o,
addirittura, dalla Costituzione come valore preminente o, comunque,
superiore a quello sotteso alla pretesa creditoria, allora
l'inadempimento, nella misura e nei limiti in cui sia necessariamente
collegato all'interesse di valore preminente, risulta giuridicamente
giustificato.
(12) La giurisprudenza ricordata dal giudice a quo relativamente
all'art. 98, terzo comma, del testo unico sull'edilizia economia e
popolare, ancorche' riguardante una materia diversa da quella qui in
contestazione, e' certamente espressiva dello stesso principio la'
dove, pur nel silenzio della legge, ammette che l'occupazione
iniziale dell'alloggio possa essere omessa «per giustificati motivi»
senza comportare pregiudizio all'assegnazione dello stesso. Non v'e'
dubbio che il caso di una persona, che non puo' assolvere alla
condizione posta dalla legge per continuare a beneficiare del
contributo pubblico sul mutuo edilizio, consistente nell'occupazione
effettiva, continuativa e stabile della propria abitazione, a causa
dell'esigenza di assistere in altra citta' il proprio padre
gravemente ammalato e incapace di una vita autonoma, rientri fra le
ipotesi di contemperamento con un superiore dovere di solidarieta'
sociale, qualificato come «inderogabile» dagli articoli 2 e 29 della
Costituzione, in grado di costituire una ragionevole giustificazione
dell'inadempimento del predetto onere.
(13) Coinvolgendo categorie e valori di rilevanza costituzionale e
trattandosi di un principio generale concernente i rapporti
obbligatori come tali, esso deve avere applicazione universale
nell'ordinamento giuridico e non puo', dunque, essere trascurato
neppure nell'interpretazione della legge regionale o (come nel caso
deciso dalla C. cost.) delle province autonome.
(15) Cio', nel presupposto delle profonde interconnessioni
esistenti fra i due piani, quale desumibile anche dalla
sindacabilita' della clausola relativa all'adeguatezza del
corrispettivo, e, quindi, relativa all'equilibrio economico, ove
«intrasparente».
(16) Ne' sono accoglibili quei tentativi di ricostruzione
dell'istituto che muovono dall'accostamento della stessa - almeno per
quanto concerne il diritto contrattuale dei consumatori, al principio
di uguaglianza - la giustizia del caso concreto essendo concetto
distinto da quello dell'eguale ripartizione dei sacrifici economici o
delle situazioni giuridiche attive o passive. E la giustizia del caso
concreto, in tale specifico ambito materiale, deve intendersi come
«giustizia nella determinazione dell'equilibrio dello scambio» di cui
deve essere presidiata l'adeguatezza economica dello scambi16. Il
summenzionato art. 2, inoltre, consente di ritenere che l'equita',
nell'ordinamento vigente, connotato da un sistema rimediale
multilivello per l'innestarsi di regole di protezione di provenienza
comunitaria, possa operare non solo in presenza di una norma a cio'
abilitante, ma, ogniqualvolta, tale operare non sia precluso da una
norma, destinata a regolare diversamente la fattispecie.
(17) Ne', al fine di dilatare l'ambito operativo della norma,
sembra sufficiente - nella logica di una interpretazione
costituzionalmente orientata - richiamare il principio di
uguaglianza, assoggettando il non imprenditore-consumatore al
medesimo regime dell'imprenditore quando il primo si trovi nelle
medesime condizioni di debolezza del secondo.
(19) sentenze n. 11066 e n. 11067 del 2012.
(20) Cosi' Cass., 20 aprile 1950, n. 1056, in Giur. it., 1950, I,
1, 642 ss., e in Foro it., 1950, I, 529 ss..: L'inammissibilita' di
tale rapporto e' tradizionalmente fatta discendere dall'esigenza,
immanente nell'ordinamento, di «impedire la dissociazione in perpetuo
della proprieta' dal suo contenuto economico» l'utilita' economica
del diritto di proprieta', che la legge vuole «pieno ed esclusivo»
(art. 832 cod. civ.), rappresenta la ragione stessa della sua tutela
giuridica, sicche' l'ordinamento non potrebbe, riconoscendo un
vincolo perpetuo tale da comprimere quella utilita', privare di
oggetto la relativa tutela, conservandola a uno stadio puramente
formale e avallando una dissociazione strutturale e non meramente
contingente tra il diritto e il relativo contenuto economico (cosi'
anche Cass., 30.7.1984, n. 4530, sez. III). Per usare le parole di
Andrea Torrente, estensore di questa notissima sentenza che
rappresenta il leading case nella materia in esame, «[n]on si sa
perche' l'ordinamento giuridico dovrebbe riconoscere questo esangue
diritto costretto ad alimentarsi nei secoli soltanto della sua
vacuita'» (Cass., 20 aprile 1950, n. 1056, cit.).
(21) Invero, vi e' stato chi, stigmatizzando il ricorso a tale
parametro, ha affermato che «la giurisprudenza sulla ragionevolezza
appare ormai del tutto ingovernabile, in quanto si e' negli anni
trasformata in una sorta di valutazione circa la ingiustizia della
legge o che trattasi di una nozione "inafferrabile nel suo
contenuto"».
(22) Il principio di ragionevolezza e', peraltro, ispiratore
costante dell'attivita' esegetica come in materia probatoria come
dimostra l'approdo delle Sezioni Unite, n. 13533 del 2001, in materia
di prova dell'inadempimento, nella responsabilita' contrattuale, e
che rinviene il proprio fulcro nel criterio, chiaramente ispirato al
principio di ragionevolezza, della vicinanza alla fonte della prova
come criterio di distribuzione e selezione dell'onere della prova in
relazione alle parti del rapporto contrattuale.
(23) «Nel vigente ordinamento, alla responsabilita' civile non e'
assegnato solo il compito di restaurare la sfera patrimoniale del
soggetto che ha subito la lesione, poiche' sono interne al sistema la
funzione di deterrenza e quella sanzionatoria del responsabile
civile.»
(24) Ed ancora, per finire, la Convenzione richiede agli stati
agenti un ulteriore responsabilita' in materia di proprieta'. Invero,
difatti, il dovere dello Stato di astenersi dall'interferire nel
godimento dei beni non esaurisce il contenuto della norma in oggetto,
difatti, per come interpretato dalla Corte EDU, dall'art. 1
protocollo 1 derivano, per le autorita' nazionali, tanto obblighi
negativi quanto positivi. Questo perche' solo con la previsione di
misure anche positive puo' essere realizzata una concreta ed
effettiva, quindi piena, protezione della proprieta': alle autorita'
nazionali non e' fatto solo divieto di interferenze illegittime e non
giustificate, ma dato anche l'obbligo di collaborare attivamente al
fine di assicurare l'effettivo esercizio del diritto garantito dalla
Convenzione (si pensi, ad esempio, alle misure di protezione della
proprieta' privata). Peraltro, tali obblighi permangono in capo allo
Stato anche quando si tratta di rapporti tra privati o tra societa',
in particolare quando sussiste un nesso diretto tra le misure che un
ricorrente puo' legittimamente attendersi dalle autorita' e
l'effettivo pacifico godimento dei suoi «beni». Per tal ragione, si
parla di effetto orizzontale delle misure positive.
9. Non manifesta infondatezza della questione di legittimita'
costituzionale per violazione del principio di uguaglianza ex art. 3
Cost.
Si sono gia' evidenziati gli approdi interpretativi del Giudice
delle leggi e della Corte di cassazione, in materia di tutela
dell'equilibrio contrattuale e di poteri di rimodulazione ex officio
(come per la clausola penale), cosi' come di operare della sanzione
della nullita' (parziale, come in materia di caparra confirmatoria).
Il disconoscere la possibilita' di una determinazione ex post del
massimo esigibile, a titolo di penale, rischierebbe di creare
un'evidente disparita' di trattamento, rispetto alle predette
ipotesi, con conseguente violazione dell'art. 3 Cost.
D'altronde, e' innegabile l'assimilazione, sotto il profilo
ontologico, di tali tipologie di fattispecie. Tutte appaiono
preordinate a consentire al giudice, investito della controversia,
ove ravvisi un evidente squilibrio dei pesi e sacrifici economici
gravanti sulle parti, un intervento riequilibratore che avviene in
modo piu' pregnante in materia di clausola penale e caparra
confirmatoria, incidendo sulla misura originariamente prevista dalle
parti o, persino, escludendo la debenza della prestazione
programmata; solo ab extrinseco, invece, nell'ipotesi della misura
coercitiva indiretta, limitandosi il giudice dell'opposizione a
precetto.
Questo Giudice e' consapevole di come la possibilita' di
ricercare, in via officiosa, un equilibrio postumo delle prestazioni
contrattuali (come nel caso di clausola penale e caparra
confirmatoria) o, in generale, dei pesi gravanti sulle parti di un
rapporto, per effetto di un provvedimento giudiziale o normativo
(come nel caso delle misure coercitive indirette), rappresenti un
profilo controverso.
Cio', specie quando avvenga ex officio.
Il raffronto fra le due tipologie di fattispecie, nonostante la
loro diversita' ontologica, non e' priva di utili spunti
ricostruttivi, se non altro, per la loro analogia funzionale.
Sotto il primo profilo ovvero quello dell'equilibrio fra
prestazioni di natura contrattuale, l'ordinamento sembrerebbe, di
norma, circoscrivere l'intervento giudiziale alle ipotesi di
patologia del procedimento formativo della volonta' delle parti,
cosi' come di espressa tipizzazione normativa come accade in materia
di usura.
Invero, a tali ipotesi espresse devono essere aggiunte quelle
emerse in sede interpretativa la cui portata rispetto ai principi
tradizionali non e' ancora, perfettamente, definita.
Non e', cioe', chiaro se il rapporto fra principio
(inammissibilita' di un controllo d'ufficio, con finalita'
riequilibratorie) e deroga (ammissibilita' di siffatto sindacato) si
sia invertito o si avvii, comunque, ad essere superato.
E' il problema, piu' generale, dell'equilibrio delle prestazioni
e della loro congruita' e dell'eventuale ricerca di un equilibrio
oggettivo, ad opera del Giudice, che dovrebbe portare a sostituire ai
valori contrattuali, non un l'esito di un proprio personale
convincimento, bensi' i c.d. valori di mercato.
E', altresi', la questione del rapporto tra mercato e regolazioni
del mercato e quindi, tra liberta' negoziale, solidarieta' ed
equita', che pongono limiti alla liberta' negoziale. La liberta'
negoziale non e' un valore che puo' ritenersi assoluto, ma,
interagendo e dovendo essere contemperata con altri valori, ha una
portata relativa. I controlli del giudice, cui la stessa
soggiacerebbe, secondo la dottrina piu' moderna, sarebbero due, di
cui il primo oramai dato acquisto del bagagliaio giuridico e l'altro
piu' controverso:
I) causale;
II) contenutistico.
In entrambi i casi, si parla di controllo, destinato a
estrinsecarsi sull'assetto originario del contratto, ovvero esistente
al momento della stipulazione, al fine di verificare se lo stesso:
I) fosse sorretto da una causa originaria, idonea;
II) avesse un contenuto adeguato ed equilibrato(25).
Prendendo le mosse dalla causa, il nostro ordinamento ha una
conformazione di tipo causale ed e' percio' diverso da esperienze
come quello tedesca, cosi' come dai sistemi di Common Law,
dall'Unidroit, dal Codice europeo dei contratti, dai principi del
diritto uniforme dei contratti.
Gli stessi, infatti, non sono retti dal principio causalistico, e
si fondano sull'idea per cui e' sufficiente, per produrre un effetto
vincolante, il nudo patto, il nudum pactum.
Se la volonta' e' stata espressa ed e' sorretta da una volonta'
non viziata, cio' e' sufficiente al fine di giustificare l'effetto
obbligatorio, o traslativo.
Tali esperienze, volendo tutelare il principio di certezza dei
rapporti giuridici, si fondano sulla considerazione che le indagini
causali siano caratterizzate da eccessiva complessita', abbiano
natura introspettiva e siano, per loro natura, opinabili e, dunque,
in grado di destabilizzare il rapporto giuridico e incide
sull'efficienza del mercato.
L'ordinamento italiano, modellandosi su quello francese,
accoglie, invece, il principio di necessaria causalita' del
contratto, espressamente enunciato nel codice civile, agli articoli:
a) 1325 n. 2, secondo cui la causa rappresenta un elemento
costitutivo del contratto; b) l'art. 1343, secondo cui il contratto
e' affetto da nullita' se la causa e' illecita; c) l'art. 1344, per
cui il contratto e' nullo se la causa e' fraudolenta, d) l'art. 1418,
secondo il contratto e' nullo se la causa manca oltre che se e'
illecita; e) l'art. 1411, in virtu' del quale il contratto a favore
di terzo e' nullo nella parte relativa al trasferimento al terzo del
diritto, se la causa non ha una giustificazione adeguata avuto
riguardo all'interesse dello stipulante; f) l'art. 1322, in materia
di contratti atipici, fissa la regola della nullita' e della non
meritevolezza del contratto se non c'e' un interesse giuridico
meritevole di considerazione: g) l'art. 2645-ter: in relazione al
c.d. negozio di destinazione, positivizza il principio della
causalita' rafforzata, che deve essere addirittura sovraindividuale o
socialmente utile, vista la rilevanza del vincolo.
Anche l'art. 1376 del codice civile, che parrebbe essere ispirato
ad una logica consensualistica pura (per cui la proprieta' si
trasferisce per effetto del consenso legittimamente manifestato),
deve essere letto unitamente all'art. 1325 del codice civile, in
virtu' del quale il consenso dev'essere legittimo ed e' tale se e' un
contratto che abbia una causa idonea a giustificare il trasferimento.
L'ordinamento italiano del '42 si reggeva su un approccio
paternalistico, ponendosi il problema delle ragioni che muovono i
contraenti a stipulare.
La volonta' libera, che, nei sistemi di common law, e'
sufficiente ai fini del prodursi dell'effetto traslativo, dev'essere
sorretta da una causa, osteggiandosi gli spostamenti patrimoniali che
risultino privi di giustificazione, com'e' evidente anche dalla norma
sull'arricchimento senza causa, articoli 2041 e 2042 c.c(26).
Cio' premesso, si deve tornare a affrontare il problema se
l'equilibrio sia in se' e' valutabile dal giudice a prescindere dal
fatto che sia configurabile un problema di liberta' e, quindi, di
volonta' libera e di causalita' (ragionevole causa del singolo
contratto negoziale).
Come evidenziato da autorevole dottrina, sono individuabili tre
fasi dell'evoluzione giurisprudenziale. In un primo momento, si
afferma il principio per cui il concetto di contratto,
necessariamente giusto, e' incompatibile con il nostro ordinamento
giuridico perche' categoria sostanzialmente eversiva del principio
dell'autonomia privata giusta il quale sono le parti a decidere se il
contratto e' giusto per i loro interessi.
Se le parti hanno deciso in modo libero, con volonta' non viziata
e sulla base di una causa adeguata, la scelta di convenienza e'
insindacabile e insostituibile dal giudice.
Questa impostazione della generale irrilevanza, salvo eccezioni
normative specifiche e di stretta interpretazione, si fonda su varie
ragioni:
a. l'argomento di natura economica che richiama il liberismo
economico che, a sua volta, si ricollega al principio di liberta' e
l'impossibilita' di un sindacato che la limiti;
b. l'argomento dogmatico: il contratto e' espressione della
signoria della volonta', quale volonta' sovrana, che non concilia con
nessuna forma di tutela;
c. l'argomento sistematico: alcune norme del codice civile,
al contrario, dimostrano che il problema della giustizia rimarrebbe
estraneo al codice, in quanto problema destinato a rilevare sul piano
etico e non giuridico.
Si pensi, in particolare, agli articoli 1447 del codice civile in
materia di rescissione per lesione e 1815 del codice civile
sull'usura. Entrambe le norme, dando rilievo, eccezionalmente, allo
squilibrio, confermano la generale irrilevanza dello stesso.
Peraltro, l'art. 1447 del codice civile fa riferimento solo ad alcuni
contratti, quelli a prestazioni corrispettive, ad uno squilibrio
ultra dimidium qualificato e soprattutto ad uno squilibrio che
discende, eziologicamente, da una condizione soggettiva di
particolare vulnerabile.
Quindi, se ne deduce l'indiretta conferma dell'irrilevanza dello
squilibrio inteso in senso oggettivo. Le stesse considerazioni sono
mutuabili per l'usura 1815 del codice civile.
Prima della riforma del 2006, l'usura si profilava quale
fattispecie di soggettivo, sia a fini penali, sia ai fini civili e il
mutuo usurario, si configurava quando c'era un approfittamento dello
stato di bisogno che era idoneo a cagionare un interesse usurario.
Le suddetta considerazioni (liberismo economico, la signoria
della volonta', la previsione di norme confermative della irrilevanza
dello squilibrio oggettivo e in generale), hanno indotto gli
interpreti a ritenere che, salvi casi eccezionali di stretta
interpretazione, lo squilibrio sia quello soggettivo, che quello
oggettivo, sono irrilevanti e non valutabili dal giudice come
criterio di controllo dell'autonomia negoziale.
Alla seconda fase hanno dato la stura, a livello interpretativo,
la sentenza a SS.UU. del 13 settembre 2005 n. 18128 in materia di
clausola penale ex art. 1384 del codice civile, cosi' come la
normativa interna di recepimento della direttiva n. 93 in tema di
consumatore.
Come gia' evidenziato, le ragioni che hanno indotto al
superamento della tesi tradizionale dell'insindacabilita' della
liberta' sotto il profilo della giustizia economico-normativa del
programma sono le seguenti:
a) il principio costituzionale di solidarieta' che consente
di affermare che un contratto iniquo possa soggiacere a sanzione
anche in difetto di una norma espressa che ne preveda il divieto o
stabilisca una sanzione. Il principio di solidarieta' e' un principio
generale dell'ordinamento costituzionale, dotato di immediata
precettivita' nei rapporti fra privati e osta a regolamenti
contrattuali che producano squilibri ingiusti, sproporzionati e
inammissibili;
b) la buona fede civilistica, che e' la categoria
contrattuale attraverso cui opera la solidarieta', che implica il
divieto che un contratto assuma un contenuto contrario alla buona
fede oggettiva, e, dunque, ad una logica di correttezza e di tutela
degli interessi della controparte;
c) il superamento, anche alla luce delle interferenze
comunitarie, del principio interpretativo secondo cui le parti
sarebbero libere di tutelare, da se', i propri interessi, cioe'
avrebbero il potere di decidere liberamente cio' che e' giusto e
conveniente per la propria sfera giuridica. Il contratto giusto
presuppone la piena liberta' del contraente. Se il contraente fosse
veramente libero, si potrebbe dire che cio' che e' giusto o no lo
decide il contraente e l'ordinamento, in un sistema liberale, si
limita a prendere atto della sua conclusione. Emerge, quindi, la
consapevolezza che, non solo nelle ipotesi previste dalla legge di
vizi della volonta', di rescissione o di usura, si puo' assistere ad
una compressione della liberta' che rende l'autonomia contrattuale
non piena e non effettivamente libera, ma sono ravvisabili una serie
di casi che ineriscono ai contratti asimmetrici in senso ampio, in
cui l'asimmetria informativa, economica e professionale rende il
soggetto potenzialmente meno idoneo rispetto alla controparte a
tutelare il suo interesse;
c1) l'avvaloramento di tale superamento da parte dei
referenti normativi:
1. la direttiva che tutela il consumatore proprio perche' e' un
contratto asimmetrico, qualificando nulle le clausole inique ovvero
destinate a produrre uno squilibrio significativo;
2. la normativa nazionale di recepimento di questa direttiva: il cod.
cons. agli articoli 33 e ss.;
3. la normativa di altri ordinamenti: il BGB considera nulli o
inefficaci i contratti stipulati dalla parte con volonta' viziata da
inesperienza o immaturita', dalla mancanza di discernimento, dalla
debolezza della volonta', dall'inferiorita' - casi, questi, molto
piu' ampi rispetto a quelli tipizzati dal nostro legislatore;
4. la soft law come i Principi Unidroit fanno riferimento
all'evidente sproporzione nei contratti asimmetrici che renderebbe
applicabile la sanzione della nullita'.
Questa fase esita nelle pronunce che superano il principio della
insindacabilita', salve eccezioni tassativamente espresse dello
squilibrio, sia economico, di valore tra le prestazioni, sia
normativo, di regole e precetti.
In questa fase si pone il problema dell'individuazione delle
condizioni della rilevanza.
Una sentenza della Cass., in materia di compravendita a prezzo
vile e irrisorio, del 2015 n. 22567, conclude con una soluzione
mediana: se non e' piu' vero che lo squilibrio e' sempre irrilevante,
non e' vero neanche che e' irrilevante di per se'.
E' rilevante solo quando a venire in rilievo siano contratti
asimmetrici e solo quando, nel corso della procedura contrattuale, la
parte forte del rapporto ha abusato della propria posizione per porre
in essere un regolamento iniquo.
E' un abuso che non deve essere, necessariamente, di tipo
psicologico. Cio', in quanto non bisogna dimostrare il dolo, ma puo'
operare oggettivamente.
La circostanza che, in presenza di una situazione asimmetrica fra
le parti, la parte forte abbia conseguito un vantaggio iniquo denota
l'esistenza di un abuso oggettivo, funzionale, che non necessita di
indagini psicologiche troppo complesse, come dimostra il cod. cons.
che esclude la rilevanza della buona o cattiva fede proprio nella
disciplina degli artt. sui contratti del consumatore.
Quanto alle ragioni invocate a sostegno di questa tesi mediana,
possono richiamarsi:
1. il principio di liberta' negoziale: laddove si pervenisse
ad affermasse che, nel contratto tra due soggetti, che hanno deciso
liberamente, il giudice possa valutare se i termini dello scambio
sono proporzionati oppure no, allora l'autonomia negoziale sarebbe
destinata ad essere atrofizzata.
L'ammissione di un sindacato della giustizia contrattuale, teso a
vagliare la ragionevolezza contrattuale in relazione ai
controsimmetrici tra parti uguali si pone in evidente antitesi
rispetto al contenuto stesso della liberta' contrattuale.
Inoltre, verrebbe in rilievo una soluzione giudice-centrica che
determinerebbe una sorta di «giuristocrazia», in quanto si
attribuirebbe al giudice un potere incontrollato in relazione ad ogni
contratto e cio' sulla base di giudizi meramente soggettivi,
opinabili e, quindi, potenzialmente arbitrari, verrebbe sacrificato
oltremodo il principio di certezza dei rapporti e dei traffici
giuridici.
A tal riguardo, si evidenzia che se il sindacato deve essere
sull'ingiustizia oggettiva e cioe' sull'ingiustizia in quanto tale,
al fine di valutare se il contratto e' adeguato e giusto o meno, vi
e' la necessita' di rivenire un parametro oggettivo che almeno per lo
squilibrio economico, sia idoneo ad assicurare dei criteri di
valutazione per distinguere la sproporzione minima tollerabile
rispetto a quella in qualche misura intollerabile. Per contro,
l'ammissione di un controllo sulla ingiustizia oggettiva, non
ancorato ad un parametro oggettivo crea una sostanziale
impossibilita' di giudizi attendibili e controllabili ex post.
D'altronde, in tal senso, depone anche la disciplina in materia
di usura: nel momento in cui il legislatore speciale l'ha
oggettivizzata, espungendo dalla fattispecie incriminatrice
l'approfittamento dello stato di bisogno, ha fissato un parametro
oggettivo che e' il superamento del tasso-soglia. La stessa
disciplina comparata, internazionale, i principi unidroit, i principi
europei dei contratti, non danno mai rilievo alla gross disparity in
quanto tale, ma a quella derivante da una condizione di debolezza e
di vulnerabilita'. Condizioni che possono essere anche atipiche,
perche' non riducentisi ai vizi di volonta' tipizzati e ricomprendono
gli status, come la minore eta' o la condizione di lavoratore
rispetto al direttore o al datore di lavoro; le relazioni fiduciarie
in ambito familiare, scolastico, medico; i vizi incompleti della
volonta'; la debolezza informativa. In ogni caso, si deve trattare di
giudizi di carattere asimmetrico riguardanti contratti
asimmetrici(27).
La terza fase e' quella del riconoscimento della rilevanza
generalizzata dello squilibrio (che diverrebbe sindacabile dal
giudice in relazione a tutti i contratti, non solo per quelli
asimmetrici, con un sindacato che riguarda l'ingiustizia in se' e non
solo l'ingiustizia come frutto di una procedura viziata di formazione
della volonta'.
A venire in rilievo sono, in particolare, le ordinanze n. 248 del
2013 e n. 13 del 2014 Corte cost., SS.UU. C. cass. n. 9140 del 2016
sulla claims made ulteriormente puntualizzata nel 2017 n. 10509 e
infine SS.UU. n. 4224 del 2017.
Queste pronunce, pur diverse in relazione alla materia cui
afferiscono se in campi diversi, introducono un concetto nuovo:
l'equita' contrattuale sarebbe un valore generale che il giudice deve
tutelare a prescindere dall'asimmetria delle parti e di eventuali
processi perturbativi della volonta'. Cio' in quanto a rilevare, alla
luce dei precetti costituzionali di solidarieta', sarebbe anche la
mera substantial injustice.
Le Sezioni Unite, in materia di claims made, del 2016 e del 2017,
hanno affermato che, se la clausola claims made di carattere spurio
(=che limita l'indennizzo agli infortuni che, non solo siano accorsi,
ma anche denunciati nel corso della vigenza contrattuale) non e' di
per se' nulla, in concreto puo' diventare tale laddove produca uno
squilibrio significativo di carattere irragionevole, perseguendo un
interesse ingiusto e sproporzionato e producendo una incontrollata
soggezione dell'assicurato nei confronti della assicurazione, cosi'
violando i principi di solidarieta' e parita' e di non
prevaricazione.
Infine, SS.UU. del 2017, con riferimento alla clausola nel
contratto di concessione per la derivazione d'acqua che imponeva il
pagamento del canone anche durante il periodo di non utilizzabilita',
per motivi oggettivamente impossibilitanti all'uso della fonte
idrica, hanno ritenuto che si tratti di una clausola iniqua,
sperequata che deroga la corrispettivita' della concessione e che
trasforma il contratto atipico commutativo, in un contratto aleatorio
che lede l'art. 41 Cost.
Quindi, tutte le suddette sentenze danno rilevanza alla
ingiustizia in quanto tale e utilizzano come parametri di
valutazione, addirittura principi costituzionali fondamentali, come
la solidarieta', la parita', la non prevaricazione, l'equita',
l'iniziativa economica.
Tale orientamento non ha mancato di destare plurime critiche:
il sovvertimento radicale del principio di autonomia privata.
A tal riguardo, e' stato affermato che e' difficile immaginare
qualcosa di piu' contrastante con il principio di autonomia privata
rispetto al precetto dell'ingiustizia contrattuale, sindacabile in
base a valori che, secondo taluna dottrina, sarebbero di rilievo
costituzionale;
il venir meno delle certezza dei rapporti giuridici: con
conseguente «deriva da Common Law», che attribuisce al giudice il
compito, sostanzialmente sovrano, tipico di quei sistemi. Padolesi
afferma che l'art. 2 Cost. diventa in un qualche modo un apriscatole
giuridico, che entra nel contratto e impone un contenuto conforme a
buona fede;
il superamento della distinzione tra norme di comportamento e
norme sull'atto: se la substantive justice implica una valutazione in
termini di giustizia sostanziale, allora sono prefigurabili norme sul
comportamento, la cui violazione determina un divieto dell'atto
ingiusto e, quindi, una causa di nullita'.
Invero, le ipotesi venute al vaglio del giudice di legittimita' e
di quello delle leggi, sembrano connotarsi per il carattere
qualificato della soglia di proporzione che legittima l'intervento
giudiziale. Deve, infatti, ricorrere un'iniquita' manifesta, ovvero
eclatante e tale da esigere una ricomposizione.
Dunque, pur nella sua generalizzazione l'intervento giudiziale
non puo' prescindere dalla verifica di tale soglia di gravita' della
sproporzione.
Invero, secondo questo Giudice remittente, non esistono valide
ragioni logiche per ritenere che tale ordine di considerazioni sia
estendibile anche alle ipotesi in cui la proporzione debba essere
vagliata con riguardo non alle prestazioni convenute dalle parti, ma
ai sacrifici imposti aliunde, ad esempio, come nella fattispecie
concreta, per effetto di un provvedimento giudiziale o, in generale,
di un factum principis (come nel caso di un'ipotetica sopravvenienza
normativa).
Quanto alla possibilita' di poter prescindere da un'istanza in
tal senso della parte interessata, affermata, per la prima volta,
dalle gia' menzionate Sezioni Unite del 2005 e ribadita dalla Corte
costituzionale nel 2014, con riguardo alle prestazioni contrattuali,
si ritiene di non poter prescindere dai correttivi che si vanno a
enucleare.
In particolare, deve ritenersi che quando, come nel caso di
specie, le difese della parte interessata non siano incompatibili con
l'intervento giudiziale, tale sindacato officioso debba essere
assicurato. Cio', anche a prescindere dall'esistenza di una formale
istanza di parte.
Si pensi anche all'ipotesi in cui, a prescindere dalle richieste
di tutela formulate, sia stata, comunque, compiuta attivita'
assertiva e di prova ad opera delle parti che sia utile a consentire
l'esercizio di tale potere officioso. Cio', nella premessa che
proprio l'assolvimento di tale onere processuale, ad opera delle
parti, costituisce condizione per la pronuncia ex officio, non
potendo il Giudice, come noto, far uso della propria scienza privata.
In tal senso, e' richiamabile anche Tribunale Ancona sez. II, 19
agosto 2019, n. 1457, secondo cui «In tema di clausola penale, il
potere di riduzione ad equita', attribuito al giudice ex art. 1384
del codice civile, a tutela dell'interesse generale dell'ordinamento,
puo' essere esercitato d'ufficio, ma l'esercizio di tale potere e'
subordinato all'assolvimento degli oneri di allegazione e prova,
incombenti sulla parte, circa le circostanze rilevanti per la
valutazione dell'eccessivita' della penale, che deve risultare ex
actis ossia dal materiale probatorio legittimamente acquisito al
processo, senza che il giudice possa ricercarlo d'ufficio».
Specularmente, l'autonoma iniziativa giudiziale, in materia di
riequilibrio contrattuale, dovrebbe ritenersi preclusa quando sia
manifestata (espressamente o tacitamente) una volonta' contraria alla
stessa.
Orbene, mutata mutandis, deve ritenersi che, anche nella
fattispecie concreta di intervento volto ad assicurare la
proporzionalita' non di una prestazione, liberamente convenuta, ma
del sacrificio imposto, ope iudicis, lo stesso non possa, comunque,
attuarsi in contrasto con la volonta' della parte a cio' interessata.
10. Sintesi della questione
Come evidenziato dalla difesa dell'opponente, solo a seguito
della riforma del 2022, la nuova formulazione dell'art. 614-bis del
codice di procedura civile - inapplicabile nel caso di specie,
ratione temporis - ha previsto che, nell'applicazione della misura
coercitiva indiretta, il giudice, che ha emesso il provvedimento,
«puo'», ma non deve, «fissare un termine di durata della misura,
tenendo conto della finalita' della stessa e di ogni circostanza
utile».
La vecchia formulazione della norma, applicabile, invece, ratione
temporis, nulla prevedeva al riguardo.
Nondimeno, ne' la norma previgente ne' la nuova - conservando una
rigida dicotomia fra fase della cognizione e fase dell'esecuzione -
consentono al G.e. di fissare un tetto massimo o un termine finale di
durata della misura all'astreinte, irrogata dal Giudice della
cognizione.
Infatti, tale facolta' parrebbe concessa - e solo dalla novella -
in alternativa, al giudice della cognizione - ovvero a quello che
abbia emesso la misura in sede cautelare o che tale misura abbia a
emettere ex novo o a confermare in sede di merito - oppure a quello
dell'esecuzione, senza alcuna possibilita' che il secondo possa
intervenire, seppure solo in chiave specificativa e integrativa e non
correttiva, sull'operato del secondo.
Nel caso di specie, il giudice del cautelare, in sede di
emissione dell'ordinanza, assunta il 2 settembre 2022, non fissava un
limite temporale di operativita' della misura, superato il quale si
potesse (e dovesse) prendere atto della sua esorbitanza
sopravvenuta(28).
Si e' creata, quindi, una situazione paradossale - peraltro, non
eccezionale, ma suscettibile di riproporsi anche in altre fattispecie
-: l'astreinte - sia che la si riscostruisca in termini risarcitori,
sia che la si consideri come finalizzata a sanzionare l'inadempimento
di un'obbligazione di consegna rientrante nell'adempimento del
contratto di prestazione d'opera professionale - permetterebbe al
creditore di conseguire, anzitempo, quanto richiesto nel successivo
giudizio di merito, con domanda di risarcimento per equivalente
derivante dalla violazione contrattuale o, persino, di conseguire una
misura economica sine die e, per sua stessa natura, sproporzionata.
Cio', peraltro, senza che sia in qualche modo previsto che,
nell'ipotesi in cui, come quella di cui al caso di specie, venga ad
essere riconosciuta al creditore, una tutela risarcitoria per
equivalente, la sanzione irrogata sia destinata a cessare di operare
per il futuro.
Peraltro, la possibilita' di un'interpretazione
costituzionalmente conforme non sembra agevolmente praticabile per le
ragioni gia' espresse.
Cio' sembra doversi escludere, nonostante il tentato richiamo ai
principi generali di:
1. buona fede oggettiva che sembrerebbe ristretta all'ambito
negoziale;
2. equita', secondo molti, richiedente, per la sua
operativita', un'espressa previsione di legge;
3. della generale rilevanza delle sopravvenienze e della
correlata clausola rebus sic stantibus.
Cio', in considerazione della difficolta' di qualificare, nei
suddetti termini, l'esorbitanza della somma maturata, sulla base di
una misura, periodica, fin dall'origine predefinita e conosciuta dal
destinatario. Da cio', al contempo, la non invocabilita' dell'art.
669-decies del codice di procedura civile, in materia di revoca delle
misure cautelari.
Tale assetto regolatorio parrebbe, ad una valutazione preliminare
e di non manifesta infondatezza, quale e' tenuto questo Giudice,
porsi in contrasto:
1) coi richiamati principi costituzionali di ragionevolezza e
di proporzionalita', per l'evidente esorbitanza del sacrificio
economico inferto al destinatario della misura;
a1) nonche' di uguaglianza, l'ordinamento prevedendo, in
altre sedi normative (come quella della caparra confirmatoria e della
penale) in presenza di un sacrificio patrimoniale manifestamente
sproporzionato, forme di riequilibrio, variamente modulate, peraltro,
disponibili anche d'ufficio;
b) sotto il profilo della tutela del dominium, con l'art. 42,
comma 4, Cost. e - data la valenza di diritto personale,
fondamentale, della persona cui lo stesso viene elevato dal sistema
convenzionale - con l'articolo 117 Cost., come integrato, quale norma
interposta, dell'art. 1 del Protocollo 1 della Convenzione europea
dei diritti dell'uomo (CEDU). Infatti, una penale sproporzionata e
sine die espone la sfera patrimoniale del destinatario della stessa -
e, dunque, i beni di tal ultimo - al pericolo di un'esecuzione
forzosa, sia mobiliare sia immobiliare, con compressione ingiusta
dell'oggetto del suo dominium;
c) con gli articoli 24, 113 Cost., 6, 13 CEDU e 47 Cost, che
positivizzano, a vari livelli, il principio di effettivita' della
tutela. Infatti, lo strumentario processuale attuale non
consentirebbe al Giudice dell'esecuzione di porvi rimedio d'ufficio
al sacrificio sproporzionato cui e' esposto il destinatario della
misura, ponendo alla misura un tetto massimo (ne' quantitativo ne'
temporale).
11. Quesito posto al vaglio della Corte costituzionale
Sulla base di quanto sinora esposto, dunque, ritiene questo
Tribunale che siano configurabili le condizioni richieste ai fini del
rinvio al Giudice delle leggi.
Occorre, quindi, procedere al rinvio pregiudiziale degli atti -
per la risoluzione della questione di diritto sopra illustrata - al
Giudice delle leggi, al quale la presente ordinanza deve essere
immediatamente trasmessa (con comunicazione alle parti).
Dunque, il quesito che si vorrebbe sottoporre al Giudice delle
leggi e' quello relativo all'eventuale contrarieta' ai principi di
ragionevolezza e di proporzionalita' della previgente formulazione
dell'art. 614-bis del codice di procedura civile, applicabile ratione
temporis, nella parte in cui non prevede la possibilita', da parte
del Giudice dell'esecuzione, di determinare ex post un tetto
quantitativo massimo (o anche solo temporale) all'operare delle
misure ex 614-bis del codice di procedura civile su istanza di parte
o, come nel caso di specie, anche d'ufficio. Cio', ogniqualvolta una
fissazione ex ante non sia avvenuta ne' ad opera del giudice della
cautela, ne' del giudice del merito (e sempre che non esista un
giudicato in relazione a tale profilo). Ove, infatti, esista una
pronuncia passata in giudicato con riguardo all'entita' massima della
misura coercitiva esigibile, qualunque interferenza da parte del
giudice dell'opposizione darebbe luogo ad una violazione della res
iudicata.
Si chiede all'ill. ma Corte di valutare e dichiarare tale profilo
d'incostituzionalita', sempre, che l'ill.ma Corte adita non ritenga
ammissibile - come pure prospettato dalla suesposta dottrina
minoritaria, non del tutto condivisa da questo Giudice - un'esegesi
della norma che consenta al Giudice dell'opposizione all'esecuzione
di determinare un tetto quantitativo massimo (o anche solo temporale)
all'operare delle misure ex art. 614-bis del codice di procedura
civile (su istanza di parte o, come nel caso di specie, anche
d'ufficio).
A tale remissione consegue la necessita' di sospendere il
procedimento (non configurandosi peraltro, almeno allo stato, alcuna
necessita' di compiere atti urgenti, ne' attivita' istruttorie non
dipendenti dalla soluzione della questione oggetto del rinvio
pregiudiziale), sino alla determinazione da parte del Giudice delle
leggi ed alla successiva riassunzione.
__________
(25) Tale sindacato, inerendo al momento genetico, non va confuso
con quello che puo' essere svolto alla luce di sopravvenienze che
incidano sui presupposti iniziali della stipulazione, delle c.d.
sopravvenienze perturbatrici, idonee a sconvolgere il programma
negoziale, o a interferire sullo stesso, alla luce di eventi
imprevisti al momento della pattuizione. Si tratta di sopravvenienze
tipiche, come la eccessiva onerosita', l'impossibilita' sopravvenuta,
ma anche quelle atipiche, come la presupposizione, come il difetto
sopravvenuto della causa del negozio, come lo squilibrio sopravvenuto
(26) In relazione al principio di causalita', deve ricordarsi
quanto segue: i) lo stesso e' generale e vale per tutti i negozi,
anche se espresso in modo esplicito per il solo contratto. Vale per
tutti i contratti - tipici/atipici, gratuiti/onerosi, formali/non
formali - e anche per tutti i negozi diversi dal contratto, com'e'
reso evidente dall'art. 1324 del codice civile, che per i negozi
unilaterali rinvia alle norme compatibili sul contratto, tra cui c'e'
indubbiamente la norma sulla causalita'. In questo, per esempio, ci
differenziamo dal sistema anglosassone, che collega la causa alla
forma, per cui reputa necessaria la consideration, solo quando non
c'e' una forma pubblica, mentre laddove questa c'e', essendoci il
controllo notarile, assorbe il problema causale. Il problema della
forma non sostituisce, ma lascia impregiudicato il problema della
causa. Il principio di necessaria causalita' trova una deroga
parziale solo nei titoli di credito, negli articoli 1992 e ss. del
codice civile; ii) Il principio di causalita' e' inderogabile: non
solo e' generale, ma e' anche imperativo, cioe' le pattuizioni che
stabiliscano che l'effetto giuridico si produrra', nonostante la
mancanza di causa, quindi negozi che svincolino la validita' del
negozio dal problema causale sono chiaramente illeciti, perche'
contrari alla norma imperativa non derogabile che impone la causa. Si
puo' non stipulare un contratto attraverso l'intento giuridico
negativo (=un accordo tra gentiluomini), ma se lo si stipula non si
puo' derogare alle norme imperative del contratto. Un contratto senza
causalita' non e' un contratto valido a prescindere dalla volonta'
delle parti; iii) Non solo il principio di causalita' e' generale e
non e' derogabile dalle parti, ma non e' neppure derogato
dall'ordinamento giuridico. Tranne in parte i titoli di credito, che
pero' hanno una disciplina legata alla letteralita' e alle modalita'
di circolazione che li rende non comparabili con il contratto in
generale, non esiste alcun ipotesi normativa che preveda questo
precetto: questo contratto e' valido ed efficace definitivamente,
nonostante l'assenza di una causa. Non c'e' nessuna ipotesi in cui il
Legislatore svincoli la validita' e l'efficacia definitiva del
contratto dal problema della causa. E' come se il legislatore avesse
percepito il valore costituzionale del principio causale e quindi
l'impossibilita' di derogarlo in pieno, anche per gli atti di legge.
Ci sono dei temperamenti e delle deroghe parziali del principio
causale, ma non delle deroghe di carattere assoluto, ne' eccezioni di
natura radicale.
(27) Questa seconda fase, si conclude con il porsi il problema di
quale sia la sanzione che l'ordinamento giuridico da' a un contratto
ingiusto frutto di un procedimento iniquo in un contratto
asimmetrico. In disparte le fattispecie tipiche, per le quali la
legge offre una soluzione espressa (v. l'art. 33 che qualifica come
nulli i contratti limitatamente alle clausole che determinano uno
squilibrio normativo ed eccezionalmente economico), la soluzione che
viene prefigurata si fonda sul binomio responsabilità -inefficacia. Si
esclude, per contro, la nullita' perche' l'art. 1418, comma 1 del
codice civile non e' estensibile alle violazioni procedimentali e,
quindi, quando risulti violata una norma comportamentale. Si ritiene
che l'art. 36 del cod. cons., che sancisce la nullita' delle clausole
di cui all'art. 33 cod. cons., sia una norma dalla portata
eccezionale e, come tale, non suscettibile di applicazione analogica.
Invero, a tal riguardo, sono individuabili delle ipotesi in cui la
disparita' da' luogo a mancanza di causa, dunque una nullita' sul
piano causale. Quindi, sotto il profilo dell'apparato rimediale, la
regola sarebbe: a) la responsabilita' precontrattuale, per i danni
patiti dal contraente debole per aver stipulato un contratto meno
favorevole di quello che avrebbe altrimenti stipulato. Dunque,
sarebbe prefigurabile una responsabilita' precontrattuale da
contratto valido; b) laddove la tutela risarcitoria non sia efficace,
perche' il problema riguarda l'an piu' che il contenuto economico, lo
squilibrio normativo piu' che quello valoristico, o vi sia una
difficolta' di prova del danno risarcibile, e' prefigurabile il
ricorso all'inefficacia ex bona fidem. La dottrina si e' espressa in
termini di esecuzione in forma specifica dell'obbligo di buona fede
oggettiva che deve ritenersi violato dal contraente che abbia imposto
un regolamento iniquo. Tale forma rimediale si sostanzia in un
diniego di tutela rispetto a comportamenti scorretti e, quindi,
nell'inesigibilita' della prestazione contrattuale, nella parte in
cui prevede delle prestazioni inique. L'iniquita' e', dunque, un
profilo che il giudice deve stigmatizzare, ma solo se si tratta di
una ingiustizia procedurale, registrata in relazione a dei contratti
asimmetrici.
(28) Va precisato pero' che alla data di emissione non risultava
ancora in vigore la riforma di cui all'art. 3, comma 44, decreto
legislativo 10 ottobre 2022, n. 149, con effetto a decorrere dal 30
giugno 2023 e con applicazione ai procedimenti instaurati
successivamente a tale data.
P.Q.M.
Il Tribunale ordinario di Brindisi, pronunziando nel giudizio in
epigrafe meglio indicato:
1. Visti gli articoli 134 della Costituzione, 1 della legge
cost. 9 febbraio 1948, n. 1, e 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87
dichiara rilevante nel caso di specie e non manifestamente infondata
la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 614-bis del
codice di procedura civile con riferimento:
a) all'art. 3 della Costituzione, con particolare
riferimento ai principi di uguaglianza, ragionevolezza e
proporzionalita';
b) all'art. 42, comma 4, Cost. e - data la valenza di
diritto personale, fondamentale, della persona cui lo stesso viene
elevato dal sistema convenzionale - all'articolo 117 Cost., come
integrato, quale norma interposta, dell'art. 1 del Protocollo 1 della
Convenzione europea dei diritti dell'uomo (CEDU);
c) agli articoli 24, 113 Cost., 6, 13 CEDU e 47 Cost.;
2. dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte
costituzionale, perche': «voglia dichiarare l'incostituzionalita'
dell'art. 614-bis del codice di procedura civile - nella formulazione
applicabile, pro tempore, alla fattispecie concreta - nella parte in
cui - legittimando un vincolo sine die e, quindi, perpetuo - non
prevede, da parte del Giudice dell'opposizione a precetto,
l'esercizio, su istanza di parte o d'ufficio, del potere di
determinare un tetto quantitativo massimo (o anche solo temporale)
all'operare delle misure ex art. 614-bis del codice di procedura
civile. Cio', nell'ipotesi in cui tale fissazione non sia gia'
avvenuta, ex ante, da parte del giudice della cautela, oppure da
parte dal giudice del merito (e sempre che non esista un giudicato
sul punto)»;
3. sospende il procedimento sino alla restituzione degli atti
da parte della successivamente alla definizione della questione;
4. ordina che, a cura della cancelleria, la presente
ordinanza sia notificata alle parti in causa ed al Presidente del
Consiglio dei ministri e comunicata ai Presidenti della Camera dei
deputati e del Senato della Repubblica.
Brindisi, 29 luglio 2025
Il GI: Natali